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I Vicere

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«È vero, t’avevo promesso il mio appoggio, ma in altri tempi, quando non potevo prevedere la situazione attuale… Ora che si presenta Consalvo, capisci tu stesso in che imbarazzo mi trovo.»

Dunque è vero? Anch’egli è traditore, peggio del nipote? Pensava Benedetto; ma, ad alta voce: «Vostra Eccellenza però non ignora che Consalvo è di sinistra, che appartiene alla Progressista, mentre Vostra Eccellenza…»

«Pensi ancora alla destra e alla sinistra?» esclamò ridendo il duca, che aveva in tasca la formale promessa d’un seggio al Senato. «Non vedi che i partiti vecchi sono finiti? che c’è una rivoluzione? Chi può dire che cosa uscirà dalle urne a cui hanno chiamato la plebe? Un vero salto nel buio!… Se mi presentassi io stesso,» per giustificarsi, riconosceva finalmente la verità, «resterei nella tromba!… E vuoi che gli elettori ascoltino la mia voce? L’appoggio che posso dare è puramente ideale… forse sarà una pietra al collo che affonderà il candidato.»

Allora Giulente corse da Consalvo. Era in uno stato d’esasperazione violenta; dinanzi al vecchio non aveva osato infrangere l’antico rispetto, ma sentiva il bisogno di sfogare, di dire ciò che occorreva a quel birbante.

«Tu hai fatto… hai fatto ciò che hai fatto per i tuoi fini, per lasciar nell’imbroglio me?… Per rovinarmi?… Per prendere il mio posto?…»

Consalvo lo guardò con un ambiguo sorriso, fingendo di non capire.

«Che avete?… Calmatevi!… Non capisco…»

«È vero che presenti la tua candidatura?»

«Forse, se avrò probabilità di riuscire…»

«E non sapevi… non sai che il posto è mio? Che da tanti anni lo aspetto? Che tuo zio me l’aveva promesso?…»

«Posto?» fece Consalvo, con la stess’aria d’ingenuo stupore. «Qual posto? Con lo scrutinio di lista non ci sarà più un posto solo, ce ne saranno tre.»

«E ridi, anche? Mi canzoni, anche? Dopo avermi preso il posto, a tradimento?»

Il sorriso scomparve dal viso di Consalvo.

«Vi faccio osservare che siete riscaldato e che non riflettete a quel che dite.»

«Ah, non rifletto?»

«Qui non si tratta di posti di platea, dove siede chi ha pagato il biglietto. Io non v’ho preso nulla, per la semplicissima ragione che nulla avevate. Se credete di poter riuscire, nessuno v’impedisce di presentarvi. Se da parte mia avrò questa persuasione, mi presenterò anch’io. La nostra parentela non è così stretta da renderci incompatibili. Non c’è nessun impegno tra noi; ognuno è libero di far quel che crede…»

«E tu sei anche libero di piantarci in asso, ora che vedi il baratro spalancato?…»

«Non c’è baratro. C’è qualche difficoltà da superare; vuol dire che avrete l’agio di far valere la vostra abilità…»

Il sangue montò alla testa di Benedetto.

«Siete tutti d’una razza!» gridò improvvisamente; «tutte birbe matricolate…»

Consalvo lo guardò un momento nel bianco degli occhi. A un tratto gli sparò una risata sul muso, gli voltò le spalle e scomparve.

Giulente, nell’uscire, non rispose al saluto dei servi, non udì ciò che gli veniva dicendo il maestro di casa. Credettero che fosse impazzito, vedendolo scappar via, acceso in viso, col braccio levato e il pugno chiuso. Parlava solo: «Falsi, bugiardi, traditori!… La rivoluzione! il salto nel buio!… Essi però saltano in piedi!… S’è aggiustato gli affari di casa sua!… Adesso il nipote!… Il salto nel buio!… Borbonici fin nelle ossa!… Dovevano impiccarlo, al Sessanta!… Ed io, buffone, che li ho serviti tutt’e due!… Gli auguri a Francesco ii!… Adesso è di sinistra!… Buffone!… Sono stato sempre buffone!» Cocente, insoffribile, destavasi a un tratto in lui la coscienza della situazione subalterna in cui era stato tenuto, del mal garbo con cui lo avevano trattato. «La nostra parentela non è così stretta!…» Quel bardassa gliel’aveva spiattellato in faccia! Parenti? Erano stati mai parenti per lui? Tutti, tutti lo avevano guardato dall’alto, come un intruso, come indegno di loro! Lo avevano dapprima sdegnato per i suoi studi, quegli ignoranti, per l’«ignobile» laurea da lui ottenuta: ed erano stati i soli a favor dei quali aveva dovuto esercitare la professione, per sostenere le loro magagne: la vecchia, il principe, Raimondo… «Chi sono dunque?… Una mala razza di predoni spagnuoli, arricchiti con le ladrerie!… A me?… Io me li metto sotto i piedi!…» Invece egli li aveva serviti, corteggiati, piaggiati; che altro aveva fatto se non magnificare la loro presunzione, incoraggiare le loro pazzie, approvare le loro birbonate? «Buffone! buffone! Sono sempre stato buffone!…»

Arrivò a casa senza sapere da che parte c’era venuto. Strappò il campanello, entrò come uno spiritato. Lucrezia, sdraiata sopra una poltrona, colle mani sulla pancia, lo guardò un poco curiosamente, poi disse:

«Che hai?»

Egli le si piantò dinanzi, con gli occhi fuori dell’orbite.

«Che ho?… Che ho?… Ho che sono una massa d’infami traditori!…»

«Chi?»

«Chi? Tuo zio, tuo nipote, i tuoi parenti, quella mala razza, che maledetta sia l’ora e il giorno…»

Ella lo guardava sempre come un oggetto strano e ridicolo. Più stupita che sdegnata, interruppe:

«Che diavolo dici?»

«Che dico? Quel che ho da dire. Vorresti difenderli? O tieni loro il sacco?»

«Sei proprio un imbecille,» esclamò ella, levandosi.

Allora Benedetto perse il lume degli occhi. Afferratala per un braccio gridò:

«È vero? Hai ragione di dirlo, tu! Sono un imbecille.»

E le lasciò correre un ceffone, tremendo, che la colse nel pieno della guancia e tonò come una schioppettata. A un tratto la lasciò e andò a chiudersi in camera.

I servi, che avevano visto entrare il padrone a quel modo inusitato, erano rimasti in ascolto: nessuno di loro fiatava. La cameriera, finita la scena, sogguardava tratto tratto dall’uscio rimasto aperto, per vedere che faceva la signora. Costei era immobile, dietro la finestra, con la guancia gonfia ed infocata. Dopo un’ora, restava sempre nella stessa posizione. Subitamente si mise a passeggiare guardando per aria come per acchiappar mosche, guardando per terra come cercando un oggetto smarrito, arrestandosi di botto in mezzo alla camera quasi colta subitamente da un’idea, riprendendo poi la corsa quasi inseguendo qualcuno. Ai servi che le chiedevano ordini rispondeva brevemente, ma non in collera. La guancia le si sgonfiava e sbiancava a poco a poco; tratto tratto ella vi portava la mano.

«Eccellenza,» vennero a domandarle, «è ora d’apparecchiare?»

«Aspettate,» rispose; e andò a picchiare alla camera del marito.

Benedetto era buttato sul letto, coi panni sbottonati, la testa ancora in fiamme. Vedendo entrare la moglie, non disse nulla. Lucrezia gli si fece vicino.

«Come ti senti?» gli domandò.

«Bene,» rispose Giulente, senza guardarla.

«Vuoi desinare?»

«Come ti piace.»

«O credi che sia presto?»

«Come credi.»

«Allora posso ordinare?»

Egli fece col capo un gesto d’indifferenza. Lucrezia dette ordine che allestissero. Poi tornò nella camera del marito.

«Perché resti a letto? Hai nulla?»

«No, nulla.»

Benedetto s’alzò per andare a buttarsi sopra una poltrona. Era pentito dell’atto brutale, ma non esprimeva il suo pentimento. Ruminava continuamente il suo rancore, considerava i partiti che gli si presentavano, non sapeva a quale appigliarsi.

«Che avete deciso al Municipio?» domandò ancora Lucrezia.

«Non so niente!…» proruppe egli. «Non voglio sentir parlare più di nulla!… Vadano tutti al diavolo!… Se qualcuno dei tuoi mi viene innanzi, lo mando ruzzoloni per le scale.»

«Hai ragione,» rispose sua moglie.

Dietro l’uscio, il giorno innanzi, aveva compreso, dai discorsi degli assessori, il tiro giocato da Consalvo a suo marito; aveva capito che Benedetto non poteva essere deputato. Nel primo momento era rinata in lei l’avversione pel nipote, per quegli Uzeda che pareva avessero giurato di schiacciarla e pretendevano accaparrare tutto per loro. Ma non sapeva ancora con chi prendersela. Era proprio colpa di Consalvo, o non piuttosto di quella bestia di Benedetto? Ciò che avevano detto gli assessori era vero? il duca non avrebbe riparato?… Né l’aspetto sconvolto di Giulente quand’era rincasato, né le violente parole contro Consalvo e il duca l’avevano persuasa; forse egli avrebbe parlato un giorno intero senza riuscire a nulla. Il ceffone la convertì. Quasi che il suo torbido cervello avesse bisogno d’una scossa materiale per funzionare regolarmente, ella disse subito tra sé: «Ha ragione!» Durante le due ore passate in camera, a guardar la via senza vedere, a passeggiare come una bertuccia in gabbia, aveva ripetuto mentalmente: «Ha ragione!… È Consalvo!… È lo zio!… Mi vogliono schiacciare!… Chi sa che cosa credono!… D’esser padroni proprio di tutto?…» E ora, mentre Benedetto si sfogava, ella ripeteva: «Hai ragione! Hai ragione!…» Durante il desinare tacquero entrambi. Giulente assaggiava appena le vivande e lasciava la posata nel piatto. «Ti senti male?…Desideri qualcosa?… Vuoi andare a letto?…» Ella gli prodigava ogni sorta d’attenzioni, lasciava di mangiare quando il marito non mangiava più. A un punto, Benedetto si alzò. Si sentiva realmente male, tutto sossopra, e andò a letto. Ella l’aiutò a spogliarsi, gli sprimacciò i guanciali, gli preparò il caffè.

«Vuoi restar solo? Vuoi riposare?»

«Sì.»

Ella se n’andò. Aveva appena chiuso l’uscio che lo riaprì.

«Non t’angustiare,» tornò a dire al marito. «Deputati non se n’ha da fare uno solo. Ti presenterai anche tu. Vedremo chi è più forte, o lui o noi!»

9

La situazione del collegio era questa: smantellata la rocca affaristico-conservatrice che per vent’anni aveva sostenuto il duca d’Oragua, sbaragliata l’Associazione Costituzionale, in dissoluzione la stessa Progressista, floride e battagliere le società operaie che trovavano finalmente, nel voto, l’arma con la quale poter scendere in lizza. Mentre, tra la classe borghese, gli antichi moderati, gli ammiratori di Lanza e di Sella erano costretti a nascondersi, le nuove falangi di elettori parlavano di più grandi libertà, di più radicali riforme, di repubblica e di socialismo. Ma queste parole, spaventando i progressisti timorati, potevano spingerli tra le file dei conservatori, dar nuova vita al boccheggiante moderatismo. Il posto più vantaggioso era dunque tra i progressisti e i radicali. Consalvo di Francalanza lo prese immediatamente. La sua iscrizione al partito di sinistra, la sua rottura con lo zio dopo la «rivoluzione parlamentare» del 1876, legittimavano il programma ultra-liberale che egli veniva annunziando.

 

Appena andato via dal Municipio, aveva cominciato il lavorìo fuori città, nelle sezioni rurali. Popolani e contadini si svegliavano laggiù alla politica; c’erano società operaie, circoli agricoli, casini democratici ordinati e disciplinati, coi quali bisognava venire a patti. I nobili, i borghesi, i facoltosi furono conquistati subito. Accompagnato da amici e ammiratori spontaneamente offertisi, egli cominciò il giro del collegio. Il sindaco, il signore più ricco, o la persona più influente dava un pranzo o un ricevimento in suo onore, invitando gli altri maggiorenti. Non si parlava delle elezioni, ma il principe, affabile con tutti, s’informava dei bisogni del paese, ascoltava i reclami di tutti, prendeva note sopra un taccuino, e lasciava la gente ammaliata dai suoi modi cortesi, sbalordita dalla sua eloquenza e soddisfatta come se egli avesse scritto il decreto per la costruzione della ferrovia, per la riparazione delle strade, per il traslocamento del pretore. Ma, dopo il banchetto o la refezione, dopo la visita ai capoccia, Consalvo andava alla sede delle società popolari. Lì, in quelle piccole stanze con mobili sospetti, affollate da povera gente dalle mani callose, cominciava il suo tormento. Egli stringeva quelle mani, senza guanti; si mescolava a quegli umili, sedeva tra loro, accettava i rinfreschi che gli offrivano, e non un moto dei suoi muscoli rivelava lo spasimo che quelle vicinanze e quei contatti gli facevano soffrire. Istruito in precedenza, teneva lunghi discorsi sui bisogni del paese, sulla crisi dei vini o degli agrumi, sulla gravezza delle imposte, e prometteva leggi intese a proteggere l’agricoltura, assicurava lenimenti di tasse, premi, agevolezze di ogni genere. La sua teoria era quella del progresso, «del progresso che mai non s’arresta…» ma, se vedeva pender dalle pareti i ritratti di Garibaldi e di Mazzini, insisteva sull’urgenza di «più ampie libertà richieste dallo spirito dei tempi»; se vedeva quelli della famiglia reale, riconosceva la necessità di andare «coi calzari di piombo». Quasi sempre egli trovava qualcuno che gli faceva da guida, ma talvolta non c’era nessuno che potesse presentarlo nei circoli più intransigenti: allora egli si presentava da sé, chiedeva del «signor presidente», annunziava che trovandosi di passaggio aveva desiderio di visitare «questo sodalizio tanto benemerito del paese».

Quasi da per tutto si guadagnava simpatie e accaparrava voti. Il solo fatto che don Consalvo Uzeda principe di Francalanza faceva loro una visita, disponeva quegli umili in favor suo. Le strette di mano, i discorsi famigliari, le grandi frasi e le promesse convertivano i più restii. Molti però recalcitravano; egli otteneva tuttavia l’effetto di metter la scissura dove prima era l’accordo. Una dozzina di società lo elessero, seduta stante, presidente onorario; egli ringraziò per «l’insigne onore di cui sarei indegno se non avessi da far valere l’immenso affetto per gli operai, i cui miglioramenti, il cui benessere, la cui felicità sono stati e saranno sempre lo scopo della mia vita». Dopo i discorsi ufficiali egli soggiungeva: «Quando avrete bisogno di me, quando verrete in città, rammentatevi che la mia casa è la vostra…»

E ancora non si parlava dell’elezione. Esaurito quel primo punto del suo programma, egli passò al secondo, cioè all’accordo con gli altri candidati. Per tre seggi, c’era una dozzina d’aspiranti; ma tolte le pretensioni ridicole, come quella di Giulente, restavano, oltre alla sua, quattro candidature serie: l’avvocato Vazza, che aveva un’estesissima clientela e si presentava con programma «liberale» senza indicazione di partito parlamentare; il professor Lisi, già presidente della Progressista, e perciò con idee di sinistra; Giardona e Marcenò, radicali. Consalvo si mise in relazione col primo di questi due, che era il più temperato, per un’azione comune. Dal radicalismo annacquato di costui al liberalismo avanzato suo proprio c’era tanta distanza da non potersi intendere? Nondimeno, i fautori di Giardona vollero dichiarazioni esplicite: egli s’impegnò a dare il suo voto a tutte le riforme chieste dal partito e sopra tutte alle riforme sociali. Andò a dire in mezzo a loro: «Io sono socialista. Dopo che ho studiato Proudhon, mi sono convinto che la proprietà è un furto. Se i miei antenati non avessero rubato, io dovrei guadagnarmi la vita col sudore della fronte.» Tuttavia quelle dichiarazioni non soddisfacevano interamente. I radicali più avanzati che sostenevano Marcenò gli si voltarono contro. Venne poi fuori un giornaletto, La lima, che lo prese di mira, chiamandolo il «nobile principe, il sire di Francalanza», alludendo ai suoi parenti borbonici, affermando che un aristocratico suo pari, discendente dai Viceré, non poteva esser sincero quando sfoggiava tanta fede democratica. Allora anch’egli fece pubblicare un foglio, Il nuovo elettore. Tutti i numeri, dal principio alla fine, erano pieni di lui, delle sue gesta al Municipio, dei suoi titoli alla gratitudine del paese. I giornali quotidiani anch’essi avevano articoli esaltanti «il giovane patrizio democratico a fatti, non a parole».

Stretto il patto con Giardona, restava da scegliere tra il Lisi e il Vazza per formare la triade. Egli voleva mettersi con quest’ultimo, perché era il più forte; ma Giardona minacciò di mandare tutto a monte, perché il Vazza, proclamandosi ambiguamente «liberale», era il più moderato di tutti e ben visto perfino dalla Curia. Invece, l’alleanza con Lisi, che s’avvicinava più alle loro idee, era la sola naturale. Egli riconobbe questa convenienza. Fu stabilito l’accordo, ma ciascuno si mise all’opera per proprio conto.

La legge della riforma era ancora dinanzi al Senato che già ogni sera riunivasi gente in casa del principe: nobili parenti, impiegati comunali, maestri elementari, avvocati, sensali, appaltatori: un veglione. Il quartiere di gala era aperto al pubblico; egli non relegava gli elettori nelle stanzette buie dell’amministrazione, come aveva fatto suo zio; spalancava le nobili Sale Gialla e Rossa, il Salone degli specchi, la Galleria dei ritratti. Tutti erano animati dal più vivo entusiasmo; la gente minuta che veniva la prima volta al palazzo, che sedeva sulle poltrone di raso sotto gli sguardi immobili dei Viceré, si sarebbe fatta tagliare a pezzi per quel candidato che prometteva mari e monti, il bene generale e quello particolare d’ogni singolo votante. Un perito agrimensore compose un opuscolo intitolato: Consalvo Uzeda principe di Francalanza, brevi cenni biografici, e glielo presentò. Egli lo fece stampare a migliaia di copie e diffondere per tutto il collegio. Il ridicolo di quella pubblicazione, la goffaggine degli elogi di cui era piena non gli davano ombra, sicuro com’era che per un elettore che ne avrebbe riso, cento avrebbero creduto a tutto come ad articoli di fede. Un infinito disprezzo di quel gregge lo animava, e un rancore violento contro chi tentava sbarrargli la via. Perché, infatti, come l’agitazione cresceva, gli attacchi della Lima divenivano più acri, e una quantità di fogli, foglietti e bollettini elettorali, sorti per sostenere questa o quella candidatura, o per speculare sulla curiosità che induceva la gente a buttar via i soldini in carta sporca, lo aggredivano mattina e sera, gliene dicevano di cotte e di crude. Dinanzi alle persone ne rideva, dentro s’arrovellava: potendo, avrebbe messo il bavaglio a quei libellisti, li avrebbe banditi, imprigionati. Ma l’accusa che più lo feriva, che lo faceva veramente sanguinare, era quella che cominciavano a lanciare: «Elettori, il candidato che noi vi presentiamo non ha feudi né blasoni, non oro da corrompere le coscienze; ma voi, cittadini, dimostrerete che la vostra coscienza è un tesoro troppo grande perché un pugno di monete possa comprarla.» Era una menzogna, giacché egli non spendeva altri quattrini se non quelli della stampa, della posta, delle carrozze; ma poteva trovar credito più delle altre, ed egli voleva esser eletto per l’attitudine alla vita pubblica di cui aveva dato prova, per la cultura che s’era affannato ad acquistare. Poi, rammentando l’impegno preso con se stesso di restar calmo, di lasciar dire, scrollava le spalle, dominava gli impeti di sdegno, i moti di cruccio; diceva: «Mi eleggano pel blasone e pei feudi, che m’importa? Purché mi eleggano!» E agli intimi che s’arrabbiavano per lui vedendolo aggredito a quel modo:

«Hanno ragione!» rispondeva, sorridendo. «il mio più grande titolo all’elezione è quello di principe!»

Ciò che egli esprimeva con la facezia era la verità. «Principe di Francalanza»: queste parole erano il passaporto, il talismano che operava il miracolo di aprirgli tutte le vie. Egli sapeva che le dichiarazioni di democrazia non gli potevano nuocere presso gli elettori della sua casta, poiché costoro non lo credevano sincero ed erano sicuri di averlo, al momento buono, dalla loro; dall’altro canto sentiva che le accuse di aristocrazia non lo pregiudicavano molto presso la gran maggioranza di un popolo educato da secoli al rispetto ed all’ammirazione dei signori, quasi orgoglioso del loro fasto e della loro potenza. Per lui, il buon popolo che si lasciava taglieggiare dai Viceré era stato pervertito da false dottrine, da sciocche lusinghe: egli era sicuro che prendendo a quattr’occhi uno di quelli che più vociavano «libertà ed eguaglianza» e dicendogli: «Se foste al mio posto, gridereste così?» il fiero repubblicano sarebbe rimasto in un bell’impiccio. La quistione, dicevano alcuni, era che questi posti eminenti, queste situazioni privilegiate non dovevano più esistere: ma allora Consalvo sorrideva di pietà. Quasiché, ammessa pure la possibilità d’abolire con un tratto di penna tutte le disuguaglianze sociali, esse non si sarebbero di nuovo formate il domani, essendo gli uomini naturalmente diversi, e il furbo dovendo sempre, in ogni tempo, sotto qualunque regime, mettere in mezzo il semplice, e l’audace prevenire il timido, e il forte soggiogare il debole! Nondimeno piegavasi, concedeva tutto, a parole, allo spirito dei nuovi tempi. I giornaletti arrabbiati lo mordevano tenacemente con l’accusa di muffosità «spagnolesca», di orgoglio «organico»; egli diceva agli elettori che gli davano del «signor principe» a tutto spiano: «Io non mi chiamo signor principe, mi chiamo Consalvo Uzeda…» Metteva adesso una specie di zelo nello spogliarsi di tutto ciò che poteva offendere il sentimento dell’uguaglianza umana, non parlava più dei «miei viaggi» e dei «miei feudi», pareva volersi scusare del suo titolo e delle sue ricchezze, quasi vergognoso del grande stemma infisso sull’arco del portone, della rastrelliera del vestibolo, dei ritratti degli avi, d’altrettante macchie, d’altrettanti attestati d’indegnità. Ma egli faceva così a tempo e luogo, dinanzi ai radicali sinceri, ai repubblicani puri; la più gran parte del tempo sapeva d’avere intorno persone che chiamandolo «principe», mostrandosi in sua compagnia, credevano di partecipare in qualche modo al suo lustro.

Lavorava come un cane a far visite, a scriver lettere, a dirigere i suoi galoppini, a presiedere le adunanze del comitato. La notte stentava a prender sonno, con la mano scottata dal contatto di tante mani sudice, sudate, ruvide, incallite, infette; con la mente infiammata dall’ansietà della riuscita. Sarebbe riuscito? A momenti ne aveva l’intima e salda certezza; il governo era per lui; Mazzarini, arrivato al potere, ministro dei lavori pubblici, gli aveva trascritto da Roma tutte le lettere con le quali lo raccomandava al prefetto. Ma non si contentava di riuscire, voleva stravincere, essere il primo degli eletti, assicurarsi stabilmente il collegio con una votazione unanime, plebiscitaria. L’accordo col Giardona gli giovava certamente, ma quello col Lisi era stato forse un errore. La situazione di Vazza era invece fortissima, molti assicuravano che sarebbe riuscito il primo: raccoglieva adesioni dovunque e i clericali specialmente, senza sostenerne in pubblico la causa, lavoravano per lui, sott’acqua, ma con efficacia grandissima. Era stato un vero sbaglio rinunziare a quest’alleanza e preferir Lisi; per tentar di riparare, per giovarsi del lavorìo delle sacrestie, egli pensò di rivolgersi alla sorella. Non la vedeva da un pezzo, ma sapeva che la sua vita severa, austera quasi, la rinunzia totale, dopo i lutti, alle occupazioni ed ai piaceri mondani, l’edificante pietà l’avevano messa ancora più in grazia dei Monsignori. Andò dunque da lei. Sul punto d’entrare nel suo salotto udì una voce squillante che diceva:

 

«L’ho cantato a tutti, non mi stancherò di ripeterlo! Cada Sansone con tutti i filistei!»

Era la zia Lucrezia. Egli si fermò ad ascoltare.

«Vostra Eccellenza mi perdoni,» rispondeva dolcemente Teresa, «ma parlare così contro suo nipote…»

«Mio nipote?… Che nipote?…» vociferava l’altra. «A lui dunque fu permesso trattare così mio marito? Pan per focaccia, dice il proverbio! Benedetto non risulterà, ma neppur lui: la vedremo! Piuttosto mi meraviglio di quella bestia di Monsignore…»

«Zia!»

«Di quel bestione di Monsignore, che non vuole appoggiare mio marito. Invece di fare il giuoco di Vazza, dovrebbe sostener Benedetto, che è stato sempre moderato e perciò più vicino ai clericali! E mi meraviglio più di te, che non vuoi spendere una parola per tuo zio!… Ma gli parlerò io! Ho lingua, e posso parlar da me! Se tutti abbandonano Benedetto, ci sono qua io! Io non l’abbandonerò! Ho lui solo al mondo!… Capisci che gli hanno procurato una malattia di fegato? Tirano a ucciderlo, cotesti assassini! Ma riderà bene chi riderà l’ultimo!»

Contenendo le risa, Consalvo entrò. Appena lo vide, Lucrezia levossi.

«Ti saluto, ho da fare,» disse alla nipote; e senza guardarlo, quasi non l’avesse scorto, ma calcando la voce e passandogli dinanzi gonfia e impettita, ripeté: «Riderà bene chi riderà l’ultimo!»

Consalvo si mise a ridere.

«Quella pazza l’ha con me!… Che diavolo pretendeva? Che le hanno fatto?»

«Poveretta, non ne dir male,» rispose Teresa con pietosa indulgenza.

«È già una fortuna che tu non le dia ragione! Voleva che pei begli occhi di suo marito io rinunziassi all’avvenire? E adesso, tutt’a un tratto, arde d’affetto per cotesto marito prima vilipeso?…» Teresa non rispose; fece solo un gesto di grande compatimento. «E che voleva da te? Ti parlava dell’elezione?»

«Sì.»

«Voleva il tuo voto, ah! ah!»

«No, credeva che io potessi giovarle.»

«E che le hai risposto?»

«Che non posso nulla.»

«E per me?» soggiunse rapidamente Consalvo.

«Per nessuno, fratello mio!… Io non mi occupo di queste cose.»

«Ma i tuoi Monsignori?» esclamò egli sorridendo.

«Né io né essi parliamo di queste cose.»

«Di che parlate allora, spiegami un po’?»

Al tono leggermente canzonatorio di Consalvo, la duchessa chiuse gli occhi un momento, quasi ad attinger forza per affrontare le contraddizioni, quasi a pregare pel miscredente.

«Parliamo, in questi giorni, d’un gran miracolo che il Signore ha permesso. Non hai sentito discorrere della Serva di Dio?»

Egli sapeva qualcosa, così in aria, d’un preteso prodigio avveratosi in persona d’una contadina di Belpasso; ma Teresa, senza aspettare la sua risposta:

«È un’umile contadinella,» proseguì, «che vive in una casupola, col padre e la madre, nelle campagne di Belpasso. È stata sempre religiosissima, ma da qualche tempo si manifestano in lei i segni della Grazia. Tutti i venerdì, dopo esser rimasta tre ore in ginocchio, le appariscono sul corpo le stimmate di Nostro Signore; ella esala un odore d’incenso soavissimo e dalle sue labbra…»

«Questi li chiami segni della Grazia? Sono fenomeni isterici!»

Teresa tacque un poco, con la stessa espressione dell’indulgenza che s’accorda ai poveri ignoranti. «Se fossero fenomeni isterici, i dottori l’avrebbero curata. Invece, nessuno di quanti l’hanno vista ha saputo spiegare queste manifestazioni; tutti i loro pretesi rimedi sono rimasti inefficaci.»

«Vuol dire che hanno chiamato dottori asini…»

«No, i più riputati!… Sulla fronte le appare una macchia rossa in forma di croce, sul costato la figura del giglio…» A voce più bassa aggiunse: «Monsignore andrà a visitarla.»

«Vedrà anche il costato?»

Ella si trasse indietro, i suoi sguardi espressero uno sdegnato biasimo.

«Consalvo! Sai che mi duole udirti parlare così…»

«Andiamo! Non si può scherzare?… Ma tu credi sul serio?…»

«Credo,» rispose brevemente.

Egli la considerò un poco. Voleva dire: «A chi la dài a intendere?… Sei ammattita come tutti i nostri?…» Ma non era venuto per questo.

«Delle elezioni, dunque, non parlate?»

«No. Sono quistioni che io non capisco; e poi, la Chiesa non partecipa a queste lotte.»

«Né eletti né elettori, eh? Eppure i tuoi Padri spirituali si dànno un gran da fare per un certo avvocato…»

«Il Santo Padre ha ordinato che i cattolici non vadano alle urne come partito…»

«Ah!… Dunque sai che c’è distinzione fra partito ordinato e cittadini spiccioli?»

«Non è difficile intenderlo.»

«Va bene, va bene!… E come singoli cittadini, i cattolici che fanno?»

«Appoggiano, talvolta, chi più s’accosta a loro.»

«Cioè?»

«Chi crede.»

Le due parole significavano: «Tu non sei fra questi; ecco perché io non posso fare nulla per te.» Ma Consalvo, che faceva l’ingenuo, replicò:

«Chi crede a che cosa?»

«Prima di tutto agli eterni princìpi di verità.»

«E poi?»

«Al trionfo della Chiesa!»

«Anche tu?…» cominciò Consalvo, sul punto di protestare, di dire il fatto suo a quell’altra sciocca. Ma si contenne ancora una volta. Che gl’importava di quelle sciocchezze? L’importante era sapere se bisognava assolutamente rinunziare all’intromissione di lei. «Ah, va benissimo!…» riprese, con tono diverso. «Il trionfo della Chiesa!… Ma su chi deve trionfare, sentiamo?»

«Sopra i suoi nemici e i suoi persecutori.»

«Chi sono? Dove sono? In Italia? In Francia? Sentiamo un po’: che bisogna fare? Restituire Roma al Papa, eh? Dargli tutta l’Italia, tutto il mondo? Sentiamo, spieghiamoci una buona volta, per saperci regolare, per vedere fino a qual punto potremo intenderci…»

Ella disse, seriamente:

«È inutile che tu la prenda su questo tono. Presto o tardi il diritto legittimo trionferà.»

«Come? Quando? Dove?»

Ella alzò il capo e socchiuse gli occhi, quasi ispirandosi.

«Nascerà,» disse, «un gran monarca, dalla diretta progenitura di San Luigi di Francia, e si chiamerà Carlo. Egli farà dell’Europa sette regni, e rimetterà il Santo Padre sulla cattedra di Pietro…»

Questa volta Consalvo non riuscì a frenare le risa.

«Ah! Ah! Ah!… S’ha da chiamare proprio Carlo? E perché non Filippo, Ignazio, Epaminonda?… Ma dove diavolo peschi simili fandonie?»

«Che t’importa, se sono fandonie?… Mi duole che tu ne rida… Ti ho detto mille volte che ciascuno ha le proprie convinzioni…»

«Sì! Sì!… Ma donde t’è venuta questa qui? Dove hai saputo che accadranno tutte queste belle cose?»

Ella stese il braccio verso una scansietta piena di libri e vi prese un volumetto legato con pelle nera e dorato sui tagli. Consalvo lesse sul frontespizio: L’Europa liberata ovvero Trionfo della Chiesa di G.C. su tutte le usurpazioni e tutte le eresie. Eco dei Profeti e dei SS. Padri… A un tratto volse il capo, udendo il cameriere che annunziava dalla soglia, scostando la tenda:

«Padre Gentile, Eccellenza.»

Entrò un prete alto, asciutto, con forti occhiali sul naso adunco come un rostro.

«Il principe di Francalanza, mio fratello,» presentò Teresa. «Padre Antonio Gentile…»

Il prete inchinossi profondamente. Consalvo lo squadrava da capo a piedi. Un altro, adesso! Quella casa diventava una sacrestia!

«Il Padre,» aggiunse Teresa, rivolta al fratello, «ha la bontà di dirigere l’educazione dei miei bambini…»

«Io sono ben lieto,» rispose l’ecclesiastico, «di poter servire la signora duchessa…»