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I Vicere

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Ella non vedeva nulla, era persuasa che Michele esagerasse; la soddisfazione le si leggeva negli occhi, si manifestava ad ogni atto, ad ogni parola. E Teresa la guardava, non comprendendo. Sola fra tutti, ella non sapeva del testamento del padre. Non udiva i borbottii dei parenti, non comprendeva le allusioni della gente. Aveva un fuoco ardente nel petto, un chiuso fuoco che la consumava a poco a poco… Perché non lo aveva lasciato andar via? Perché non aveva stornato la tentazione? E gli occhi di lui dicevano sempre: «Volete dunque farmi impazzire?…»

Ella non poteva né udire né comprendere nulla, sotto il peso della tragica fatalità che sentiva aggravarsi tutt’intorno. A momenti pregava che l’agonia del padre durasse, perché solo quell’agonia, quello spavento di morte la distoglieva dal pensiero cocente. Che sarebbe avvenuto dopo la morte del padre?… Poi, vedendo l’atroce supplizio del principe, s’incolpava di quella preghiera inumana…

Il principe moriva a pezzo a pezzo, tra bestemmie e preghiere, scoppi di furore e di pianto. Ora aveva paura di restar solo, ora la vista della gente sana lo rendeva furibondo. Nominata erede la figlia, respingeva anche lei, poiché, dovendo ereditare, anche lei doveva affrettar coi voti la sua morte. Nessuno gli parlava né del testamento, né di null’altro: bisognava, per accontentarlo, che egli stesso avviasse un discorso. Più spesso, la sua porta era chiusa: nessuno poteva penetrare fino a lui.

E una notte un servo corse in casa Radalì: il principe era agli estremi. La notizia fu comunicata al barone Giovanni, perché avvertisse il fratello che dormiva con la moglie.

«E come si fa?… Come si fa?…» balbettava egli, in preda a una confusione straordinaria.

Andò finalmente a chiamare la madre. La duchessa corse nella camera maritale; all’improvvisa apparizione Teresa, che non dormiva più da tanto tempo, sentì un gran freddo serpeggiarle pel corpo. «Mio padre?…» e, cacciato un grido, cadde riversa sul letto. La duchessa scosse il duca Michele per destarlo dal sonno greve, e corse a cercare un cordiale. La cameriera e la balia accorsero anch’esse.

Nella stanza attigua il barone pareva istupidito. Suo fratello lo chiamava, le persone di servizio gli dicevano, passando e ripassando in fretta: «La povera duchessina!… Venga anche Vostra Eccellenza…» ma egli guardava la soglia della camera nuziale con occhio fisso, dilatato, come se ci vedesse qualche cosa di orribile.

«Giovannino!» gridò a un tratto il duca.

Egli entrò. Era distesa sul letto, con le braccia nude, il seno nudo, i capelli d’oro diffusi sul guanciale, le labbra dischiuse, gli occhi rovesciati.

«Aiutami a sollevarla…»

Era rigida come una morta. Egli la sollevò per le ascelle. Come se le mani gli scottassero, si mise a scuoterle. Tremava. Tremavano tutti, perché la notte era glaciale.

«Riprende i sensi,» annunziò la duchessa.

Allora egli s’allontanò, andò a mettersi dietro la finestra dell’altra stanza. Mezz’ora dopo uscirono tutti e tre: la suocera e il marito reggevano Teresa; Michele disse al fratello:

«Tu va’ a letto… Fa freddo… Tornerò appena potrò.»

In casa del principe c’era tutta la parentela. Consalvo stava nella Sala Gialla con gli zii; al capezzale del morente c’eran solo la principessa e lo zio duca. Teresa andò a mettersi accanto alla madrigna.

«È meglio che finisca,» dicevano nella Sala Gialla, «soffre troppo…»

Consalvo non diceva nulla. Pensava impaurito a quel male terribile che un giorno avrebbe potuto rodere, distruggere il suo proprio corpo in quel momento pieno di vita. Era il sangue impoverito della vecchia razza che faceva, dopo Ferdinando, un’altra vittima precoce, poiché suo padre aveva appena cinquantacinque anni. Sarebbe anch’egli morto prima del tempo, prima di conseguire il trionfo, ucciso da quei mali terribili che ammazzavano gli Uzeda giovani ancora? Suo padre avrebbe dato tutte le proprie ricchezze per vivere un anno, un mese, un giorno di più. Che avrebbe dato egli stesso, perché nelle proprie vene scorresse il sangue vivido e sano di un popolano?… «Niente!…» Il sangue povero e corrotto della vecchia razza lo faceva quel che era: Consalvo Uzeda, principino di Mirabella oggi, domani principe di Francalanza. A quello storico nome, a quei titoli sonori egli sentiva di dovere il posto guadagnato nel mondo, la facilità con cui le vie maestre gli s’aprivano innanzi. «Tutto si paga!…» pensava; ma piuttosto che dare qualcosa per vivere la vita lunga e forte d’un oscuro plebeo, egli avrebbe dato tutto per un solo giorno di gloria suprema, a costo d’ogni male… «Anche a costo della ragione?» Solo quest’altro oscuro pericolo che pesava su tutta la gente della sua razza lo atterriva; ma poi, considerando la lucidità del suo spirito, la giustezza dei suoi criteri, l’acutezza della sua vista, rassicuravasi; quei poveri di spirito, quei monomaniaci che s’eran chiamati Ferdinando ed Eugenio Uzeda avevano potuto perdere la ragione: non egli era minacciato… Ed in quel momento, sotto l’influenza di quei pensieri, di quel senso di paura, si giudicava quasi severamente per la lunga lotta sostenuta contro il padre. L’ostinazione, l’irremovibile durezza di cui aveva fatto mostra non era un sintomo inquietante, la prova che anch’egli poteva un giorno smarrirsi, come quegli altri? Anche resistendo alle imposizioni del padre, anche giudicandolo come meritava, non avrebbe egli potuto conservare una certa misura, rispettare le forme, salvar le apparenze? Perché quello scandalo? Non poteva fargli anzi torto?… E adesso sentivasi quasi disposto a chieder perdono al morente, a mutar politica…

Recitavano le preghiere degli agonizzanti, nella camera dell’infermo; il principe rantolava. Dinanzi allo spettacolo della morte, il senso di paura agghiacciava nuovamente il cuore di Consalvo. Egli aveva pietà del padre, di tutti i suoi. Stravaganti, duri, prepotenti, maniaci: erano forse responsabili delle loro brutte qualità? «Tutto si paga!…» e anch’essi pagavano il gran nome, la vita fastosa, le più invidiate fortune!… Ma quel viso affilato del padre, quello sguardo cieco, quel rantolo affannoso!… Il giovane piegava i ginocchi, intuiva cose che aveva negate. Egli che s’era fatto beffe della religiosità della sorella, accusandola di bigotteria, comprendeva ora che la preghiera e la fede erano per lei un rifugio. Inginocchiata, con le mani giunte, immobile come una figura sepolcrale, ella non vedeva, non udiva. Consalvo quasi invidiava l’immancabile conforto cui ella poteva ricorrere nella tristezza…

Il sacerdote che vegliava l’agonizzante alzò ad un tratto le braccia al cielo. S’udì lo scoppio di pianto della principessa, i gemiti delle donne di servizio, i sospiri della marchesa e di Lucrezia.

Solo Teresa non piangeva; neppure la duchessa Radalì e donna Ferdinanda, in verità. Tutti sfilarono dinanzi al cadavere, baciandone le mani. Le donne si lasciarono condur via, tranne la figlia e la moglie. Nella Sala Rossa, la duchessa ripeteva che era meglio fosse morto, quel poveretto; non era vivere, il suo. Il duca col maestro di casa e Benedetto Giulente davano disposizioni per la circostanza, mentre i servi sbarravano tutte le finestre, tutti i portoni. Michele, fattosi vicino a Consalvo, gli stringeva la mano, mormorando: «Coraggio!…» Egli stava per rispondere qualcosa, quando udì una voce:

«Eccellenza…»

Era il portinaio che gli faceva cenno di dovergli parlare.

«Permetti…» disse al cugino, e avvicinossi al servo, credendo gli chiedesse qualche ordine.

«Eccellenza… venga qui…» mormorava l’altro, trascinandolo nella stanza attigua con aria di mistero, che Consalvo, nonostante la tristezza del momento, giudicava un poco buffa. «Eccellenza!» esclamò a un tratto, quando furono soli, con voce di terrore che diede un senso di raccapriccio al giovane. «Che disgrazia, Eccellenza!… Suo cugino il barone… Il cognato della duchessa…»

«Giovannino?» esclamò egli, non comprendendolo.

«S’è ammazzato, è morto!… Or ora; è venuto or ora il cameriere della duchessa… L’ho lasciato abbasso… Morto, con una pistolettata… Per avvertir prima Vostra Eccellenza… Bisogna mandare qualcuno…»

Un sospiro di terrore e d’ambascia sfuggì dal petto a Consalvo. Il «figlio del pazzo», la pazzia, la morte violenta!… Ad un tratto si scosse, strinse il braccio al servo:

«Non una parola a nessuno, capisci?… Andrò io stesso… Aspetta il mio ritorno… Non dire che sono andato fuori…»

Sentiva di dover fare qualcosa. E quel sentimento, la nettezza della percezione, la rapidità della risoluzione gli procuravano un vero senso di sollievo, di fiducia, come se uscendo da un sogno penoso s’accorgesse in quel punto d’esser desto e al sicuro… Alla pazzia, al suicidio del cugino non era estranea Teresa: egli non sapeva in qual misura, ma era certo che non la sola eredità, non la sola malattia avevano sconvolto il cervello del giovane. Bisognava dunque nascondere il suicidio per Teresa, per la famiglia, per la gente… E appena giunto in casa dei Radalì, appena entrato nella camera dove il cadavere giaceva per terra, ai piedi di un divano, sotto un trofeo d’armi, esclamò dinanzi alla servitù costernata:

«Ah, quest’armi maledette!… Credeva che la rivoltella fosse scarica… Povero Giovannino!… Che disgrazia!…»

Nessuno osò rispondere. Prima che sopraggiungesse la giustizia, egli tolse l’arma che il morto stringeva nel pugno, ne cavò le cinque cartucce rimaste, e la ripose in mano al cadavere. E al pretore, che saputa la morte del principe Giacomo, gli diceva con aria dolente:

«Signor principe!… Che disgrazie!… Due in una volta!… Non pare credibile!…»

«Non pare davvero…» confermò egli, con chiara voce, interamente rassicurato.

Quel «signor principe» che il magistrato gli dava prima d’ogni altro gli rammentava che una nuova èra s’apriva per lui. La fermezza di cui aveva dato prova, la prontezza con cui aveva visto quel che doveva fare lo rassicuravano: egli non aveva paura di cadere nelle pazzie degli Uzeda; dei suoi aveva soltanto la ricchezza e la potenza. E l’inganno in cui trascinava la giustizia non era l’ultimo motivo del suo compiacimento; egli diceva al pretore:

 

«Il mio povero cugino era solo in casa… aveva la passione delle armi… Credette che questa rivoltella fosse scarica… Invece, guardi, c’era una sola cartuccia dimenticata…»

8

Le due duchesse stettero un mese fra la vita e la morte. Il dolore della madre fu terribile, poiché ella vide nella spaventosa disgrazia la mano di Dio. Quella morte era stata permessa affinché ella scorgesse il proprio errore e misurasse la colpa commessa disamando, trascurando quel poveretto. Ella aveva quasi calcolato sulla morte di lui, perché l’altro ne godesse! Non s’era neppur ravveduta alla prima minaccia, quando lo sventurato era stato sull’orlo della fossa! Così, dinanzi al cadavere sanguinoso, una mano l’aveva atterrata: ricuperati i sensi, le sue lacrime non cessarono più; nel vedere il muto, inconsolabile dolore dell’altro figlio, le crisi di pianto quasi la soffocavano. Quanto alla duchessa Teresa, tutti furon meravigliati della forza straordinaria che dimostrò nei primi momenti. Le due disgrazie che mettevano in lutto le due famiglie colpivano lei più di tutti, perché ella faceva parte di entrambe: pure, nelle primissime ore, mentre gli altri perdevano la testa, ella die’ prova d’una resistenza incredibile. Che alla notizia della morte del barone rimanesse insensibile, parve quasi naturale, perché ella aveva già chiuso gli occhi al padre ed era quindi sotto il peso d’un dolore più grande. Solamente Consalvo non riusciva a comprendere come la nuova sciagura, che impressionava gli altri per la tragica coincidenza con la prima e più per la sua imprevedibile rapidità, non scotesse la sorella, non le procurasse un moto di stupore, quasi ella l’avesse prevista. Strappata dal letto di morte del principe, ella sola poté strappare il marito e la suocera dal cadavere del giovane, ella sola li indusse a lasciar la casa e a ricoverarsi coi bambini dai Francalanza. Vegliò tutta la notte, senza piangere, tergendo il pianto degli altri, passando dalla madrigna alla suocera, dai figli al marito. Solamente col nuovo giorno, quando venne da San Martino de’ Bianchi il suono del mortorio, ella portò la mano al cuore e cadde.

La pietà fu immensa. «Solo il Signore poté darle tanta forza,» dissero i prelati; «un’altra sarebbe rimasta fulminata sul colpo!» E le donne, i servi, gli umili: «Pensare,» esclamavano, «che in due ore ha visto i cadaveri del padre e del cognato!… Veramente, c’era da impazzire!» Donna Ferdinanda, Lucrezia e la marchesa, calmissime, s’alternavano al capezzale delle tre inferme, perché anche la principessa dové mettersi a letto. Consalvo stava spesso accanto alla sorella, teneva compagnia a Michele; la sera, però, faceva portar su il registro aperto al pubblico in portineria. Egli enumerava le centinaia di firme disposte in colonna e le centinaia di biglietti da visita ammucchiati in due grandi vassoi, leggeva gli articoli necrologici terminanti tutti con: «Le nostre più sentite condoglianze al figlio inconsolabile», i voti di simpatico dolore deliberati dal Consiglio comunale, dalla Camera di commercio, dai sodalizi politici. Quelle carte erano il documento e la misura della sua popolarità e del suo credito, poiché grandi e piccoli, noti ed ignoti, tutta la città passava sotto il portone del palazzo. Dopo il funerale, celebrato con pompa straordinaria, egli cominciò a ricevere. Dalle due alle sei di giorno, dalle otto alle undici di notte, le sale erano stipate: assessori, consiglieri, impiegati, il prefetto, il generale, il questore, parenti, amici, conoscenze, ammiratori d’ogni genere, fautori di tutte le risme, rappresentanti di tutti i partiti e di tutte le clientele sfilavano continuamente. Tutti insistevano, con aria adatta alla circostanza, sulla doppia incredibile sciagura; egli si diffondeva un pezzo sulla malattia del padre e sull’«accidente» del cugino; ma poi, per toglier dall’imbarazzo le persone, avviava il discorso sopra un altro soggetto, chiedeva notizie degli affari agli assessori ed al prefetto, commentava con gli altri i risultati delle elezioni generali, la nuova riuscita dello zio duca. Quindici giorni dopo le due morti, tornò al Municipio: non sapeva ormai vivere fuori di lì, temeva che le cose andassero a soqquadro senza di lui, in mano di Giulente, il quale, come assessore anziano, aveva preso la firma.

Ingolfato di nuovo nel mare degli affari pubblici, quando tornava al palazzo, quando desinava, quando andava a letto, non pensava ad altro. Del resto nessuno lo disturbava, le inferme si rimettevano lentamente assistite dalla principessa vedova, da Lucrezia felicissima di poter fare nuovamente da padrona di casa, dalle altre parenti, senza contare i soliti Monsignori. La duchessa suocera cominciò prima a levarsi; aveva poco più di cinquant’anni, e pareva una vecchia decrepita. Teresa dava maggiormente da pensare ai dottori; il suo male ostinato, ribelle, come alimentato da un veleno misterioso, si prolungava esaurendo le sue forze. A poco a poco, andò meglio anche lei, ma il giorno che tentò di levarsi cadde senza sentimento. Poi tornò a riaversi. Consalvo, una mattina, prima d’uscire, passato a chiedere alla sorella se aveva bisogno di nulla, la trovò con la madrigna, la duchessa e Michele. Appena egli entrò, si volsero tutti dalla sua parte, taciturni, con aria grave. Teresa, con la testa sollevata da un monte di guanciali, sul cui candore il suo viso emaciato pareva di cera, disse con voce lenta e fioca, come stanca:

«Ascolta, Consalvo; siedi un momento… Abbiamo da parlarti.»

Egli sedette, aspettando.

«Ascolta: abbiamo parlato d’una cosa che ti riguarda… Nostro padre… tu sai che nostro padre, in un momento di collera… volle… volle preferirmi a te… Io non credo che questa potesse essere la sua volontà vera… Se il Signore non ce lo avesse tolto, egli l’avrebbe certo modificata… Io ho detto a Michele ed alla mamma che, in coscienza, non posso accettare… quel che ho avuto in tali condizioni…» Tacque un poco, poi aggiunse: «Dite voi… non posso.»

Un momento di silenzio. La duchessa aveva gli occhi pieni di lacrime, scrollava il capo amaramente. Consalvo disse:

«Perché parlare di queste cose, adesso?»

Le parole della sorella, quella rinunzia all’eredità, lo lasciavano del tutto indifferente. Da un pezzo erasi abituato all’idea di non aver altro dal padre che la legittima. Piuttosto lo stupiva un poco il magnanimo disinteresse di Teresa, che il cognato e la zia approvavano.

«Una volta o l’altra,» diceva Michele, «bisognava pure parlarne. Io e mia madre approviamo pienamente Teresa; non vogliamo profittare di quel testamento per portarti via il tuo… Siamo ricchi abbastanza… siamo troppo ricchi… e daremmo…»

Girò il capo per nascondere gli occhi rossi di lacrime. La duchessa singhiozzava.

«Ma perché ora?» ripeté Consalvo. «Ci sarebbe stato tempo… Zia, si calmi!… Va bene, va bene; vi ringrazio… Voi sapete che io non ho certi pregiudizi… voglio dire che, per me, tutti i figli, maschi o femmine, primogeniti o…» Scorgendo l’atteggiamento umile, quasi supplice della vecchia, non finì la frase; disse: «Insomma, se Teresa rinunzia al testamento, divideremo ogni cosa egualmente: va bene così?»

«Sì, come vuoi…»

Teresa, rimasta immobile, con gli occhi chiusi, parve destarsi. «Un’altra cosa,» riprese. «La felice memoria volle pure, nello stesso momento di cruccio… volle lasciare alla mamma questa casa… Non è giusto neppure che tu… L’erede del nome… Il solo del nostro nome, ne esca…»

Egli provò una commozione indefinibile: era il piacere di trionfare della volontà del padre, l’orgoglio di poter restare nella casa degli avi, la paura di dovere qualcosa in cambio alla madrigna. Infatti, Teresa continuava:

«La mamma rinunzia alla casa… prenderà invece un’altra proprietà… o un compenso in denaro…»

«Per me!…» esclamò la principessa Graziella. «È lo stesso! Io desidero che tutto si faccia d’accordo, che la famiglia sia sempre unita…»

«Però,» continuava Teresa, «non bisogna che neppur lei esca dalla casa di suo marito… Tu le cederai un quartiere, fino ai suoi mille anni… La proprietà sarà tua…»

Tacque una seconda volta. Pareva che sul punto di morire, con l’anima già staccata dal mondo, dettasse le ultime disposizioni per assicurare la pace, il benessere, la felicità di chi restava.

Donna Graziella, sotto l’influenza della generosità e del disinteresse di cui tutti davan prova, per non essere da meno degli altri, perché non si dicesse che ella sola metteva ostacoli all’accordo generale, aveva consentito al cambio; ma nulla al mondo l’avrebbe indotta a sfrattar dal palazzo.

«È giusto… Va bene» disse Consalvo. «Grazie!… C’intenderemo.»

Da quel giorno Teresa andò migliorando più rapidamente. Un coro di lodi, per quel che aveva fatto, per la nobile rinunzia di cui aveva preso l’iniziativa e che aveva indotto tutti gli altri ad accettare, si levò da ogni parte. Il Vescovo in persona venne a trovarla, appena ella fu in grado di riceverlo; e mentr’ella gli baciava la mano, piangendo, le disse: «Figlia mia, ho saputo. Sii benedetta ora e sempre pel bene che fai.» Ella scosse il capo mormorando: «Che è questo!…» Poi anche a nome della suocera e del marito lo pregò di distribuire diecimila lire di elemosine. Già gli altri prelati avevano ricevuto commissione di far dire messe pel riposo delle anime del principe e del barone.

I Radalì avevano già stabilito di lasciare il palazzo Francalanza per andarsene alla Tardarìa, appena Teresa sarebbe stata in grado di sopportare il viaggio. Dal giorno funesto, solo Michele aveva rimesso piede nella casa macchiata dal sangue del fratello. Ma, pei preparativi della partenza, era necessario che una delle donne vi si recasse. E poiché la prova era più dura alla madre, Teresa andò lei accompagnata dal marito. Salì le scale appoggiata al suo braccio; ma, entrando nell’anticamera, fu costretta a sedere, a fiutar la fialetta dei sali. Riavutasi, compì quel che aveva da fare con la fermezza antica. Le stanze del morto erano tutte chiuse.

Il domani partirono per la montagna, dove restarono tutta l’estate e l’autunno.

Frattanto Consalvo stabilivasi definitivamente al palazzo paterno. Lasciato alla principessa il quartiere di mezzogiorno, egli s’era riservato quello di gala, ma pei soli ricevimenti, fissando la propria abitazione al secondo piano. Con la madrigna non aveva quasi nulla in comune; facevano tavola separata perché desinavano a ore diverse, ciascuno aveva le proprie persone di servizio e la propria carrozza. Si vedevano di tanto in tanto per le necessità dell’amministrazione. Consalvo non sapeva nulla dello stato della casa, mentre la principessa ne era a giorno; quindi, se l’amministratore chiedeva ordini o schiarimenti, egli lasciava dire alla madrigna. Non solamente si sentiva attirato dagli affari pubblici più che dai suoi propri, ma giudicava che non valesse la pena di occuparsi di questi ultimi finché le proprietà restavano indivise.

La divisione fu cominciata al ritorno dei Radalì. Le due duchesse erano interamente rimesse in salute: la suocera pareva ancora più vecchia e la nuora era incinta. Tutti gli articoli del contratto furon stabiliti di comune accordo, con lo stesso disinteresse di cui avevan dato prova in principio. Teresa volle che tutti i feudi storici restassero al fratello, contentandosi delle proprietà di fresco acquistate, delle rendite, dei capitali, dei crediti diversi. In cambio, Consalvo volle che di questa differenza tutta morale fosse tenuto conto nella valutazione delle terre. La principessa, rinunziando al palazzo, prese le tenute di Gibilfemi e il podere dell’Oleastro, che valevano il doppio.

Consalvo, durante le trattative, era andato quasi tutti i giorni dalla sorella. Continuò nell’abitudine presa anche dopo. In fin dei conti egli doveva esserle grato della rinunzia che aveva raddoppiato, da un quarto alla metà, la sua parte. Ma, nonostante questa specie di dovere, nonostante la tristezza del lutto, egli riusciva difficilmente ad astenersi dal punzecchiar la sorella per la fervente, la crescente sua devozione. Adesso il Vicario, il confessore, le suore di carità parevano domiciliati in casa di lei. Le nuove chiese della Madonna della Salette e della Mercé, i miracoli di Lourdes e di Valle di Pompei, l’opera dei missionari erano argomento di tutti i loro discorsi. I disciolti frati Cappuccini, tornati a riunirsi in barba alla legge, avevano comprato una casa con le oblazioni dei fedeli: Consalvo seppe che sua sorella aveva contribuito a quell’acquisto. Non aveva ella, prima, giudicato provvida la legge che disperdeva quelle comunità? Come poteva mai andare ogni venerdì a pregare nella cappella della Beata Ximena, dove ardeva la lampada accesa per la salute di Giovannino, della cui pazzia e del cui suicidio ella era stata in parte cagione? Sapeva ella che il giovane s’era ucciso, e non era già morto d’accidente?… La sua fede ostinata, resistente ai disinganni, era sincera o non piuttosto una forma della mania ereditaria tra i suoi? Consalvo inclinava a quest’ultima ipotesi, anche perché egli non aveva fede alcuna; ma non un atto, non una parola rivelavano quel che c’era nel cuore della sorella. Quando egli arrischiò le sue prime allusioni ironiche, ella gli disse:

 

«Senti, Consalvo: ognuno ha da rispondere a Dio delle proprie azioni. Io posso soffrire del tuo scetticismo, ma non vengo a rimproverartelo. Così vorrei che tu rispettassi le mie credenze e, se ti piace di chiamarle così, le mie superstizioni. Ti chiedo troppo?»

Egli chinò il capo, prima di tutto perché il ragionamento era giusto, e poi anche perché le aderenze di Teresa nel mondo clericale gli potevano giovare.

Infatti, il giorno tanto aspettato s’avvicinava rapidamente: la riforma elettorale era all’ordine del giorno; dopo averla votata, la Camera si sarebbe sciolta. Ed egli s’accorgeva adesso che la propria elezione non era così sicura come gli era sembrata il primo giorno, a Roma, durante la sua conversazione con l’onorevole Mazzarini e poi nei princìpi della sindacatura. Per l’allargamento del voto e per lo scrutinio di lista, non più le poche centinaia di elettori dello zio potevano mandarlo alla Camera: ce ne volevano migliaia. E se egli era sicuro della città, non sapeva che assegnamento fare sulle sezioni rurali.

Già il vecchio duca, fiutato il vento, annunziava ai suoi intimi che avrebbe accettato un seggio al Senato: sicuro d’essere spazzato via come una foglia secca, egli si ritirava finalmente in buon ordine, fingeva di rinunziare spontaneamente per non patir l’onta d’una disfatta. E mentre Consalvo pensava ai casi suoi, inquieto per quel mutamento, per quella «rivoluzione morale» da lui invocata ma avvenuta un po’ troppo presto, Giulente non vedeva nulla, non s’accorgeva di nulla. Fiutava le pedate al duca come fosse l’oracolo di vent’anni addietro, aspettava di raccoglierne l’eredità, giurava ancora sulla destra e su Cavour, era sicuro che i nuovi elettori avrebbero dato il gambetto al governo della Riparazione, restaurando il principio moderato. E pensando mattina e sera a queste cose, lasciava ancora le redini della casa alla moglie, la quale, finendo d’imbrogliare ogni cosa, aspettava anche lei adesso, senza dirne nulla, anzi continuando a deriderlo, l’elezione, per non dargli i conti, perché egli potesse far quattrini come lo zio Gaspare…

Consalvo non s’occupava di lui: lo disprezzava talmente che, certe volte, quasi gli faceva pena. Riconosciuta la necessità di presto mettersi all’opera, egli affrettò una risoluzione che aveva già presa da un pezzo: rinunziare all’ufficio di sindaco. Non solo aveva bisogno d’essere libero, ma gli conveniva evitare un grave pericolo: che, prolungando il suo soggiorno al Municipio, il vantaggio ottenuto andasse perduto e si mutasse in danno irreparabile. Infatti, la baracca cominciava a scricchiolare. Le spese pazze da lui fatte avevano esaurito la cassa, l’ultimo bilancio s’era chiuso con un deficit considerevole, che egli aveva potuto dissimulare a furia d’artifici; ma la situazione non era più sostenibile; bisognava o imporre tasse o contrarre un debito, ed egli non voleva affrontare l’impopolarità di simili provvedimenti. Afferrò quindi il primo pretesto per battersela. L’amministrazione comunale discuteva ancora una volta sul modo di riscuotere i dazi, poiché il sistema dell’appalto non aveva fatto buona prova. Egli dichiarò, nelle private conversazioni, che il ritorno alla riscossione diretta era per lui uno sbaglio e che perciò bisognava correggere i difetti del sistema vigente, non abbandonarlo: in Giunta non fiatò, lasciò che la maggioranza si pronunziasse. La maggioranza deliberò di mutar sistema. La sera stessa, andato a casa, egli scrisse due lettere; una al prefetto, con la quale rassegnava le sue dimissioni; l’altra, collettiva, a tutti gli assessori, annunziando loro che «per ragioni di delicatezza» aveva già mandato la rinunzia alla prefettura.

Fu come un fulmine a ciel sereno. «Delicatezza?…» esclamò Giulente, a cui tutti gli altri chiedevano spiegazioni. «Che delicatezza? Io non capisco!…» E la Giunta in corpo andò a trovarlo, mentre la notizia si diffondeva rapidamente per gli uffici.

«Ci spiegherai,» gli disse Benedetto in nome dei colleghi, «che significa questa lettera?»

«Significa,» rispose il principe, guardando per aria, «che io non ho voluto esercitare nessuna costrizione, e siccome il vostro modo di vedere è contrario al mio, per lasciarvi liberi, me ne vado.»

«Ma a proposito di che?… Forse dei dazi?…»

«Dei dazi come di altre cose…»

Comprendendo che quella gente veniva per indurlo a ritirare le dimissioni, egli tagliava la via alle insistenze. Disse che da un pezzo, in tante quistioni, in cento piccoli affari quotidiani, s’era accorto che non c’era più fra loro il buon accordo d’un tempo. Ora egli non poteva rinunziare alle proprie idee, né imporle agli altri: il meglio era quindi andarsene.

«Potevate però dirlo prima! Non piantarci in asso! È questo il modo?…»

Confusamente, essi comprendevano il tiro che aveva loro giocato, il ballo in cui li lasciava; Giulente soltanto insisteva:

«Ebbene, c’è mezzo di riparare: torneremo sulle deliberazioni prese; il Consiglio non le ha ancora esaminate; faremo come vorrai…»

«È inutile che insistiate,» dichiarò Consalvo. «La mia risoluzione è irrevocabile. Persuadetevi pure che non sono fatto di ferro. Ho lavorato parecchi anni pel mio paese; ora ho bisogno di riposarmi. Del resto, sarebbe tempo che pensassi un poco agli affari di casa mia, adesso che li ho sulle spalle… Grazie della vostra premura,» gli assessori invece schiumavano; «ma credete, non posso. Nessun uomo è necessario; voi avete tanta esperienza quanto me; lascio l’amministrazione in buone mani…»

Benedetto andò dal prefetto, perché s’interponesse: fiato sprecato. La Giunta si riunì in casa di Giulente, per deliberare. Alcuni, volendo evitare gl’imbarazzi, sostenevano che alle dimissioni del sindaco dovessero seguire quelle di tutti gli assessori; ma non sarebbe parsa una diserzione? Non avrebbero dimostrato la loro incapacità e dato credito alla voce che li diceva altrettanti burattini mossi dai fili che il sindaco tirava a suo talento?

«È un tradimento!» vociferavano i più accaniti. «Un nero tradimento! Ci siamo lasciati giocare da cotesto birbante!»

«Calma, di grazia!… Perché tradimento?… Che interesse avrebbe?…»

«Come, che interesse?…» e allora gli cantarono sul muso: «Ma non capite?… Non capite che vuol essere deputato, e che ci pianta vedendo pericolar la baracca, ora che ha sfruttato la situazione?… Ora che ha altro da fare, con le elezioni imminenti?»

Egli impallidiva, guardava intorno con aria smarrita secondo che la mente gli si schiariva. Sì, negli ultimi tempi aveva ben capito che il nipote nutriva anche lui l’ambizione di esser deputato; ma era sicuro che non si sarebbe presentato subito, che gli avrebbe ceduto il passo almeno la prima volta, e ad ogni modo poteva forse sospettare un tiro di quel genere, l’imbroglio in cui lo metteva, l’eredità di tasse, di debiti, di odii che gli lasciava tra le braccia? Ora egli non protestava più contro le recriminazioni, le rampogne vivaci che i suoi colleghi lanciavano contro l’ex sindaco. «Inganno!… Tradimento!… Birbonata!… Azione degna di colpi di coltello!…» tutte queste parole echeggiavano invece nel suo pensiero; egli riconosceva che erano giuste, comprendeva finalmente che quel birbante da lui iniziato alla vita pubblica gli portava via il posto tanto aspettato e gli sparava calci per tutta gratitudine. E il duca? Il duca che gli aveva tante volte promesso di lasciare a lui, ritirandosi, l’eredità politica?… Il duca, dal quale egli corse, gli disse: