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I Vicere

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La servitù, in casa Francalanza, era pagata poco e avvezza a tremare dinanzi alla padrona; nondimeno raramente qualcuno andava via se non era congedato, perché tutti trovavano il mezzo di rifarsi moralmente e materialmente del cattivo trattamento. Il mezzo consisteva nel parteggiare segretamente per qualcuno dei figli o dei cognati contro la padrona, nel fomentare le ribellioni, nel far la spia: per questo v’erano altrettanti partiti, nel cortile, quante teste presumevano, su nel palazzo, di fare a modo proprio. Donna Vanna era dunque del partito delle «signorine»: come dapprima aveva incoraggiato la disperata resistenza di Chiara al matrimonio impostole, così più tardi venne narrando a Lucrezia la storia della sorella per dimostrarle le durezze e le strambità della madre; e le mise in testa che anche lei doveva maritarsi, e le diede la coscienza dei suoi diritti e delle sue qualità. Non era vero che ella fosse povera: la principessa poteva disporre solamente della metà della propria sostanza: l’altra metà andava egualmente divisa fra tutti i figli: «S’ha da fare così per forza, perché è scritto nella legge: perciò questa parte si chiama legittima…» E Lucrezia l’ascoltava a bocca aperta, cercando di comprendere. Ella comprendeva più facilmente le adulazioni della cameriera che trovava recondite bellezze nella persona della padroncina, quando la vestiva o la pettinava: «Com’è ben formata Vostra Eccellenza!… Sembra una palma!… E queste trecce! Corde di bastimento!» Poi concludeva: «Ha da trovarsi uno che se la godrà!…»

Così accadde che, quando i Giulente vennero a star di casa dirimpetto al palazzo dei Francalanza, donna Vanna disse alla signorina: «Vostra Eccellenza ha visto il signorino Benedetto? Guardi che bel ragazzo!» Ella si mise a osservarlo dalla finestra, e fu del parere della cameriera. «Vostra Eccellenza non s’è accorta come la guarda?» Lucrezia si fece rossa più d’un papavero, e da quel giorno i suoi occhi andarono spesso al balcone del giovanotto. Però, finché la principessa ebbe buona salute, la cosa non uscì da questi termini e nessuno la sospettò. Un brutto giorno donna Teresa, già malandata, si svegliò con un doloretto al fianco, del quale sulle prime non si curò, ma che un anno dopo doveva condurla al sepolcro. Quando la malattia della padrona aggravossi, e specialmente quando, per mutar d’aria, ella se ne andò al Belvedere, sola, giacché Raimondo, il beniamino, stava a Firenze e gli altri figliuoli erano qual più qual meno tutti aborriti, allora, più libera, donna Vanna favorì meglio l’amore della signorina; parlò al giovanotto, portò da una parte all’altra dapprima saluti, poi ambasciate e finalmente biglietti. In famiglia se ne accorsero, e tutti si scatenarono contro Lucrezia.

I Giulente, venuti circa un secolo addietro a Catania da Siracusa, appartenevano a una casta equivoca, non più «mezzo ceto» cioè borghesia, ma non ancora nobiltà vera e propria. Nobili si credevano e si vantavano; ma questa loro persuasione non riuscivano a trasfondere negli altri. Da parecchie generazioni s’erano venuti imparentando con famiglie della vera «mastra antica», ma avevano dovuto scegliere quelle ridotte a corto di quattrini, perché una ragazza nobile e ricca ad un tempo non avrebbe mai sposato un Giulente. Per giocare a pari coi baroni autentici avevano adottato tutti gli usi baronali: uno solo tra loro, il primogenito, poteva prender moglie; gli altri dovevano restar scapoli. L’abolizione del fedecommesso li aveva rallegrati, poiché in casa loro non c’era: istituito il maiorasco, avevano tentato di ottenerlo, senza riuscirvi. Nondimeno tutto era andato egualmente al primogenito: don Paolo, il padre di Benedetto, era ricchissimo, mentre don Lorenzo non possedeva un baiocco: per questo, forse, trescava coi rivoluzionari. Benedetto, un po’ per l’esempio dello zio, un po’ pel soffio dei nuovi tempi, faceva anch’egli il liberale; teneva moltissimo alla sua nascita, ma combattendo la bigotteria della nobiltà – quando la volpe non arriva all’uva! gridava la zitellona – e per questi suoi sentimenti, quantunque tutta la sostanza del padre dovesse un giorno spettargli, studiava per prendere la laurea d’avvocato. Quindi l’ira di don Blasco contro la nipote che s’arrischiava di fare all’amore senza chieder permesso a lui; e con chi? Con un Giulente, un liberale, un avvocato!

Ora, dopo la lettura del testamento, dopo le difficoltà opposte da Chiara, dal marchese e da Ferdinando alle sue sobillazioni, il monaco si rivolse a Lucrezia. Aveva maggiore speranza di riuscire con lei poiché, per l’amore di Giulente, ella aveva interesse a ribellarsi alla famiglia; è vero che gli toccava pel momento secondare o per lo meno fingere d’ignorare l’amoretto della nipote; ma pur di complottare e di metter zeppe e di farsi valere, don Blasco passava sopra a maggiori difficoltà. Egli cominciò dunque a dimostrare a Lucrezia il torto ricevuto, le ragioni da addurre, il furto di Giacomo appena morta la madre; e le rifece i conti e la stimolò a mettersi d’accordo con Ferdinando, sull’animo del quale ella sola poteva, per contrastar poi, uniti, al fratello maggiore.

Lucrezia, che all’opposizione dei parenti s’era impennata, come ogni Uzeda dinanzi alla contraddizione, ed aveva giurato a donna Vanna che avrebbe sposato Giulente a qualunque costo; udendo adesso il monaco parlarle dei suoi diritti, dimostrarle che ella era più ricca di quanto credeva, istigarla a far valere la propria volontà, gli dava ascolto, diffidente, tuttavia, sospettosa di qualche raggiro. La notte prendeva consigli dalla cameriera; e poiché donna Vanna la confortava a seguire il monaco, ella riconosceva, sì, che sua madre l’aveva messa in mezzo, come tutti gli altri, a profitto di due soli, e chinava il capo agli argomenti che don Blasco le ripeteva; ma sul punto d’impegnarsi a dire il fatto suo a Giacomo, la paura l’arretrava. Era cresciuta con l’idea che egli fosse d’una pasta diversa, d’una natura più fine; mentre tutti i fratelli e le sorelle si davano del tu fra loro, al primogenito toccava del voi; e il principe che l’aveva sempre tenuta a distanza, guardandola d’alto in basso, adesso, dopo la lettura del testamento, mostravasi ancora più chiuso con tutti, ma specialmente con lei. Preparata a sostener la lotta per amore di Giulente, ella voleva riserbare le sue forze pel momento buono, non sciuparle per uno scopo che le pareva secondario. Benedetto le aveva fatto sapere che, appena laureato, voleva dire fra un paio di anni, avrebbe chiesto la sua mano; e che il duca d’Oragua, tanto amico di suo zio Lorenzo, li avrebbe sicuramente sostenuti; ma che frattanto bisognava aver pazienza e prudenza, studiare di non accrescere l’animosità degli Uzeda. Consultato intorno alla quistione del testamento, egli confermava il consiglio di non far nulla contro il principe; parte per le ragioni antiche, parte per non parere ingordo della maggiore dote di lei. «Vede Vostra Eccellenza?» commentava la cameriera, udendo queste lettere che la padroncina le comunicava. «Vede Vostra Eccellenza quant’è buono? Vuol bene a Vostra Eccellenza, non ai quattrini! Un altro che avesse uccellato alla dote, che cosa avrebbe risposto? “Facciamo la lite!”» Egli era veramente un buon giovane, studioso, un po’ esaltato, infiammato dalle dottrine liberali dello zio, bruciante d’amore per l’Italia: scrivendo alla ragazza le diceva che le sue passioni erano tre: lei, la madre e la patria che bisognava redimere.

Così anche Lucrezia, dopo aver dato ascolto alle istigazioni di don Blasco, non faceva nulla di quel che voleva lo zio: anzi, una volta che costui fu più insistente, ella rispose:

«Perché non parla Vostra Eccellenza con Giacomo?»

Il monaco, a quest’uscita, diventò paonazzo e parve sul punto di soffocare.

«Ho da parlar io, ah, bestia? ah, bestiona? Vi piacerebbe, bestioni, prender la castagna con la zampa del gatto? Ah, volevate che parlassi io!… E che cavolo vi pare che me n’importi, in fin dei conti, se vi spoglia, se vi mangia tutti quanti, brancata di pazzi, di gesuiti e d’imbecilli, oh?…»

Parlare a Giacomo, prendere le parti di quei nipoti contro quell’altro, era veramente impossibile a don Blasco. Egli si sarebbe così impegnato definitivamente, avrebbe preso realmente un partito, non avrebbe potuto più dar torto a chi prima aveva dato ragione, e viceversa; e questo era per lui un bisogno. Così per esempio il principe, solo fra tutta la «mala razza» (come il Benedettino chiamava i suoi nei momenti d’esasperazione, cioè quasi sempre), gli era stato dinanzi obbediente e sommesso, gli aveva dato ragione nella lotta contro la principessa; ora don Blasco, in cambio, gli rivoltava i fratelli e le sorelle. Ma il monaco non credeva di far male, così; scettico e diffidente, sapeva che Giacomo s’era messo con lui non già per affezione o per rispetto, ma per semplice tornaconto.

Il principe Giacomo, infatti, aveva obbedito a sue proprie ragioni. Quasi non potesse perdonargli di non esser venuto a tempo, quand’ella l’aspettava e lo voleva, la principessa non aveva fatto festa al primogenito dei maschi, il quale aveva anche messo in pericolo, nascendo, la vita di lei. Invece di volergli tanto più bene quanto più lo aveva desiderato e quanto più le costava, donna Teresa gliene aveva voluto tanto meno. Alla nascita di Lodovico era rimasta ancora indifferente e crucciata; le sue viscere materne s’erano improvvisamente commosse per Raimondo. Così, mentre tutti gli altri parenti che non eran «pazzi» come lei, o che eran pazzi altrimenti, avevano dato a Giacomo l’idea che egli fosse da più di tutti come primogenito, come erede del titolo, la principessa aveva riposto tutto il suo affetto, un affetto cieco, esclusivo, irragionevole, sopra Raimondo. E la protezione della madre era molto più efficace di quella del padre e degli zii; perché, mentre costoro davano a Giacomo, avido di quattrini, ingordo d’autorità, soltanto vane parole, Raimondo era colmato di regali, otteneva ragione su tutti, faceva legge dei propri capricci. Così cominciarono le risse tra i due fratelli, e Raimondo, più piccolo, ne toccò; ma quando la principessa si vide dinanzi in lacrime il suo protetto, Giacomo assaggiò le terribili mani di lei che lasciavano i lividi dove cadevano. Il ragazzo s’ostinò un pezzo, fino a mutar la freddezza della madre in odio deciso; poi, accortosi di sbagliar via, mutò tattica, divenne infinto, fece da spia a don Blasco, gustò il piacere della vendetta nel vedere Raimondo picchiato dal monaco in odio alla cognata. Ma furono soddisfazioni mediocri e di corta durata: con gli anni la principessa chiuse a San Nicola il secondogenito, diede a Raimondo il titolo di conte; avara, anzi spilorcia, largheggiò soltanto col beniamino; Giacomo non ebbe mai un baiocco, e i suoi abiti cadevano a brandelli quando l’altro pareva un figurino. Se Raimondo esprimeva un’opinione, subito era secondato, o per lo meno non deriso; Giacomo non potè disporre di nulla. Uno dei suoi più lunghi desideri era stato quello di far atto di padrone, in casa, riadattando a modo suo il palazzo: la madre non gli permise di muovere una seggiola. Ella stessa aveva lavorato a mutar l’architettura dell’edificio, il quale pareva composto di quattro o cinque diversi pezzi di fabbrica messi insieme, poiché ognuno degli antenati s’era sbizzarrito a chiuder qui finestre per forare più là balconi, a innalzare piani da una parte per smantellarli dall’altra, a mutare, a pezzo a pezzo, la tinta dell’intonaco e il disegno del cornicione. Dentro, il disordine era maggiore: porte murate, scale che non portavano a nessuna parte, stanze divise in due da tramezzi, muri buttati a terra per fare di due stanze una: i «pazzi», come don Blasco chiamava anche i suoi maggiori, avevano uno dopo l’altro fatto e disfatto a modo loro. Il più grande rimescolamento era stato quello operato da suo padre, il principe Giacomo xiii, quando costui non sapeva come buttar via i quattrini; e quella «testa di zucca» di donna Teresa, invece di pensare all’economia, non s’era divertita a sciuparne degli altri in altre bislacche novità?… Giacomo voleva anch’egli ritoccare la pianta della casa, ma la madre non gli lasciò neanche attaccare un chiodo; e il Benedettino andava in bestia specialmente per questo; che il figliuolo sempre contrariato era tutto sua madre: autoritario, cupido, duro, almanacchista come lei; mentre quella papera preferiva Raimondo che non conosceva il valore del denaro, sperperava tutto quel che aveva, non s’intendeva d’affari, amava e cercava unicamente gli svaghi e i piaceri!… I due fratelli, quantunque avessero la stess’aria di famiglia, non si rassomigliavano neppure fisicamente: Raimondo era bellissimo, Giacomo più che brutto. Nella Galleria dei ritratti si potevano riscontrare i due tipi. Tra i progenitori più lontani c’era quella mescolanza di forza e di grazia che formava la bellezza del contino; a poco a poco, col passare dei secoli, i lineamenti cominciavano ad alterarsi, i volti s’allungavano, i nasi sporgevano, il colorito diveniva più oscuro; un’estrema pinguedine come quella di don Blasco, o un’estrema magrezza come quella di don Eugenio, deturpava i personaggi. Fra le donne l’alterazione era più manifesta: Chiara e Lucrezia, quantunque fresche e giovani entrambe, erano disavvenenti, quasi non parevano donne; la zia Ferdinanda, sotto panni mascolini, sarebbe parsa qualcosa di mezzo tra l’usuraio e il sagrestano; ed altrettante figure maschilmente dure spiccavano fra i ritratti femminili di più fresca data; mentre, negli antichi, le strane acconciature e gli stravaganti costumi, gli strozzanti collari alla fiamminga che mettevano le teste come sopra un bacino, le vesti abbondanti che chiudevano il corpo come scaglie di testuggine, non riuscivano a nascondere la sveltezza elegante delle forme né ad alterare la purezza fine dei lineamenti. Tratto tratto, fra le generazioni più vicine, in mezzo alle figure imbastardite, se ne vedeva tuttavia qualcuna che rammentava le primitive; così, per una specie di reviviscenza delle vecchie cellule del nobile sangue, Raimondo rassomigliava al più puro tipo antico. Ridevano gli occhi alla principessa, quando lo vedeva, grazioso ed elegante, guidare, montare a cavallo, tirare di scherma; al primogenito invece dava altrettanti soprannomi quanti difetti trovava nella sua persona: l’Orso che balla, per la goffaggine; Pulcinella, per il lungo naso; il Nano, per la corta statura.

 

Così l’astio di Giacomo contro la madre e il fratello si manteneva sempre vivo; esso crebbe a dismisura quando donna Teresa colmò lo staio, dando moglie a Raimondo. La tradizione di famiglia, mantenuta fino al 1812 dall’istituzione del fedecommesso, stabiliva che nessuno fuorché il primogenito prendesse moglie; e infatti, nella generazione precedente, né il duca né don Eugenio s’erano accasati; ma la principessa, come sempre, s’infischiò delle regole e pensò di trovare un partito a Raimondo prima ancora che a Giacomo. Morendo lei e lasciando ad entrambi la sua sostanza, la condizione dei due fratelli sarebbe stata eguale; ma in vita, non volendo ella spogliarsi di nulla, Giacomo, che doveva necessariamente ammogliarsi per tramandare il principato, si sarebbe arricchito con la dote della moglie, mentre Raimondo, restando scapolo, non avrebbe avuto nulla. Persuasa quindi della necessità di dar moglie anche al beniamino, ella esitò nondimeno molto tempo prima di attuare la sua risoluzione, e non già perché sentisse scrupolo d’infrangere la tradizione, di creare nell’albero genealogico degli Uzeda un ramo storto che avrebbe fatto concorrenza al diritto; ma per la stessa passione ispiratale dal giovane: all’idea che un’altra donna gli sarebbe vissuta notte e giorno a fianco, una sorda gelosia la struggeva. Per questo, il giorno che finalmente si decise, non soffrì di dargli nessuna delle ragazze della città e neppure della provincia; ma cominciò invece a cercargli un partito a Messina, a Palermo, più lontano ancora, nel continente, con certi suoi criteri particolari, uno dei quali era che la sposa fosse orfana di madre. Cercò parecchi anni e nessuna la contentò. Alla fine, per mezzo d’un monaco benedettino compagno di don Blasco, Padre Dilenna di Milazzo, fermò la sua scelta sulla figlia del barone Palmi, cugina del Cassinese. Tuttavia, parendo troppo a lei stessa che Raimondo prendesse moglie prima di Giacomo, il quale a venticinque anni era ancora scapolo, caso unico nella storia della famiglia, provvide ad ammogliare i due fratelli nello stesso tempo, e destinò al primogenito la figlia del marchese Grazzeri.

Le liti scoppiate in quell’occasione furono straordinarie. Se il rancore di Giacomo per il matrimonio del fratello divenne più cocente, vedendo egli prepararsi accanto alla propria un’altra progenie di Uzeda che gli avrebbe sottratto parte delle sue sostanze, non fu meno grande il rancore pel matrimonio suo proprio. Violento, avido e arido com’era, egli aveva amoreggiato colla cugina Graziella, figlia della sorella della madre, e s’era messo in testa di sposarla, quantunque la dote di lei fosse infinitamente più scarsa di quella della Grazzeri; ma la principessa, un poco appunto per questa considerazione della maggiore ricchezza, un poco perché non era mai andata d’accordo con la sorella, anzi l’aveva sempre tenuta lontana da sé, e soprattutto pel gusto di contrariare l’inclinazione del figliuolo, lo sforzò invece a sposar la Grazzeri.

Giacomo non era più ragazzo, da obbedire alla madre per paura di castighi o di busse; ella aveva però un’arma più potente in mano, essendo padrona dei quattrini e potendo minacciare di diseredarlo. «Neppure un grano!…» gli diceva, freddamente, facendo scattar l’unghia del pollice contro i denti; «non avrai neppure un grano!…» e la poca simpatia dimostrata a quel figliuolo e la passione per Raimondo e il matrimonio imminente di quest’ultimo confermavano la minaccia, facevano sospettare che ella l’avrebbe compiuta. Il principe, che fino a quel punto non era riuscito interamente ad adottar la politica della finzione, dopo quest’ultimo e violento contrasto le s’inchinò, rassegnato e devoto, le prestò una obbedienza scrupolosa e cieca anche nelle cose inutili e ridicole, non parlò più se non d’amor fraterno, d’unione, di rispetto ai maggiori. Dentro, si rodeva; ed aspettando di cogliere il frutto di quella condotta, esercitava il proprio tirannico impero e faceva pesare il suo cruccio unicamente sulla moglie. Dal primo giorno del matrimonio questa fu trattata peggio d’una serva; non che volontà, non poté esprimere neppure opinioni; il principe l’addestrò ad obbedirgli a un semplice muover di sguardi; quando ella ebbe bisogno di comperare una matassa di cotone o un palmo di nastro, le convenne chiedere a lui i baiocchi occorrenti – e in dote gli aveva portato centomila onze. La sua missione fu quella di dare un erede al marito, di perpetuare la razza dei Viceré; compitala, ella fu considerata come una bocca inutile, peggio d’un lavapiatti; perché i lavapiatti facevano almeno la corte alla famiglia, all’occorrenza davano una mano al maestro di casa; mentre donna Margherita non sapeva far nulla e non pensava ad altro fuorché ad evitar contatti e vicinanze, con la manìa della nettezza e l’incubo dei contagi. Era del resto una creatura mite, senza volontà, cera molle che il principe plasmò a suo talento. In odio al figlio, non per amore che le portasse, la principessa suocera pigliò più d’una volta le sue difese; allora ella sofferse maggiormente, perché Giacomo, arrendendosi in apparenza, le faceva poi scontare più duramente quella protezione.

Se il matrimonio del principe andò tanto male, quello di Raimondo andò molto peggio. Giacomo non voleva la Grazzeri, amando la cugina; Raimondo invece non voleva nessuna, era deciso a non ammogliarsi. Le moine e le preferenze usategli dalla madre avevano destato in lui appetiti insaziabili di piaceri e di libertà; ma la protezione della principessa pesava quasi quanto la sua avversione, tanto ella era dispotica in tutto. Il suo protetto doveva fare quel che voleva lei, pagarle con una obbedienza più rassegnata i privilegi che ella gli accordava; né questi privilegi, straordinari a paragone della soggezione in cui erano tenuti gli altri figli, bastavano a Raimondo: svegliavano invece le sue voglie senza arrivare a soddisfarle. A lui solo, per esempio, toccavano quattrini da buttar via a suo capriccio; ma la principessa donava per lambicco; e il giovane che spendeva continuamente per gli abiti, per le donne, e avea fra l’altre la passione del giuoco, sciupava in una notte quel che la madre gli dava in un anno. Solo a lui, anche, era stato consentito di arrivare sino a Firenze, ma quella rapida corsa. mettendo in corpo al giovanotto la manìa dei viaggi, dei lunghi soggiorni nei paesi più belli e più ricchi, non poté esser seguìta da altre Quindi, benché trattati in modo tanto diverso, entrambi i fratelli aspettavano con eguale impazienza la morte della madre: Giacomo per esercitare la propria autorità di capo della casa, per vendicarsi dei maltrattamenti sofferti, per afferrare la roba; Raimondo per saldare i debiti nascostamente contratti, per buttar via i quattrini nella soddisfazione delle proprie voglie, per appagare il più grande desiderio che lo struggeva: andar via dalla Sicilia, veder Milano e Torino, vivere a Firenze o a Parigi.

Al primo annunzio del matrimonio egli si ribellò dunque apertamente alla madre, poiché solo fra tutti poteva dirle in faccia: «Non voglio!» Il matrimonio era la catena al collo, la schiavitù, la rinunzia alla vita che egli sognava: a nessun patto poteva accettarlo. Ma la principessa, che verso gli altri figli adoperava i più acri sarcasmi, le imposizioni più dure e le minacce estreme, tenne a lui il linguaggio della persuasione. Voleva egli divertirsi, aver molti quattrini da spendere, far quello che gli piaceva? La dote gli avrebbe subito permesso ogni cosa! Quella gelosa che si adattava a dargli moglie per necessità, e non voleva la nuora del paese e gli andava invece a cercare un partito lontano, non poteva ammettere che suo figlio amasse quest’altra donna, che le fosse fedele, che le si credesse legato sul serio. «Stupido che sei!» gli diceva dunque. «Sposala per adesso; poi, se ti secca, la pianterai!» E solamente quel linguaggio e quegli argomenti indussero il giovane a dir di sì, persuadendolo che a quel modo egli sarebbe stato subito ricco e si sarebbe nello stesso tempo sottratto all’opprimente protezione della madre.

Don Blasco, al matrimonio di Giacomo, aveva fatto cose dell’altro mondo e vomitato gli ultimi vituperi sul nipote che s’era ficcato in testa di sposare la cugina Graziella, la figlia d’un’altra Risà! e sulla cognata che gli dava invece «per forza» una Grazzeri! Ma a coronare l’opera mancava proprio il matrimonio di Raimondo!… Ammogliare un altro figliuolo? Creare una seconda famiglia? Venir meno alle tradizioni della casa? C’era esempio d’una pazzia più furiosa?… Don Blasco non badava alla contraddizione fra quel rispetto che pretendeva portassero alle tradizioni, ed il proprio insaziabile rancore per esser stato sacrificato alle tradizioni medesime: pur di fare l’opposizione, pur di sfogarsi in qualche modo, egli saltava ostacoli molto più grandi. E quel che più specialmente l’offendeva, nel matrimonio di Raimondo, era la scelta della sposa. Fra tanti partiti che le erano offerti, quale aveva preferito sua cognata? Quello proposto da Padre Dilenna, nemico personale di don Blasco!

 

Lassù, ai Benedettini, fra le molte fazioni in cui si dividevano i monaci, le più accanite eran le politiche: ora don Blasco era borbonico sfegatato e Padre Dilenna, al Quarantotto, aveva fatto galloria con gli altri liberali per la cacciata di Ferdinando ii. L’anno dopo, don Blasco aveva ottenuto la rivincita; ma Dilenna gli fece più tardi mangiar l’aglio quando, in previsione della vacanza del priorato, sostenne Lodovico Uzeda, mentre don Blasco in persona aspirava a quell’ufficio! Sceglier dunque per Raimondo la moglie proposta dal Dilenna, anzi la sua propria cugina, era veramente un po’ troppo. Tutte le cose che don Blasco fece e disse, al palazzo, le seggiole che rovesciò, i pugni che lasciò cadere sui mobili, le male parole e le bestemmie che gli usciron di bocca, non si potrebbero ridire; tanto che la principessa, mentre prima lo aveva lasciato gridare, opponendogli una resistenza passiva, gli spiattellò finalmente sul muso che, in casa propria, ella aveva sempre fatto quel che le era piaciuto; e che lo stesso suo marito non s’era mai arrischiato di dirle una parola più forte d’un’altra: «Sapete dunque che c’è? Fatemi il famosissimo piacere di non venirci più!» Don Blasco, botta e risposta: «Mi dite voi di non venirci? E non sapete che io vi ho fatto un altissimo onore tutte le volte che sono entrato in questa bottega? E non sapete che di voi e di tutti i vostri me ne importa meno di quattordici paia di…? Ma andate un poco a farvi più che… tutti quanti siete, e maledetti siano i piedi d’asino e di porco che mi ci portarono!» Egli andò poi a dir cose, contro la cognata, fra i monaci amici, da far cascare il monastero, e non mise piede per più di un anno al palazzo struggendosi però di non poter più gridare, cadendone quasi ammalato; talché, alla nascita del principino Consalvo viii, quando Giacomo, tutto spirante pace ed amore, propose alla madre ed ottenne che s’invitasse lo zio alla festa del battesimo, il Cassinese riapparve in casa della cognata, per ricominciare, dopo un breve periodo di calma apparente, a gridar peggio di prima.

La principessa aveva dunque sostenuto, per accasar Raimondo, una lotta ora sorda, ora violenta non solo sul primogenito e con don Blasco, ma con lo stesso figlio di cui voleva assicurare l’avvenire, e perfino con se stessa. Ella ebbe in quell’occasione un altro nemico, e non meno terribile: donna Ferdinanda.

La zitellona contava allora trentotto anni, ma ne dimostrava cinquanta; né in età più fresca aveva mai posseduto le grazie del suo sesso. Destinata a restar nubile per non portar via nulla del patrimonio riserbato al fratello principe, ella sarebbe stata forse rinchiusa, per precauzione, in un monastero, se la sua bruttezza e più la naturale sincera avversione allo stato maritale non avessero assicurato i suoi parenti meglio della clausura contro i pericoli della tentazione. Non era parsa mai donna, né di corpo né d’anima. Quando, bambina, le sue compagne parlavano di vesti e di svaghi, ella enumerava i feudi di casa Francalanza; non comprendeva il valore delle stoffe, dei nastri, degli oggetti di moda, ma sapeva, come un sensale, il prezzo dei frumenti, dei vini e dei legumi; aveva sulla punta delle dita tutto il complicato sistema di misurazione dei solidi, dei liquidi e delle monete; sapeva quanti tarì, quanti carlini e quanti grani entrano in un’onza; in quanti tùmoli si divide una salma di frumento o di terreno, quanti rotoli e quanti coppi formano un cafisso d’olio… A quel modo che, fisicamente, gli Uzeda si dividevano in due grandi categorie di belli e di brutti, così al morale essi erano o sfrenatamente amanti dei piaceri e dissipatori come il principe Giacomo xiii e il contino Raimondo; o interessati, avari, spilorci, capaci di vender l’anima per un baiocco, come il principe Giacomo xiv e donna Ferdinanda. Costei aveva avuto dal padre una miseria, il così detto piatto, cioè tanto da assicurare il vitto quotidiano, la magra provvisione, durante il fedecommesso, dei cadetti e delle donne. Con quella miseria, donna Ferdinanda aveva giurato d’arrivare alla ricchezza. Tutti i suoi pensieri d’ogni giorno e d’ogni notte furono diretti a tradurre in atto il suo sogno. Appena in possesso di quelle miserabili sessant’onze annuali, ella cominciò a negoziarle, a darle in prestito contro pegno od ipoteca, secondo la solvibilità del debitore, scontando effetti cambiari, facendo anticipazioni sopra valori o sopra merci: ogni sorta d’operazioni bancarie da ghetto, poiché l’esiguità della sua rendita l’obbligava a contrattare con poveri diavoli, minuti industriali, mercantini, capimastri, rigattieri, vinai e perfino coi servi di casa. Ella non toccava un baiocco del capitale, arrischiava solo i frutti, cioè li raddoppiava, li triplicava, tanto genio degli affari aveva naturalmente, tanto era accorta, e dura, inesorabile quando si trattava di riavere i suoi quattrini e gli interessi, che pretendeva fin all’ultimo grano, sorda a preghiere ed a pianti di donne e di fanciulli; e più esperta, più cavillosa d’un patrocinatore, se le toccava ricorrere alla giustizia. Tanto era avara, anche; giacché non spendeva per sé più dei due tarì al giorno che passava alla principessa in cambio del vitto e del servizio che questa le assicurava: quanto all’alloggio, le avevano lasciato la cameruccia al terzo piano, sotto i tetti, che aveva occupata da bambina, e per vestirsi ricomprava le robe smesse dalla cognata. Così, a poco a poco, aveva esteso la cerchia dei suoi affari e formato un gruzzoletto che circolava tra persone di maggior levatura, negozianti in grosso, speculatori ragguardevoli, proprietari in imbarazzo. Allora, secondo che la sua sostanza venne crescendo, nacque una sorda gelosia nell’animo della principessa e di don Blasco contro la cognata e la sorella. Con metodi diversi, donna Ferdinanda lavorava al conseguimento d’uno scopo simile a quello di donna Teresa. Costei voleva salvare ed accrescere la fortuna degli Uzeda, quella aveva l’ambizione di crearne una di sana pianta. Ora, partendo donna Ferdinanda dal nulla, la sua gloria sarebbe stata maggiore, avrebbe offuscato quella di donna Teresa: di qui la sorda antipatia della principessa, i sarcasmi coi quali punzecchiava l’avarizia della cognata; giacché la propria era naturalmente legittima ed ammirabile. Quanto a don Blasco, il dolore da lui provato nel dover rinunziare al mondo s’inacerbiva tutte le volte che qualcuno dei parenti acquistava fama, potenza e quattrini: vedendo dunque la sorella far quello che egli stesso avrebbe fatto, se fosse rimasto al secolo, e riuscire oltre ogni previsione, rapidamente, il sangue gli ribolliva, l’umore gli s’inaspriva, l’invidia lo avvelenava. Donna Ferdinanda parve insensibile ai sarcasmi ed alle asprezze della cognata e del fratello. Le conveniva, pel momento, tacere, giacché era e voleva continuare ad esser ospite della principessa, finché i propri quattrini sarebbero stati tanti da permetterle di avere una casa propria. Parenti e amici la consigliavano ogni giorno di togliere quel suo peculio dalla circolazione troppo pericolosa, di acquistarne piuttosto solidi immobili; ella scrollava il capo, affermava che i suoi denari non correvano rischio di sorta, perché solo «chi presta senza pegno perde i denari, l’amico e l’ingegno»; in realtà ella aspettava d’aver tanto da poter fare una compra ragguardevole. Nel ‘42, dieci anni dopo d’essere entrata in possesso del suo magro piatto, stupì tutta la parentela acquistando all’asta pubblica per cinquemila onze il fondo del Carrubo, bel pezzo di terra che ne valeva dieci; fortunata, cioè accorta anche in questo: nell’aver saputo cogliere la magnifica occasione. Era noto a tutti che possedeva un capitaletto, nessuno immaginava che in dieci anni avesse messo insieme una piccola sostanza. Cognata e fratello furono più mordenti di prima, specialmente vedendo che ella non spendeva per sé un carlino di più: ella lasciò dire, continuando a speculare con le quattrocent’onze di rendita che adesso possedeva. Le faceva fruttare quanto più poteva, non ne perdeva un grano, e quando le cambiali scadevano, il notaio, il sensale o il patrocinatore venivano a portarle il suo avere in tanti bei pezzi di colonnati lucenti e sonanti. Patrocinatore, notaio e sensale erano i suoi amici. Fra la gente che frequentava il palazzo Francalanza ella sceglieva, per tirarseli a fianco, i più destri, i più prudenti, quelli che avevano come lei l’intelligenza e la passione degli affari, dai quali poteva sperare informazioni e suggerimenti. E il principe di Roccasciano, gran signore da quanto gli Uzeda, ma con pochi quattrini che s’era proposto di moltiplicare e che moltiplicava infatti, pazientemente, prudentemente, senza la spilorceria e le durezze di lei, era il suo consigliere preferito. Nel ‘49, quando meno l’aspettava, le si presentò l’occasione di comprar la casa. Ella aveva dato certe mille onze al cavaliere Calasaro, il cui figliuolo, complicato nella rivoluzione, era stato costretto a prendere le vie dell’esilio. Il padre, spogliatosi ed esaurito tutto il suo credito per non fargli mancare nulla, non poté, alla scadenza, soddisfare donna Ferdinanda. Costei, fiutando il vento, volle esser pagata subito subito, e minacciò la espropriazione e lanciò la prima citazione. Il debitore venne a gettarlesi ai piedi, con le mani in testa, perché gli evitasse l’ultima rovina, e le offrì, tra le sue proprietà, quella che più le piaceva. Donna Ferdinanda le buttò per terra, piene com’erano d’iscrizioni, capaci di attirarle addosso un diluvio di carta bollata, e poiché l’altro insisteva, e le offriva la casa netta d’ipoteche, la zitellona torse il grifo, dicendo: «Se ne può parlare.» Ma ella pretendeva di averla per le sue mille e cent’onze, capitale, interesse e spese, senza metter fuori un carlino di più, mentre il proprietario la stimava duemila onze, per lo meno, e pretendeva il resto. La cosa andò a monte; donna Ferdinanda spinse avanti la procedura. L’altro, con l’acqua alla gola, spremuto dal figliuolo che da Torino chiedeva sempre quattrini, vessato dal governo per motivo del giovane esiliato, chinò finalmente il capo. «Almeno faccia lei le spese dell’atto,» le mandò a dire; ma donna Ferdinanda: «Mille e cent’onze: ho una parola sola!» Così ella ebbe la casa. Era piccola, naturalmente, per quel prezzo: due botteghe fiancheggianti il portone, e un piano solo, sopra, con un balcone grande e due piccoli, nella facciata; ma aveva un valore inestimabile agli occhi di donna Ferdinanda; era posta ai Crociferi, che era il vecchio quartiere della nobiltà cittadina, ed essa stessa era una casa nobile, appartenendo da tempo ai Calasaro, signori della «mastra antica».