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Oltre quella dei quattrini, la zitellona aveva infatti la passione della vanità nobiliare. Tutti gli Uzeda erano gloriosi della magnifica origine della loro schiatta; donna Ferdinanda ne era ammalata. Quando ella parlava di «don Ramon de Uzeda y de Zuellos, que fue señor de Esterel», e venne di Spagna col Re Pietro d’Aragona a «fondarsi» in Sicilia; quando enumerava tutti i suoi antenati e discendenti «promossi ai sommi carichi del Regno»: don Jaime i «che servì al Re don Ferdinando, figlio dell’imperator don Alfonso, contra ai mori di Cordova nel campo di Calatrava»; Gagliardetto, «caballero de mucha qualitad»; Attardo, «cavaliero spiritoso, ed armigero»; il grande Consalvo «Vicario della Reina Bianca»; il grandissimo Lopez Ximenes «Viceré dell’invitto Carlo v»; allora i suoi occhietti lucevano più dei carlini di nuovo conio, le sue guance magre e scialbe s’accendevano. Indifferente a tutto fuorché ai suoi quattrini, incapace di commoversi per qualunque avvenimento o lieto o triste, ella s’appassionava unicamente alle memorie dei fasti degli antenati. V’era in casa, ai tempi di suo nonno, una bella libreria; ma, quando il principe Giacomo xiii cominciò a navigare in cattive acque, fu venduta prima di tutto; ella salvò una copia del famoso Mugnòs, Teatro genologico di Sicilia, dove il capitolo «della famiglia de Vzeda» era il più lungo, occupando non meno di trenta grandi pagine. E quelle pagine secche e ingiallite, esalanti il tanfo delle vecchie carte, stampate con caratteri sgraziati ed oscuri, con ortografia fantastica; quella enfatica e bolsa prosa siculo-spagnola secentesca era la sua lettura prediletta, l’unico pascolo della sua immaginazione; il suo romanzo, il vangelo che le serviva a riconoscere gli eletti tra la turba, i veri nobili tra la plebe degli ignobili e la «gramigna» dei nobili falsi. «Chiaramente per tutti gli Hifpani genologifti fi fcorge, coi suoi felici fucceffi e con le occasioni debbite, qvale vna delle più antiche e fublimi famiglie delli regni di Valenza e d’Aragona la famiglia Vzeda, e per tvtto è uolgato effer ella fiffatamente cognominata dal nome, di vna fva terra detta la baronia di Vzeda, qvale alcanzò da qvei Re, in ricompenfo dei fvoi feruigi et indi coi Trionfi della militia nel Svpremo Cielo delle glorie militari peruenne.» Questo stile era d’una suprema eleganza, d’una straordinaria magnificenza per donna Ferdinanda, la quale leggeva letteralmente uolgato, peruenne e faceva già troppo, poiché essendo una «porcheria» per le donne della sua casta, al principio del secolo, sapere di lettere, ella aveva appreso a legger da sé, pei bisogni delle sue speculazioni.

Ora, con questo infatuamento della zitellona per la propria eccelsa origine e per l’istituzione della nobiltà in generale, la principessa pensò di dar per moglie a Raimondo, chi? Una Palmi di Milazzo, la figliuola d’un barone «da dieci scudi» del quale il Mugnòs non faceva e non poteva fare la più lontana menzione! Gloriavasi, questo «barone» Palmi, di certi privilegi di centocinquant’anni addietro; ma che erano centocinquant’anni paragonati ai secoli di nobiltà degli Uzeda? Senza contare che di questi privilegi non parlava neppure il marchese di Villabianca, autore fiorito nientemeno che un secolo dopo il Mugnòs!… La principessa, a cui la nobiltà stava a cuore, se non quanto a donna Ferdinanda, certo moltissimo, aveva giudicato invece sufficienti e fors’anche soverchi quei centocinquant’anni dei Palmi, giusto perché, volendo che la moglie del suo Raimondo fosse sottomessa dinanzi al beniamino come una schiava dinanzi al padrone, e che egli potesse trattarla d’alto in basso e farne quel che gli piaceva, aveva perfino pensato un momento di sceglier per lui l’umile figliuola di qualche ricco fattore… Il dissidio fu quindi violento. Già donna Ferdinanda, acquistato lo stabile dei Calasaro, era andata via dal palazzo Francalanza e aveva messo casa, continuando a squartar lo zero ma pagandosi il lusso della carrozza. I legni erano due vecchi trespoli comprati per pochi ducati ma decorati dello stemma di casa Uzeda; i cavalli, due magre bestie a cui ella dava in pasto un po’ di paglia del Carrubo, un pugno di crusca e la verdura marcita. Il cocchiere, oltre al servizio della stalla e della scuderia, faceva da cuoco e da staffiere. I sarcasmi della principessa eran divenuti, per tutto questo, naturalmente più aspri; e adesso la zitellona teneva fronte alla cognata. Ricca com’era di quattrini e come si credeva di senno, donna Ferdinanda pretendeva che le facessero la corte e la tenessero da conto; mentre prima, stando insieme coi parenti, era rimasta indifferente ai loro affari, voleva ora, lontana, ficcare anche lei il naso in tutte le quistioni di famiglia. Invece, la principessa non tollerava né protezione né imposizioni; quindi liti ogni giorno. Da un’altra parte don Blasco, esasperato per la fortuna della sorella, perdette il lume degli occhi vedendo costei fargli la concorrenza nella sua parte di critico minuto e di giudice infallibile; la zitellona, viceversa, gli disse il fatto suo per la vita scandalosa che conduceva; e un giorno, a proposito d’una certa balia da prendere per il principino, siccome a donna Ferdinanda il latte di costei pareva sospetto, mentre don Blasco lo dichiarava di prima qualità – le male lingue dicevano che aveva ragione di conoscerlo – fratello e sorella vennero quasi alle mani: chetàti a fatica dal nipote Giacomo, non si parlarono mai più. Il più strano era che, non parlandosi mai, evitandosi come la peste, essi soli, in quella casa, vedevano le cose a un modo e in tutto esprimevano eguali opinioni. Come don Blasco aveva gettato fuoco e fiamme contro il matrimonio di Raimondo, così donna Ferdinanda era divenuta una vipera. Non solamente quella bestia della cognata proteggeva il terzogenito in odio all’erede del titolo, non solamente si metteva sotto i piedi la «legge» che voleva la continuazione del solo ramo diretto; ma gli dava in moglie, chi, Signore Iddio? Una Palmi di Milazzo!… Palmi? Donna Ferdinanda non la chiamò mai con questo nome; ma ora Palma, ora Palmo, e le diede come arma parlante ora la mezza canna, che conta appunto quattro palmi, con la quale i rivenduglioli misurano la cotonina; ora due palme di piedi, che tra quella gente dovevano esser villosi, da quei contadini che erano. Le due cognate, a furia di sarcasmi e di liti, per poco non si strapparono i capelli; come don Blasco, la zitellona non mise più piede in casa Francalanza; ma, come il fratello, non soffrendo di starne a lungo lontana, ci tornò alla prima occasione.

E solamente gli altri due cognati, il duca Gaspare e il cavaliere don Eugenio, non avevano dato tanti fastidi a donna Teresa.

Il Cavaliere don Eugenio, al tempo di quelle lotte, non era in Sicilia. Destinato sulle prime ad entrare anche lui ai Benedettini come il fratello don Blasco, s’era salvato adducendo la propria inclinazione al mestiere delle armi. Fu la prima menzogna che disse, per evitare il convento: non poteva sentirsi chiamato ad un mestiere quasi sconosciuto in Sicilia, dove, come non c’era coscrizione e tra i popolani correva il motto: «meglio porco che soldato», così neppure la nobiltà si dava alla milizia. Ma don Eugenio voleva anch’egli esser libero e guadagnarsi un posto nel mondo. Rimasto al Noviziato di San Nicola per educazione fin quasi a diciott’anni, se ne andò a Napoli all’uscir dal monastero, e fu ascritto alla nobile compagnia delle Reali Guardie del Corpo, certo di salir subito ai primi gradi. Dopo dieci anni era appena sotto-brigadiere. Infatuato come tutti gli Uzeda della sua nobiltà, aveva guardato d’alto in basso i compagni ed anche un poco i superiori, vantando, oltre i sublimi natali, sterminate ricchezze; invece, al momento di mostrarle coi fatti, i giovani signori napolitani mettevano fuori i quattrini, mentre il vanaglorioso cadetto siciliano si ritraeva o, peggio, faceva debiti che poi non pagava. Trattato da millantatore, fu posto quasi al bando dai compagni; e del resto egli stesso, riconoscendo di non aver raggiunto lo scopo, quantunque ai parenti scrivesse che il magro successo era da attribuire all’invidia ed all’ingiustizia, risolse un bel giorno di dar le dimissioni. Restò tuttavia a Napoli, donde annunziava che le case più ricche e nobili gli erano aperte come la sua propria, e che il duca Tale ed il principe Talaltro gli volevano dare in moglie le figliuole; nessuno di quei matrimoni, continuamente spacciati come certissimi, si combinava mai. Frattanto, abbruciato di quattrini, egli aveva chiesto un impiego a Corte; e nonostante i precedenti poco promettenti, pure, per ragioni politiche, premendo ai Borboni di tenersi amiche le grandi famiglie siciliane, egli fu nominato Gentiluomo di Camera, con esercizio. Nel 1852, inaspettato ospite, tornò a casa. Diceva d’esser passato dal servizio attivo all’onorario perché il clima di Napoli non gli conferiva; una certa voce sorda parlò invece di cose poco pulite combinate con un fornitore di Casa reale… Da Napoli, l’ex Guardia del Corpo e Gentiluomo di Camera tornò con una nuova vocazione: l’archeologia, la numismatica e l’arti belle. Portò con sé una quantità di rottami provenienti, diceva, da Pompei, da Ercolano, da Pesto, e rappresentanti un valore grandissimo; tante tele da farne la velatura d’un vascello, «tutte dei più famosi autori: Raffaello, Tiziano, Tintoretto»; ricolmò di quella roba il quartierino che aveva preso in affitto – perché la principessa non volle saperne di riammetterlo in casa – e cominciò a far commercio d’antichità. Giacomo era ammogliato da due anni, ed aveva già l’aspettato primogenito; Raimondo stava a Firenze con la moglie, dove era loro nata una bambina.

Neppure il duca Gaspare s’era trovato in casa, al tempo dei matrimoni; ma, benché da lontano, fu l’unico che approvasse l’opera della cognata, attirandosi naturalmente per quell’approvazione, e più per il motivo che gliela dettava, i fulmini di donna Ferdinanda e di don Blasco. Questa ragione era d’indole tutta politica. Il barone Palmi, padre di Matilde, liberale d’antica data, aveva preso alla rivoluzione del Quarantotto una parte così attiva che, dopo la restaurazione, colpito da una condanna capitale, s’era rifugiato a Malta, e senza specialissime protezioni e solenni impegni di non cominciar da capo, quell’esilio, invece di pochi mesi, sarebbe durato quanto la sua vita. Nondimeno, graziato ed ammonito, egli ricominciò a dirigere nel suo paese e in quasi tutta la Sicilia il movimento contro il regime borbonico. Ora queste sue opinioni politiche e questa sua autorità nell’ancor vivo partito liberale furono le ragioni per cui il duca vide bene il matrimonio della figliuola di lui con Raimondo.

 

Fino al Quarantotto, il duca, come tutti gli Uzeda, era stato borbonico per la pelle. Ma quantunque, come secondogenito e duca d’Oragua, avesse avuto qualcosa di più del magro piatto ed alcuni zii materni avessero contribuito ad impinguare il suo appannaggio, pure egli aveva un’invidia del primogenito e una smania d’arricchire e di farsi valere nel mondo più grande di quella dei fratelli, giacché la sua dotazione svegliava ma non appagava i suoi appetiti. Mentre era durato il fedecommesso, i cadetti avevano sopportato con discreta rassegnazione il loro stato miserabile, non potendo dar di cozzo contro la legge; ora che i primogeniti erano preferiti per un’idea che al soffio dei nuovi tempi pareva pregiudizio, l’invidia li rodeva. Per questo sentimento che aveva fatto di don Blasco un energumeno, e alimentato la cupidigia di don Eugenio, il duca aveva dato ascolto alle lusinghe dei rivoluzionari, ai quali premeva di trarre dalla loro un personaggio importante come il duca d’Oragua, secondogenito del principe di Francalanza. Egli non cessò per altro dal far la consueta corte all’Intendente, a fine di prepararsi un paracadute nel caso di possibili rovesci; associossi al Gabinetto di lettura, covo dei liberali, senza lasciare il Casino dei Nobili, quartier generale dei puri, e insomma si destreggiò in modo da navigar tra due acque. Al primo scoppio della rivoluzione, la paura fu più forte: dichiarando ai suoi nuovi amici che il moto era impreparato, inopportuno, destinato immancabilmente a fallire, mentre la gente s’armava e si batteva egli se la batté in campagna, e fece sapere ai capi del partito regio che aspettava la fine di quella «carnevalata». Però la «carnevalata» promise di durare; i soldati napolitani sgombrarono la Sicilia, e quantunque s’annunziasse ogni giorno il loro ritorno, non se n’ebbe più né nuova né vecchia, e il governo provvisorio si venne ordinando. Il duca, visto che non ne andava la pelle, tornò in città, porse orecchio alle lusinghe del partito trionfante che, per averlo dalla sua, gli prometteva tutto quel che desiderava. Egli stette ancora a vedere, tirò in lungo, consigliò prudenza, allegò il bene del paese, le insidie, i possibili pericoli, dando così un colpo al cerchio e un altro alla botte. Corto di vista e presuntuoso per giunta, proprio mentre le cose volgevano fatalmente al peggio, giudicò di potersi ormai gettare in braccio ai liberali. Stava già per abbruciare i suoi vascelli e già assaporava i primi frutti del favor popolare, quando un bel giorno il principe di Satriano sbarcò a Messina con dodicimila uomini per rimettere le cose al posto di prima. Il duca si stimò perduto, e la nuova, più grande tremarella gli fece commettere uno sproposito di cui più tardi ebbe a pentirsi: mentre la città s’apparecchiava alla resistenza, egli firmò con altri borbonici fedeli e liberali traditori una carta in cui s’invocava la pronta restaurazione del potere legittimo. Ai primi d’aprile, le compagnie della milizia siciliana che presidiavano Taormina sgombrarono all’apparire dei regi e ritornarono a Catania; il 7 Satriano entrò in città dopo un sanguinoso combattimento. Tutti gli Uzeda erano scappati alla Piana, il duca s’era barricato alla Pietra dell’Ovo perché era opinione generale che i napolitani si sarebbero presentati dalla parte opposta, cioé dalla via di Messina. Invece, essi spuntarono dalla strada del Bosco etneo, prendendo, dopo brevi zuffe, i posti della Ravanusa e della Barriera. Ora, giunto all’altezza della Pietra dell’Ovo, il generale borbonico entrò col suo stato maggiore nel podere degli Uzeda, dove il duca lo accolse come un padrone, come un salvatore, come un Dio, mentre i cannoni spazzavano la via Etnea, e le truppe regie, assalite alla Porta d’Aci dal disperato battaglione dei corsi, decimate a colpi di coltello, nell’ora triste del crepuscolo, da quel manipolo che si sentiva perduto, inferocivano e distruggevano fin all’ultimo quei mille uomini e sfogavano l’ira sulla inerme città… Amico di Satriano, protetto dalla firma posta a quell’atto di sottomissione che tra i liberali andò infamato col nome di Libro nero, protetto ancora più dal suo proprio nome, perché era impossibile che un Uzeda avesse potuto dire sul serio mettendosi coi rivoluzionari, il duca non solo non soffrì molestie di sorta nella reazione, ma fu anzi accarezzato. Invece, un sordo fermento si destò contro di lui nel partito dei vinti. Gli apponevano quella firma odiosa, ma più le accoglienze fatte a Satriano alla Pietra dell’Ovo. L’affare della firma era conosciuto da pochi, dai capi; la storia della Pietra dell’Ovo si diffuse tra i gregari e corse in mezzo al popolo; ciascuno v’aggiunse un po’ di frangia, arrivarono a narrare che mentre la città agonizzava, il duca guardava lo spettacolo col cannocchiale di Satriano; che all’entrata del conquistatore della città gli aveva cavalcato al fianco. Don Lorenzo Giulente, rimastogli amico, ebbe un bel difenderlo, smentire le esagerazioni, asserire che il duca, solo ed inerme, non poteva mandare indietro il generale seguito da un intero esercito: gli animi amareggiati dal disinganno chiedevano un capro espiatorio; e come Mieroslawski, il polacco comandante della polizia, era stato accusato di tradimento, così il rancore popolare si rovesciò sul duca, quantunque mille più di lui lo meritassero perché di lui più colpevoli. In fin dei conti, egli non aveva preso né gradi, né stipendi, né appalti dalla rivoluzione: era stato a vedere, aspettandone la riuscita; mentre tanti altri, dopo aver fatto gazzarra e il mangia-mangia, si buttavano ai piedi dell’Intendente e salutavano col cappello fino a terra nominando Sua Maestà Ferdinando ii «che Dio sempre feliciti!» Questo voleva dire il duca, in propria difesa; questo diceva Giulente; ma cantavano ai sordi, e il duca si vedeva segnato a dito, bollato col nome di traditore, insultato e fin minacciato da lettere anonime. Un giorno l’amico don Lorenzo gli consigliò di partire: solo la lontananza e il tempo potevano avere virtù di far sbollire quell’odio. Il duca non se lo fece dire due volte, e andò a Palermo. Lì, il partito d’azione, vinto egualmente, era tuttavia meno depresso: le speranze non erano morte o cominciavano a risorgere. Passata la paura che le ultime vicende gli avevano messa in corpo, rinatagli in cuore l’ambizione inappagata e mortificata, il duca prestò di nuovo orecchio alle sollecitazioni dei liberali, anche per dimostrare ai suoi cari concittadini che non meritava il loro disprezzo. E quantunque non s’allontanasse dalla consueta prudenza, e andasse ai conciliaboli rivoluzionari come ai ricevimenti del Luogotenente generale del Re, e tornasse insomma, con più prudenza, al giuoco di prima, arrivò tuttavia a Catania la voce che egli era nei comitati d’azione e in corrispondenza con gli emigrati, e che dava quattrini per la buona causa e che soccorreva i patriotti perseguitati. Oltre la voce, arrivarono anche i quattrini che egli mandava ai comitati locali, comprendendo finalmente che quella era la buona via; che uno come lui, senza fede e senza coraggio, non poteva far valere altri titoli se non i denari sonanti. E frattanto gli animi placati vedevano meglio, riconoscevano i maggiori colpevoli, rivolgevano contro costoro l’odio col quale avevano prima perseguitato il duca. Infine venne il matrimonio di Raimondo con la Palmi ad assicurargli nuove grazie. Egli aveva conosciuto il barone a Palermo, per mezzo degli agitatori che questi veniva a trovare da Milazzo, in barba alle autorità e col pretesto degli affari. Quando il duca seppe del matrimonio divisato dalla principessa, s’affrettò quindi non solamente ad approvarlo, ma anche ad offrirsi come mediatore, facendo valere l’amicizia che lo legava al barone. Egli sentiva che quell’alleanza del proprio nipote con la figlia dell’antico liberale non poteva se non favorirlo, aiutarlo a riacquistar credito presso la parte che aveva tradita. Quanto alla principessa, borbonica come tutti gli Uzeda, il liberalismo dei Palmi piuttosto che un ostacolo fu una ragione di più che le fece combinare quel matrimonio. Prima di tutto ella era borbonica d’istinto, ma non s’occupava di politica avendo altro da fare; poi, come le era piaciuto che la sposa non potesse vantare una eccelsa nobiltà, così vedeva bene che la famiglia di lei fosse perseguitata dal governo, affinché Raimondo potesse meglio imporsi, in tutti i modi, alla famiglia ed alla moglie.

Per le nozze del nipote, il duca tornò in patria. Erano passati appena due anni dai fatti che gli avevano valso l’odio dei suoi concittadini e già egli poté vedere gli effetti della lontananza e della sua nuova politica e dell’amicizia col barone Palmi e dell’adesione al matrimonio di Raimondo. Mentre don Blasco e donna Ferdinanda, in guerra a morte con la principessa, se la prendevano anche con lui per l’appoggio prestato alla cognata e per la politica che gli dettava quel contegno, e al colmo della rabbia lo vituperavano e per poco non lo denunziavano alle autorità pel suo liberalismo, e poi ne ridevano e quasi gli gettavano in faccia il tradimento del 1849, la firma del Libro nero, l’amicizia di Satriano; mentre suo fratello e sua sorella facevano ciò, molti di coloro che gli avevano tolto il saluto lo avvicinarono e gli strinsero la mano; altre paci furono facilmente suggellate per mezzo di Giulente; nessuno parve più rammentare le storie passate. Nondimeno, il duca ripartì, se ne tornò a Palermo, un poco perché aveva preso gusto a starci, ma anche per confermare quelle buone disposizioni.

Tornato in patria, adesso, per la morte della cognata, egli era accolto quasi in trionfo, la gente traeva a lui in processione. Non solo nessuno parlava più dei fatti del 1849, vecchi di sei anni; non solo egli era considerato come una delle speranze del partito; ma il lungo soggiorno alla capitale, la frequentazione dei maggiori uomini palermitani gli conferivano improvvisamente fama di grande dottrina. Egli citava le opinioni di Tizio e di Filano, celebri patriotti «amici miei» – come don Eugenio aveva per amici i più gran signori napolitani —; infarciva i suoi discorsi di citazioni erudite di seconda e di terza mano; riesponeva a modo suo, quasi pensate da lui, le teorie economiche e politiche di cui aveva avuto qualche sentore nelle conversazioni di Palermo: e la gente gli stava dinanzi a bocca aperta. Il patriotta, è vero, riceveva visite dall’Intendente e le restituiva, e non aveva scrupolo di mostrarsi in compagnia dei più ferventi borbonici; ma ciò non gli era posto più a debito: bisognava fingere con l’autorità per non destarne i sospetti, per comprenderne il giuoco. Egli dava quattrini, non lasciava andare a mani vuote chi gli chiedeva soccorsi. Don Blasco e donna Ferdinanda lo vituperavano pertanto, ciascuno da canto suo, con più grande violenza di prima; egli li lasciava cantare, seguitava a giocare sulla carta della libertà come il monaco sopra i numeri del lotto e la zitellona sul credito della gente.

Come in politica si teneva bene con tutti, così in casa non parteggiava più per uno che per l’altro. Vedeva l’armeggio di don Blasco per sollevare i nipoti defraudati, sapeva le ragioni che militavano per essi; ma vedeva ancora la ciera accigliata del principe, udiva le sue amare lagnanze pel «tradimento» che gli aveva fatto la madre: perciò stava al bivio, dava ragione un po’ a tutti: al principe che gli offriva ospitalità e lo trattava con deferenza, a Lucrezia che amando e sposando il nipote del cospiratore Giulente, lo avrebbe aiutato ad entrar meglio nelle grazie dei liberali.