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I Vicere

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«Non è siciliano?» gli domandò Consalvo, per dire qualcosa, perché non paresse che andava via subito, ma impaziente di svignarsela poiché s’accorgeva d’aver già perduto troppo tempo.

«Signor no, sono romano» rispose il Padre.

«È da un pezzo fra noi?»

«Da qualche mese appena.»

«Tanto piacere…» fece il principe, alzandosi.

Il prete s’alzò e s’inchinò una seconda volta. Teresa gli chiese permesso e accompagnò il fratello.

«Dunque?» insisté Consalvo. «Che bisogna fare per ottenere l’appoggio della signora duchessa?»

«Ma io non valgo a nulla!…» protestò Teresa, con un discreto sorriso.

«Bisogna giurare fedeltà a Carlo, al Gran Monarca?… Non c’è altro scampo?… Ma se ancora ha da venire?… Basta, arrivederci!… E quest’altro, dove l’hai pescato? Chi è?…»

«Uno dei Padri più colti della Compagnia di Gesù!…»

«Tempo perduto! Tempo perduto!…» Non c’era da cavar nulla da quegli Uzeda! I migliori, quelli che parevano i più saggi, a un tratto si rivelavano pazzi, come gli altri. Questa qui, adesso, si chiamava in casa i Gesuiti, credeva alle balorde profezie, ai pretesi miracoli, diventava cieco strumento in mano dei preti! Dov’era la fanciulla d’una volta, graziosa, gentile, poetica, pietosa ma non bigotta, credente ma non accecata? Anche al fisico, aveva perduta l’eleganza del portamento, ingrassava, era irriconoscibile. La pazzia soggiogava anche lei, prendeva la forma religiosa, diventava misticismo isterico! Tutti a un modo, tutti!… Egli solo si stimava savio, forte, prudente, immune dal vizio ereditario, padrone e giudice di se stesso e degli altri… E, apparso sulla Gazzetta ufficiale il decreto che chiudeva la sessione, egli si buttò a capo fitto nella lotta.

Giorno e notte la sua casa trasformata in una piazza, in un pubblico mercato, dove i delegati discesi dalle sezioni rurali e gli elettori cittadini andavano e venivano, discutendo, contrattando, gridando, col cappello in testa, con le mazze in mano. Più gente veniva, più egli ne invitava: i galoppini, per suo ordine, rimorchiavano lassù, adescati dal marsala e dai sigari, dalla curiosità di entrare nel palazzo dei Viceré, gonfi dell’importanza a cui erano assunti d’un tratto, individui di tutte le classi, bottegai, scrivani, uscieri, trattori, barbieri, gente più umile ancora, servi, guatteri, tutte le infime persone che per aver messo una firma dinanzi al notaro tenevano nelle loro mani una frazione della sovranità. Egli stringeva tutte quelle mani, accoglieva tutta quella gente con un «grazie dell’adesione!», dava del lei sopra e sotto; essi andavano via incantati, accesi d’entusiasmo, protestando: «E lo dicevano superbo! Un signore tanto alla mano!…»

Una sera, facendo il giro delle sale, Consalvo vide una faccia nuova, che rassomigliava tuttavia… a chi?… A Baldassarre, il suo antico maestro di casa! Ma i favoriti erano scomparsi, e invece sulle labbra già sbarbate dell’ex servitore cresceva un grosso paio di mustacchi tinti come stivali.

«Grazie dell’adesione,» gli disse Consalvo, stringendogli la mano.

«Niente!… Dovere!…» balbettò Baldassarre.

Uscito dalla casa del principe, il maggiordomo s’era buttato alla politica, aveva abbracciato la fede democratica, presiedeva ora una società operaia di mutuo soccorso. Giacché il principino – Baldassarre adoperava ancora il diminutivo per designare l’antico padroncino – si presentava con programma democratico, egli aveva indotto i consoci ad appoggiarlo; così rientrava nel palazzo lasciato da servo con l’importanza di uno che portava un bel gruzzolo di voti. Seduto sopra una di quelle poltrone di raso che prima aveva avanzato ai signori, egli si guardava intorno ed ascoltava con la gravità dell’antico maestro di casa, era più serio e decorativo di tanti altri; un sindaco di provincia che gli stava a fianco gli disse:

«Da noi la riuscita è assicurata. E qui, professore, come vanno le cose?»

«Eccellente!» fece Baldassarre, scrollando il capo.

I membri del comitato, quella sera, riferivano i nomi degli elettori amici che avevano fatto iscrivere nelle liste. L’antico servo s’avvicinò a Consalvo.

«Signor principe,» non gli dava più, per democrazia, dell’Eccellenza, «la nostra società ha fatto iscrivere una cinquantina di elettori. Sono tutti nostri!»

«La ringrazio; non so come ringraziarla.»

«Si figuri, per carità: dovere! Vinceremo certamente! La vittoria è nostra!»

«Accetto di cuore l’augurio cortese.»

E Baldassarre, dimenticato il torto che gli aveva fatto il principe defunto, si fece in quattro per assicurare il trionfo del principino, divenne in breve uno dei suoi luogotenenti. Egli faceva i suoi rapporti a Consalvo, ne riceveva le istruzioni, gli dava a sua volta consigli; e il padrone e il servo erano scomparsi, sedevano a fianco alla stessa tavola, il principe passava la carta e la penna all’antico creato, si davano del lei come due diplomatici stipulanti un trattato.

La lotta diveniva frattanto più aspra. Consalvo aveva fatto fare certe aperture ai capi clericali, ma costoro avevano risposto che la sua alleanza con Lisi e Giardona rendeva impossibile qualunque accordo. Giulente boccheggiava. Per salvare il Municipio aveva dovuto imporre nuove tasse, aggravare le antiche, congedare impiegati, lasciare in asso tutte le opere non finite, ridurre tutte le spese; e la sollevazione era unanime contro di lui per l’odiosità delle imposte, la gretteria eretta a sistema. La sua lunga aspirazione all’eredità politica dello zio, la stessa malattia di fegato erano un po’ ridicole: sua moglie finiva di rovinarlo, vantando il suo patriottismo dopo averlo deriso: «Al Volturno stava per lasciare una gamba!…» domandando a tutte le persone, ai commessi di negozio, ai venditori ambulanti: «Non siete elettore?… Allora andate a farvi iscrivere…» Ed ella gli aveva finalmente consegnato i conti dell’amministrazione, dove c’era un baratro peggio che al comune.

Gli altri candidati, però, non si davano vinti, i più pericolanti si ostinavano peggio, ricorrevano a tutti i mezzi, contrattavano i voti, lanciavano accuse violente ai rivali fortunati, specialmente al principe. «Noi non abbiamo nipoti educati dai Gesuiti, né zii Cardinali di Santa Chiesa, né parenti reazionari; non ci appoggiamo su tutti i partiti, dalla nobiltà alla canaglia!…» Consalvo lasciava dire, correva in provincia, tornava in città, allargava la cerchia dei propri aderenti. I messi di Baldassarre, dal canto loro, predicavano nelle osterie la democrazia del principe, pagavano da bere a quanti gli promettevano il voto. Una sera, però, la discussione si fece brutta fra quelli che stavano dalla sua e gli oppositori che davano al principe del Rabagas, del Gesuita e del traditore. Dalle parole vennero ai fatti, volarono sedie e bottiglie, luccicarono i coltelli, gravi minacce furono pronunziate. Allora Consalvo si rivolse agli antichi compagni di bagordo, alla gente con la quale aveva fatto vita, un tempo, nelle taverne e nelle case di tolleranza: ceffi spaventosi, pallidi bertoni con la faccia tagliata da cicatrici fecero la guardia al suo palazzo, alla sua persona; si disseminarono nei luoghi equivoci, minacciando, intimorendo… «Il candidato di Francesco ii ha sguinzagliato la mafia per tutto il collegio allo scopo di spaventare gli onesti cittadini,» denunziarono i fogli avversari; ma nella violenza della battaglia le più feroci accuse avevano perduto ogni efficacia, erano naturalmente attribuite all’odio di parte, al rancore di chi sentiva mancarsi il terreno sotto i piedi. Il nome di Francalanza era su tutte le bocche, nessuno dubitava oramai dell’elezione del principe. Egli preparava il discorso elettorale.

Grandi cartelloni multicolori incollati per tutta la città annunziarono l’avvenimento: «meeting elettorale. Cittadini: Domenica, 8 ottobre 1882, alle ore 12 meridiane, nella Palestra Ginnastica (ex convento dei PP. Benedettini) il Principe di Francalanza esporrà il suo programma politico agli elettori del 1° Collegio.» Seguivano le firme del comitato: un presidente, vecchio magistrato a riposo, ben visto da tutti i partiti e perciò messo a quel posto da Consalvo; poi sei vicepresidenti, più di cinquecento membri, otto segretari, ventiquattro vicesegretari.

Era una novità, questa dei discorsi-programmi. Le elezioni non si potevano più fare alla chetichella, in famiglia, come al tempo del duca d’Oragua: ciascun candidato doveva presentarsi agli elettori, render loro conto delle proprie idee, discutere le quistioni del giorno. «Almeno è certo che andranno al Parlamento solo quelli che sanno parlare!…» Ma udire il principe di Francalanza discorrere in piazza come un cavadenti… lo spettacolo era veramente straordinario. Gli altri candidati tenevano i loro discorsi nei teatri, ma per quello di Consalvo c’era tanta aspettazione, piovevano tante richieste di posti, arrivavano tante rappresentanze dalla provincia, che nessun teatro parve sufficiente. La palestra ginnastica, che era il secondo chiostro del convento di San Nicola, grande quanto una piazza, aveva, con i suoi archi, le colonne e le terrazze, una cert’aria di anfiteatro; era l’ambiente più vasto, più nobile, più adatto alla grandezza dell’avvenimento. E poi Consalvo, da cui veniva la scelta, aveva una sua idea.

Egli andò a dirigere personalmente l’addobbo. Ma intanto che i tappezzieri lavoravano a disporre trofei di bandiere e festoni d’ellera e tende e ritratti, il principe si guardava intorno con un senso di stupore, sorpreso a un tratto dalle memorie della fanciullezza. L’enorme e nobile monastero, la signorile dimora dei Padri gaudenti, l’aristocratico collegio della gioventù era irriconoscibile. Scomparsi i corridoi che s’allungavano a perdita d’occhio, chiusi da muri e da cancelli, convertiti in sale e gabinetti scolastici; il refettorio trasformato in salone di disegno dell’Istituto Tecnico, ingombro di cavalletti, ornato di stampe e di gessi; il Coro di notte pieno d’attrezzi nautici; al posto dei grandi quadri, sugli usci delle camere, cartelli con l’iscrizione: prima classe, direzione, presidenza. Giù, nel cortile, i magazzini trasformati in caserme. Le generazioni di soldati e di studenti succedutesi dal Sessantasei avevano devastato i chiostri, rotto i sedili, infranto le balaustrate; i muri erano pieni di figure e di motti osceni, e i calamai lanciati come fionde pel corruccio delle bocciature o per la gioia delle promozioni avevano stampato da per tutto larghe chiazze d’inchiostro.

 

Dinanzi a quella devastazione, Consalvo pensava adesso con un senso di rammarico alla morte del mondo monastico, che egli aveva vista con vivo tripudio. Ma allora – rammentava! – aveva quindici anni, era impaziente di prendere il posto che lo aspettava in società. Se gli avessero detto, allora, che egli sarebbe tornato un giorno a San Nicola per discorrervi dell’eguaglianza sociale e del pensiero laico!… No, egli non poteva assuefarsi a quest’ideale democratico contro il quale protestavano la sua educazione e il suo stesso sangue. Lì, a San Nicola, forse più che a casa propria, egli era stato imbevuto di superbia signorile, era stato avvezzo a considerarsi d’una pasta diversa dalla comune… Dove era la sua camera? Egli la cercava, al Noviziato, e non la trovava. Forse dove stava scritto gabinetto di fisica. Un custode, facendogli da guida, narrava le magnificenze del convento, le feste sontuose, l’abbondanza dei conviti, la nobiltà dei Padri, e rammaricavasi mostrando le rovine presenti. «Qui stavano i novizi, tutti figli dei primi baroni: bei tempi! Adesso ci vengono i figli dei ciabattini!» Il prestigio della nobiltà e della ricchezza era dunque veramente imperituro, se quel povero diavolo parlava così d’una riforma che giovava ai suoi pari… Consalvo voleva rispondere: «Avete ragione…» ma il rumore di martellate che veniva dalla palestra gli rammentava la necessità di nascondere i propri sentimenti, di rappresentare la parte che s’era assunta. Lì, fra quelle mura, egli s’era messo col partito dei sorci, ai quali fra’ Cola voleva tagliar la coda; qualcuno non gli avrebbe fatto una colpa di quel remotissimo passato?… Bah! Chi si rammentava delle monellate d’un ragazzo! Giovannino era morto, non poteva tornar dall’altro mondo a contraddirlo! E quand’anche?…

Frattanto i preparativi si venivano compiendo; la domenica del comizio tutto fu pronto. L’aspetto della palestra era grandioso. Duemila seggiole erano disposte in bell’ordine nell’arena, e restava tuttavia spazio libero per gli spettatori in piedi. Il lato meridionale del portico, riservato alla presidenza ed alle associazioni, conteneva una gran tavola circondata di poltrone e fiancheggiata da tavolini per la stampa e gli stenografi. Gli altri tre lati erano per gl’invitati: autorità, signore, rappresentanze varie. Tutta la terrazza, come l’arena, restava agli spettatori minuti: per difendere le teste dal sole erano state distese grandi tende di mussolina tricolore. Trofei di bandiere abbracciavano le colonne, ed in mezzo a ciascun trofeo spiccava un ritratto: a destra e a sinistra della balaustrata da cui avrebbe parlato il candidato, Umberto e Garibaldi; poi Mazzini e Vittorio Emanuele; poi Margherita e Cairoli; e così tutto in giro Amedeo, Bixio, Cavour, Crispi, Lamarmora, Rattazzi, Bertani, Cialdini, la famiglia sabauda e la garibaldina, la monarchia e la repubblica, la destra e la sinistra.

Fin dalle dieci, la folla cominciò a far ressa, ma le porte erano custodite da buon nerbo di membri del comitato, riconoscibili a una gran coccarda tricolore appuntata al petto. Giù, nel cortile esterno, si riunivano le società attorno alle bandiere e ai labari, per ricevere il candidato e accompagnarlo alla palestra. Tre bande arrivarono una dopo l’altra, coi sodalizi più numerosi, tirandosi dietro una folla di curiosi; e il brusìo saliva al cielo; torrenti di gente s’ingolfavano dallo spalancato portone della scala reale. Gli strumenti dei sonatori specchiavano al gaio sole autunnale; pennacchi e bandiere ondeggiavano al vento; i cartelloni multicolori vestivano a festa i muri del monastero.

Baldassarre, in redingote e cappello alto, con una coccarda grande come una ruota di mulino, andava e veniva, sudato, sbuffante, come ventotto anni addietro, quando ordinava l’aristocratico cerimoniale dei funerali della vecchia principessa. Ma allora egli era servo stipendiato, e adesso libero cittadino che interveniva a un metingo democratico, e che prestava il suo appoggio al principe non per quattrini ma per un’idea. Alla folla che voleva entrare ad ogni costo diceva alzando le mani: «Signori miei, un po’ di pazienza; c’è tempo… ci vuole un’ora…» Era possibile lasciar entrare la ciurmaglia prima degli invitati?… Ma alle undici e mezzo la resistenza fu impossibile: dato ordine ai suoi dipendenti di difendere almeno i posti riservati, lasciò aprire la terrazza e l’arena. In un attimo l’onda umana vi si rovesciò. Era ancora la folla anonima, il popolo minuto; ma a poco per volta cominciavano a venire le persone di riguardo, signori e signore eleganti, dinanzi alle cui carrozze s’apriva l’altra folla rimasta nel cortile esterno. Baldassarre, nella palestra, additando alle dame i loro posti, si voltava tratto tratto verso i compagni: «Dite che le bande vengano qui, che prendano posto!… Non ci sarà la musica all’arrivo del candidato!…» Quelle bestie non ne azzeccavano una! Impossibile aver le bande, neanche dopo essersi sgolato un’ora; tanto che dové correre egli stesso a chiamarle: «Che fate qui? Non è il vostro posto! Venite dentro!…» Egli non era più maggiordomo, ma le cose malfatte non poteva tollerarle. Uno del comitato non disse che bisognava sonare al primo arrivo del principe? Egli si guastò: «Il ricevimento si fa nella palestra, non nel cortile! Volete darmi lezioni?…» E mise le bande al posto opportuno, ordinando: «Marcia reale ed Inno di Garibaldi…»

Ora la palestra offriva uno spettacolo veramente straordinario: l’arena era un mare di teste, serrate le file delle sedie, stretti come acciughe gli spettatori in piedi; nella terrazza una folla variopinta, sulla quale fiorivano gli ombrellini delle molte signore che non avevano trovato posto giù. Ma l’aspetto più sontuoso era quello dei portici: tutta la migliore società vi si era riunita, le dame nelle prime file, gli uomini dietro, ed un ronzio come d’alveare si levava tutt’intorno: chiacchiere eleganti, profezie sull’esito delle elezioni, battibecchi politici, ma specialmente esclamazioni d’impazienza, tentativi d’applausi di chiamata, come al teatro, che facevano voltare il capo a tutti e cavare gli orologi. Scoccava già mezzogiorno, il campanone di San Nicola dava i primi tocchi, quando venne da lontano un sordo clamore. «È qui, è qui… Arriva… ci siamo!…» S’udivano adesso distintamente le grida: «Viva Francalanza… Viva il nostro deputato!…» e scoppi d’applausi il cui fragore cresceva, rimbombava nei corridoi, faceva tremare i vetri, destava tutti gli echi sopiti del monastero. Dalla palestra la folla s’era levata in piedi, i colli erano tesi, gli sguardi fissi sull’arco d’ingresso. Squillarono a un tratto, intonate dalle tre musiche, le prime note della Marcia reale mentre apparivano le prime bandiere, e un urlo formidabile, un vero uragano d’applausi, di evviva, di grida confuse scoppiò nel vasto recinto, riecheggiò tempestosamente tra l’altra folla che circondava il candidato.

Consalvo avanzavasi, pallidissimo, ringraziando appena con un cenno del capo, assordato, abbacinato, sgomentato dallo spettacolo. Dietro di lui, nuovi torrenti si riversavano nelle terrazze, nei portici, nell’arena, vincendo la resistenza dei primi occupanti; ma tuttavia migliaia di mani applaudivano, sventolavano fazzoletti e cappelli; le signore, in piedi sulle seggiole, salutavano coi ventagli e gli ombrellini, formavano gruppi pittoreschi sul fondo scuro della gran folla mascolina; e la ovazione si prolungava, le grida salivano ad acuti stridenti alle riprese della marcia, i battimani scrosciavano come una violenta grandinata sulle tegole. Qua e là piccoli gruppi di avversari o d’indifferenti restavano silenziosi, ma dall’alto sembrava che tutta quella moltitudine avesse una sola bocca per urlare, due sole braccia per applaudire. «Uno… due… due e mezzo… tre minuti…» alcuni contavano, con gli orologi in mano, e si vedeva gente con le lacrime agli occhi, dalla commozione; molti perdevano la voce: stanchi di sventolare i fazzoletti, se li legavano ai colli rossi e sudati. «Basta… basta…» diceva Consalvo, a bassa voce, con un senso di vera paura dinanzi a quel mare urlante e Baldassarre, da lontano, non potendo attraversare il muro vivente che lo serrava tutt’intorno, faceva segni disperati alla musica; e finalmente i sonatori compresero, la musica finì, gli applausi e le grida si spensero; ma, ad un tratto, mentre il presidente del comitato si faceva alla balaustrata presentando il candidato, squillarono le note dell’inno garibaldino, un nuovo fremito corse per la folla, il delirio ricominciò… Ora Consalvo, vinta la paura del primo istante, ringraziava più francamente a destra e a manca, e sorrideva, sicuro di sé, gonfio il cuore di fiducia superba. La musica cessò nuovamente, la folla si chetò, le bandiere appoggiate alle colonne del portico formarono una nuova decorazione: l’ufficio di presidenza, i giornalisti, gli stenografi presero posto alle loro tavole e i segretari tirarono fuori dalle cartelle i loro fogli. Uno di essi sorse in piedi, e in mezzo a un silenzio solenne cominciò con voce stridula la litania delle adesioni. Ma la gente stancavasi, le parole si perdevano in un sordo mormorìo. In un gruppo di studenti motteggiatori discutevasi animatamente se il candidato avrebbe cominciato con l’aristocratico Signori o il repubblicano Cittadini. Uno affermò: «Scommettiamo che dirà Signori cittadini?» Ma gli entusiasti lanciavano sguardi severi agli scettici, intimavano il silenzio. Finalmente la litania finì. Consalvo, con una mano sul velluto della balaustrata, voltato di fianco, aspettava. Ad un cenno del presidente, si volse alla folla:

«Concittadini!… Se la benevolenza dei miei amici vi ha indotto a credere che io possegga le doti dell’oratore, e vi ha qui adunati con la promessa che udrete un vero e proprio discorso, io sono dolente di dovervi disingannare…» La voce nitida, ferma, sicura, giungeva da per tutto, debole ma chiara anche negli angoli più remoti. «Io vi dichiaro, concittadini, che non posso, che non so parlare; tale è il tumulto di impressioni, di sentimenti, d’affetti che sconvolge in questo momento l’animo mio. (Gli stenografi notarono: Benissimo!) Io sento che fino ai miei giorni più tardi non si potrà più cancellare il ricordo di questo momento indescrivibile, di questa immensa corrente di simpatia che mi circonda, che m’incoraggia, che mi riscalda, che infiamma il mio cuore, che ritorna a voi altrettanto viva e gagliarda e sincera quale viene dai vostri cuori a me. (Applausi prolungati.) Ma questa restituzione è troppo poca cosa e non vale a sdebitarmi: tutta la mia vita dedicata al vostro servigio sarà bastevole appena. (Applausi.) Concittadini!… Voi chiedete un programma a chi sollecita l’onore dei vostri suffragi; il mio programma, in mancanza d’altri meriti, avrà quello della brevità; esso compendiasi in tre sole parole: libertà, progresso, democrazia… (Battimani fragorosi ed entusiastici.) Un superstizioso contento occupa l’animo mio, nell’udir voi, liberi cittadini, coronare d’applausi non me, ma queste sacre parole, qui, tra questi vecchi muri che furono un tempo cittadella dell’ignavia, del privilegio, dell’oscurantismo teologico… (Scoppio unanime di approvazioni clamorose), qui, tra queste mura, già covo dell’ignoranza, oggi vivido faro da cui radia la luce del vittorioso pensiero! (Nuovo scoppio di frenetici battimani, la voce dell’oratore è soffocata per alcuni minuti.) Concittadini, la mia fede in questi grandi ideali umani non è nuova, non data da questi giorni, in cui tutti la sfoggiano, come i galanti vantano le grazie della donna desiderata… (Ilarità), protestando di non volerne i favori… (Nuova ilarità) ma di star paghi a sospirarla da lungi… (Risa generali.) La mia fede data dall’alba della mia vita, quando i pregiudizi di casta che io conobbi, ma che non mi duole di aver conosciuti, perché ora sono meglio in grado di combatterli… (Benissimo!) mi vollero chiuso qui, tra questi muri. Permettetemi ch’io vi narri un aneddoto di quei giorni lontani. Erano i tempi in cui Garibaldi il Liberatore correva trionfalmente da un capo all’altro del feudo borbonico per farne una libera provincia della libera patria italiana… (Bravo, bene!) Io ero allora fanciullo, e alla mia mente inesperta ed ignara il nome di Garibaldi sonava come quello di un guerriero formidabile che altre leggi non conoscesse fuorché le dure, le violente leggi di guerra. Un giorno corse una voce: Garibaldi era alle porte della nostra città; i Padri Benedettini si disponevano ad ospitarlo… non potendo subissarlo coi suoi diavoli rossi… (Si ride.) Ed io quasi temetti di guardare in viso quel fulmine di guerra, come se col solo sguardo dovesse incenerirmi. Ed un giorno i miei compagni m’additarono l’Eroe dei due mondi. Allora io vidi quel biondo arcangelo della libertà intento… sapete voi a qual opera? A coltivare le rose del nostro giardino! Da quel giorno la rivelazione di quel cuore vasto e generoso, dove la forza leonina s’accoppiava alla gentilezza soave… (Scroscio di applausi), di quell’uomo che, conquistato un Regno, doveva, come Cincinnato, ridursi a coltivare il sacro scoglio, dove oggi aleggia il magnanimo spirito di Lui, che fu a ragione chiamato “il Cavaliere dell’umanità”…»

 

Gli stenografi smisero di scrivere, tale uragano d’applausi e di grida si scatenò. Urlavano: «Viva Francalanza!… Viva Garibaldi!… Viva il nostro deputato!…» e le parole del principe si perdevano nel clamore universale, vedevasi solamente la bocca che s’apriva e chiudeva come masticando, il braccio che gestiva rotondamente per finire l’aneddoto: la confusione tra Menotti Garibaldi e il padre, la sostituzione di se stesso al morto cugino… «Silenzio!… Parla ancora!… Viva Garibaldi!… Viva il principino!…» Tratto di tasca il fazzoletto, egli lo sventolò gridando: «Viva Garibaldi! Viva l’Eroe dei due mondi!…» Poi, aspettando il silenzio, si terse la fronte imperlata di sudore.

«Concittadini,» riprese quando fu ristabilita la calma, «io sono giovane d’anni, e la vita potrà apprendermi molte cose e dimostrarmi la fallacia di molte altre, e darmi quell’esperienza, quel senno maturo che ancora forse non ho; ma quali che sieno le vicende e le prove che l’avvenire mi serba, una cosa posso affermare fin da questo momento, sicuro che per volger d’anni o per mutar di fortuna non potrà venir meno: la mia fede nella democrazia!… (Salva d’applausi entusiastici.) Questa fede mi è cara com’è cara al capitano la bandiera conquistata nella battaglia… (Scoppio di battimani.) All’alpigiano che passa tutti i suoi giorni tra le cime dei monti, il grandioso spettacolo nulla dice, o ben poco; all’alpinista che è partito dalla pianura, che ha conquistato a grado a grado l’ardua vetta sublime, il cuore s’allarga di gioia, si gonfia di giusta superbia nel contemplare il meritato orizzonte. (Ovazione generale e prolungata.) Cittadini! Io non voglio turbare la solennità di questa adunanza portando dinanzi a voi le piccole gare in cui si affannano le anime piccole; ma voi sapete che un’accusa mi fu lanciata; voi sapete che mi dissero… aristocratico…» Gli stenografi non seppero se notare impressione o silenzio o movimenti diversi; ma già l’oratore incalzava: «Quest’accusa è fondata sui miei natali. Io non sono responsabile della mia nascita… (No! no!) né voi della vostra, né alcuno della propria, visto e considerato che quando veniamo al mondo non ci chiedono il nostro parere… (Ilarità fragorosa.) Io sono responsabile della mia vita; e la mia vita è stata tutta spesa in un’opera di redenzione: redenzione dai pregiudizi sociali e politici, redenzione morale e intellettuale; e nulla è valso ad arrestar quest’opera; né le facili seduzioni, né le derisioni ironiche, né i sospetti ingiuriosi; né, più gravi al mio cuore, le opposizioni incontrate nello stesso focolare domestico… (Bene! Bravo! Applausi.) Voi vedete che io non posso più rinunziare a questa fede; essa mi è tanto più cara e preziosa, quanto più mi costa… (Scoppio di battimani fragorosi e prolungati. Grida di: Viva Francalanza… Viva la democrazia!… Viva la libertà… L’oratore è costretto a tacere per qualche minuto.)»

Il piacere, l’ammirazione erano in ogni animo: negli amici che vedevano assicurato il trionfo, negli avversari che riconoscevano la sua abilità, nella stessa gente minuta che non comprendeva, ma esclamava: «Ma che avvocato! Non ci sono avvocati capaci di parlare così», e le signore, animatissime, godevano come allo spettacolo, scambiando osservazioni sull’arte e sulla persona del principe quasi fosse un primo attore recitante la sua parte.

«Ma voi, concittadini,» riprese egli, «giudicherete forse che se questa fede compendia tutto un programma, è mestieri che un legislatore si tracci una precisa linea di condotta in tutte le particolari quistioni riflettenti l’orientamento politico, l’ordinamento delle amministrazioni pubbliche, il regime economico e via dicendo. Permettetemi dunque di dirvi le mie idee in proposito. Disciolte le antiche parti parlamentari, non ancora si delineano le nuove. Io auguro pertanto la formazione, e seguirò le sorti di quel partito che ci darà la libertà con l’ordine all’interno e la pace col rispetto all’estero (Benissimo, applausi), di quel partito che realizzerà tutte le riforme legittime conservando tutte le tradizioni (Bravo! bene!), di quel partito che restringerà le spese folli e largheggerà nelle produttive (Vivissimi applausi), di quel partito che non presumerà colmare le casse dello Stato vuotando le tasche dei singoli cittadini (Ilarità generale, applausi), di quel partito che proteggerà la Chiesa in quanto potere spirituale, e la infrenerà in quanto elemento di civili discordie (Approvazioni), di quel partito, insomma, che assicurerà nel modo più equo, per la via più diritta, nel tempo più breve, la prosperità, la grandezza, la forza della gran patria comune (Applausi generali.)»

Veramente gli applausi non furono generali a questo passo, e anzi qualche colpo di tosse partito da un angolo fece voltare molte teste.

«Voi mi direte,» proseguiva però l’oratore, «che questo programma è troppo vasto ed eclettico; perché, secondo un proverbio, è impossibile avere ad un tempo la botte piena e la moglie ubriaca (Ilarità). La botte piena, senza poterne spillare l’inebbriante liquore, rappresenterebbe una ricchezza inutile, e tanto varrebbe che contenesse acqua o un altro fluido qualunque; ma quanto ad avere anche la moglie ubriaca, sarebbe in verità troppa grazia: me ne appello a tutti i mariti. (Scoppio d’ilarità clamorosa, battimani vivi e replicati.) Bisogna attingere dalla botte quel tanto di vino che basti a saziar la sete, a letificare lo spirito. Dicono i francesi: Si jeunesse savait! Si vieillesse pouvait! Questo che è impossibile nella vita di un sol uomo, non solo è possibile, ma necessario nella vita collettiva dei popoli. Il legislatore deve possedere le audacie della gioventù accoppiate al senno della vecchiaia; la legge deve tener conto di tutti gli interessi, di tutte le credenze, di tutte le aspirazioni per fonderle e armonizzarle: essa è necessariamente regolata sull’esperienza del passato, ma non deve né può tarpar l’ali all’avvenire! (Ovazione.) Pertanto, invidiabili e invidiate sono le nostre istituzioni, che mediante un prudente equilibrio tra i due rami del Parlamento e il potere esecutivo permettono che ci s’avvicini alla suprema conciliazione. Ma, come tutte le cose umane, queste istituzioni non sono perfette, bensì perfettibili e a tal opera di continuo miglioramento io dedicherò tutte le mie forze, scevro come sono e di paure e di feticismi. Lo Statuto può e deve essere migliorato. Questa necessità è intesa da tutti: dal popolo che reclama intera la sua sovranità, al Re che riconosce la sua dal popolo. (Approvazioni.) Per nostra fortuna, popolo e Re sono oggi in Italia tutt’uno (Applausi) e la monarchia democratica di Casa Savoia spiega e legittima i sentimenti democraticamente monarchici degli italiani (Benissimo!) Fin quando sederanno sul trono principi leali e Re galantuomini, il dissidio sarà impossibile, la nostra fortuna sicura! (Scroscio di applausi prolungati, grida di: Viva il Re!… Viva l’Italia!… La voce dell’oratore è coperta dai battimani.) Ma poiché l’aspetto della sovranità popolare e il benessere delle classi laboriose debbono essere scopo precipuo dei legislatori, sarà impossibile raggiungerlo se non verranno a sedere alla Camera i più legittimi, i più diretti rappresentanti del popolo. Lasciatemi quindi augurare che molti candidati operai riescano eletti. Molti combattono le candidature operaie, forti d’un motto inglese che suona: the right man in the right place. Ma essi dimenticano che questa citazione è una spada a due tagli, e che allorquando il Parlamento dovesse occuparsi di quistioni operaie, the right men in the right places sarebbero appunto i cittadini operai (Bene! bravo!) Una volta un parrucchiere s’impancò a critico, e il celebre Voltaire, seccato da tanta presunzione, gli disse: “Mastro Andrea, fate piuttosto parrucche.” (Ilarità.) Ma se si fosse trattato di dover fare parrucche, e Voltaire avesse voluto dire la sua, mastro Andrea avrebbe potuto rispondere al celebre poeta: “Signor Voltaire, fate tragedie piuttosto.” (Ilarità fragorosa, applausi prolungati.) Concittadini, la quistione sociale, bisogna riconoscerlo francamente, preme in questo momento più che tutte le altre. È essa nuova? No, certo. Facciamone un poco la storia…»