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«Perché ci vai, allora?» gli domandava la sorella. «È meglio restare a casa, se credi che sia una mascherata.»

«È meglio…» confermava Giovannino.

«Se resto a casa, perdo l’appoggio dei sagrestani e dei baciapile!»

«Ma i liberi pensatori che ti vedono in chiesa,» soggiungeva il cugino, mentre Teresa approvava col capo, «che dicono?»

«Dicono, come me: “Costa, il favore popolare!…”»

No, no, ella non voleva che suo fratello fosse così. E sosteneva con lui discussioni vivaci durante le quali le dava della pinzochera, della clericale, per finire con una raccomandazione: «Non m’inimicare i tuoi Monsignori!»

Ma i prelati che venivano a trovare la giovane duchessa le facevano anch’essi molti elogi del fratello. Scrollavano un poco il capo, veramente, a motivo dello scetticismo di lui, ma riconoscevano le sue buone qualità; e «quando il fondo è buono, non bisogna disperare». La frequentazione di quegli ecclesiastici, l’ascolto che prestava loro non facevano rinunziare Teresa alle sue idee, in fatto di politica religiosa. Devota credente, ma non bigotta, ella non poteva condannare, per esempio, la soppressione delle fraterie, udendo narrare – adesso che era maritata – gli scandali dei Benedettini. E perché mai il Papa ostinavasi a pretendere il dominio temporale, se Gesù aveva detto: «Il mio regno non è di questo mondo»?… Ma simili opinioni, che avrebbero fatto scomunicare ogni altra, erano in lei tollerate dai suoi confidenti spirituali, i quali del resto le stavano attorno, tiravano partito della sua pietà, dell’influenza che esercitava sul fratello sindaco. Se volevano far entrare certi ragazzi all’Ospizio di beneficenza o certi vecchi a quello di mendicità o certi ammalati agli ospedali; se bisognava sostenere le Suore di carità che gli atei volevano mandar via, oppure ottenere a prezzo di favore il terreno per gli asili cattolici; se sorgevano contestazioni tra il Municipio e la curia, Teresa serviva da intermediaria, otteneva spesso da Consalvo quanto gli chiedeva. Ma gli scherzi, i motteggi, le scettiche dichiarazioni del fratello, che diceva di concedere quelle cose per ottenerne il ricambio a suo tempo, le facevano male. Una volta che ella gli rimproverò la mancanza di carattere, le rispose sorridendo: «Mia cara, non sai la storia di quello che vedeva una festuca negli occhi altrui e non la trave nei propri? Pensa un po’ a ciò che hai fatto tu stessa!»

Erano soli. Ella chinò il capo.

«Volevi sposar Giovannino, ed hai preso Michele che non volevi: è vero, sì o no? Ed era un atto gravissimo, il più grave di tutta la vita, quello che decide dell’esistenza… Hai fatto così per mancanza di carattere, potrei dirti per seguire il tuo esempio. Io dirò invece che l’hai fatto perché t’è convenuto! Il carattere, tienlo bene a mente, è ciò che torna conto…»

Ella continuò a tacere. Era la prima volta che il fratello le parlava di quelle cose intime. Ma, quasi per correggere ciò che vi poteva esser d’urtante nelle sue parole, Consalvo riprese:

«Del resto, non te ne faccio colpa. Può darsi che sia stato meglio per te. Il povero Giovannino, dopo la malattia, non ha più la testa a posto…»

«Perché?…» domandò ella. «Come puoi dirlo? A me non pare…»

«Non parrà a te, pare a tutti quelli che gli parlano. Non vedi com’è sempre nelle nuvole? Guardalo quando cammina solo per le strade: urta i passanti, non vede le carrozze, tal e quale come suo padre…»

«Dici davvero?»

«L’altro giorno, se non erano le guardie di città, restava sotto un carro. Certe volte non ragiona, mi fa ripetere due o tre volte le cose prima che capisca… Parlane a tuo marito, fatelo curare, state attenti prima che succeda una disgrazia.»

Ella rimase profondamente turbata. Le pareva che il cognato fosse ristabilito del tutto; nulla le faceva più sospettare che lo squilibrio della sua mente durasse. Ora, aspettando ch’egli rincasasse, provava quasi un senso di paura, come se veramente un pazzo stesse per venirle dinanzi. Ma vedendolo rientrare sereno, sorridente, con un cartoccio di dolci pei bambini, con una quantità di notiziole per lei, ella fu certa che Consalvo s’ingannava, o almeno che esagerava sicuramente.

«Sai,» gli disse la prima volta che restò sola con lui, «i tuoi timori sono ingiustificati; Giovannino non ha nulla…»

Consalvo scosse il capo; ma come Teresa insisteva dimostrandogli che in casa il giovane non dava alcun sospetto, che con lei ragionava benissimo, egli si lasciò scappare, con aria di galanteria:

«Credo che stia bene… con te.»

A quelle parole, repentinamente, prima ancora che ne avesse considerata la significazione, una vampa le salì al viso. Voleva rispondergli, dirgli che lo scherzo era sconveniente e indegno, che quelle parole contenevano un sospetto ingiurioso ed infame, chiedergli di spiegarle meglio, costringerlo a disdirle… ma tutte quelle idee passavano ratte come lampi per la sua mente, ed ella restava muta, soffocata, avvampante, non udendo più nulla dei discorsi del fratello… Quando si trovò sola provò a ragionare. Che aveva voluto dire Consalvo? Era possibile che sospettasse di lei? E se anche avesse accolto un sospetto di quel genere, sarebbe venuto ad esprimerlo dinanzi a lei?… No, era uno scherzo, un’allusione sconsiderata ma innocente a quel che c’era stato un tempo… Ma perché non aveva ella risposto subito, dichiarando che quelle parole erano fuori di luogo? Perché era rimasta così turbata, perché la sua inquietudine durava ancora, adesso che ella si prendeva la testa fra le mani e si rivolgeva tutte quelle domande?… Aveva taciuto perché era stata colta in fallo?… Suo cognato, dunque, era inquieto lontano da lei e non ragionava, per causa di lei? E allora per qual virtù, quando le stava dinanzi, era sorridente e sereno?… Ed ella, che cosa aveva fatto perché ciò fosse possibile? Lo aveva curato, gli aveva dimostrato il bene fraterno che gli voleva, s’era valsa dell’ascendente che esercitava su lui per guarirlo… E poi? Nient’altro!… Nient’altro!… Il Signore le era testimonio!… Nulla, come suo fratello!… Perché dunque le parole del fratello suo?… Forse perché c’era stato qualcosa fra loro, un tempo, tanto tempo prima? Perché Giovannino non le era fratello di sangue?… E un dubbio atroce le passò per la mente: «Se quello che ha detto Consalvo è ripetuto dagli altri?…»

Lo stupore dominava quella tempesta di dubbi, di paure, di proteste. Come mai, se ella era innocente non solo di atti ma anche di pensieri, Consalvo aveva potuto pensare al male o solamente rammentare il passato ch’ella credeva morto e sepolto? Come mai?… Perché?… E vedendo rincasar Giovannino, udendolo discorrere seduto accanto a lei alla tavola comune, ella comprese: perché vivevano adesso sotto lo stesso tetto, perché erano tutto il giorno insieme, perché uscivano insieme in carrozza, perché ella lo ritrovava in casa del padre, delle zie, da per tutto dove andava… No, non s’era accorta ancora che la loro intimità fosse giunta a tal segno, o piuttosto non aveva compreso che quell’intimità potesse far nascere un sospetto orribile; ma ecco che la sua mente cominciava a rischiararsi: sì, non le era fratello, era un estraneo, un uomo che ella aveva amato altra volta… Bisognava dunque che egli andasse via, che se ne stesse lontano, come nei primi anni del matrimonio, come prima della malattia… Sì, andarsene via… E ad un tratto ella comprese una cosa più terribile di tutte: che ciò era impossibile, perché ella lo amava. All’idea di non vederlo più, al pensiero di rompere quella cara e dolce comunione di anime, ella sentì lacerarsi il cuore. E poiché non più lampi interrotti, ma una luce cruda illuminava adesso il suo pensiero, ella riconobbe che non lo amava soltanto per la compagnia spirituale, ma tutto, anima e corpo, come prima, come sempre…

Suo marito s’era fatto più grasso e più goffo, aveva perduto gli ultimi capelli: il suo cranio lucido le faceva ribrezzo. All’idea di passar la mano sulla chioma folta e odorosa di Giovannino ella tremava… perché s’accordavano nei giudizi, nei gusti, nelle opinioni? Perché si amavano!… Perché ella sola, nel tempo che egli soffriva, era stata buona a sedare lo spirito inquieto? Perché si amavano!… S’amavano, voleva dire che erano infami! Tanto più degni d’eterna dannazione, quanto più sacri erano i vincoli che avrebbero dovuto rispettare!… Lei, la santa!… la santa!…

Ed alla sua mente atterrita parve che il peccato fosse commesso, senza più scampo. Tutte le volte che Giovannino le stava vicino, ella tremava come dinanzi al testimonio ed al complice della propria colpa. Lo evitava, non lo guardava più in viso, smaniava quand’egli teneva in braccio i nipotini, baciandoli lungamente, avidamente, quasi baciasse lei stessa, una parte della sua carne… «Che avete, Teresa?» le domandava egli; e l’imbarazzo, la freddezza di lei divenivano più grandi, poiché non le diceva più cognata, ma la chiamava per nome, ed ella stessa lo chiamava per nome, tanto la loro intimità s’era stretta. Michele, la suocera cominciavano a notare anch’essi il mutato umore di lei e non sapevano a che attribuirlo, o lo mettevano in conto di un malessere indefinibile di cui ella lagnavasi. Se avessero saputo!… Se avessero scoperto!…

Quando giunse al parossismo, il suo terrore si risolse, come una febbre. Che potevano scoprire? Quali atti, quali parole, quali sguardi d’intelligenza? Era mai accaduto nulla fra di loro, un giorno, un’ora, un minuto, che li avesse costretti ad arrossire? Dov’era la colpa, fuorché nel pensiero? Ed era ella proprio sicura che egli nutrisse come lei il pensiero peccaminoso? Che prova diretta ne aveva? Quel suo spavento, al contrario, la repulsione che ora gli dimostrava, non potevano essere gli unici indizi denunziatori? E a poco a poco, sforzandosi a ragionare, quetossi. Egli sarebbe andato via, il tempo avrebbe ancor una volta spento il fuoco divampante a tratti nel suo cuore, come gl’incendi vulcanici…

 

Un improvviso peggioramento del padre la aiutò a dimenticare. Il tumore, scomparso da un pezzo nel punto dov’era passato il ferro del chirurgo, riappariva nuovamente più a destra, verso l’ascella. L’infermo, appena accortosi della nuova formazione maligna, ebbe un così formidabile accesso di furore impotente, che lo spavento gelò le anime dei suoi. Ella accorse, passò intere giornate al capezzale del disperato, sopportò pazientemente tutti gli scoppi del suo livore, alleviò le pene della madrigna. I dottori, al momento opportuno, s’apprestavano a tagliare, a bruciare; anche questa volta l’infermo urlò che non voleva. «Vogliono ammazzarmi! Non sono dottori, sono macellai!.. Li pagate per ammazzarmi, per liberarvi di me!…» E nel delirio, buttava via a un tratto la maschera dello zelante cattolico timorato di Dio, orribili, sconce bestemmie gli uscivano dalle labbra. La principessa si turava le orecchie, Teresa alzava gli occhi al cielo; i Monsignori però affermavano: «Non è lui quello che parla, è il male… Egli non sa ciò che dice…» Ma, scorgendo le vesti nere, l’infermo gridava: «E voialtri corvacci, che volete?… Fiutate la carne umana, corvacci?… Via di qua!… Via di qua!…» La crisi finì con un pianto dirotto. Egli promise Messe alle anime del Purgatorio, ceri e lampade a tutte le Madonne e a tutti i Crocifissi, chiese perdono ai suoi, scongiurando che non lo abbandonassero. Teresa, inginocchiata al suo capezzale, lo indusse a lasciarsi operare un’altra volta.

«Fate… fate come volete… Ma non mi lasciate!… Per carità, per l’anima di tua madre! non mi lasciare…»

Ella assisté al macello. Dapprima, la vista del padre che per l’azione del cloroformio, sotto la maschera di feltro, s’agitò, rise, disse parole incomprensibili, poi si quetò, impallidì, parve morto, le gelò il sangue nelle vene; ma ella fece forza a se stessa per non essere di impaccio ai dottori; e con straordinaria tensione della volontà vinse i propri nervi. Ma alla vista dei ferri, alle zaffate dell’acido fenico che si mescolavano alle esalazioni dell’anestetico, un senso di freddo le salì al cuore, un moto di nausea le passò per la gola, e a un tratto le parve che tutte le cose girassero.

«Vada via! Vada via!…» le diceva il chirurgo quando tornò in sensi; ma ella scosse il capo: aveva promesso, restò.

Non vedeva la piaga, ma il gesto circolare che l’operatore faceva col braccio, il sangue che sprizzò sui grembiali del chirurgo e degli assistenti, che macchiò il letto e il pavimento, che fece più disgustoso l’odore dell’aria. Quanto sangue! Quanto sangue! Se ne colmavano le catinelle; vuotate, si ricolmavano… Ella stava dall’altro lato del letto, tenendo una mano del padre, fredda come quella d’un cadavere. Non poteva né pregare né pensare, vinta dall’orrore: una sola idea occupava il suo spirito: «Quando finiranno?… Non finiranno più?…»

Non finivano mai. Come un artefice alle prese con la materia inerte da ridurre alla forma prestabilita, il chirurgo tagliava ancora, recideva, raschiava; lasciava uno strumento e ne pigliava un altro, poi riprendeva il primo, calmo, freddo, attentissimo. Ed un incidente prolungò l’attesa, ritardò l’operazione. Una goccia del putrido sangue cadde sulla mano scalfita dell’assistente; perché quell’uomo non fosse avvelenato accesero il termocauterio, il platino rovente fu passato sulla sua mano; s’udì il frizzo della carne bruciata, l’aria divenne mefitica.

Dopo un’ora, tutto finì. Lavate le macchie, fasciata la piaga, riposti gli strumenti nelle custodie, il principe fu destato. Il primo sguardo del padre, cieco ancora, ancora morto, accrebbe il terrore di Teresa. Nondimeno, ella attese il ritorno della vita; disse al padre, sorridendogli, stringendogli la mano:

«È fatto… tutto è andato benissimo… Non è vero, dottore?…»

Ma ad un tratto ogni forza l’abbandonò. Suo marito, entrato con la principessa e gli altri parenti, la portò via, in una sala lontana. Il dottore venne a dire, con tono d’autorità:

«Volete sì o no andarvene a casa, adesso?… Andate a riposarvi: qui non c’è più nulla da fare…»

Non ebbe la forza di rientrare neppure un istante nella camera dell’infermo; volle però che Michele restasse, per recargliene più tardi le nuove. Scese le scale barcollando, appoggiata al braccio del dottore, e si lasciò cadere sul sedile della carrozza. E mentre i cavalli correvano, e l’aria smossa le vivificava il petto, anche lo spirito liberavasi finalmente dalla lunga oppressione. Ella pensava: «Quanti dolori! quante miserie!» Che valevano al padre le ricchezze, l’impero ai quali aveva tanto tenuto? Non avrebbe dato tutto per la salute?… Ed era condannato! Quell’operazione era quasi inutile: l’ascesso sarebbe riapparso altrove… E contro quella povera vita ròsa dal male, un giorno, un momento, in cuor suo – non a parole, Signore, col solo pensiero; ma con un pensiero egualmente colpevole – contro quella povera vita ella s’era ribellata… Perché?… Come era stato possibile?… Se egli aveva torti, adesso li pagava, con un supplizio atroce. E se aveva torti, toccava a lei giudicarlo? Egli non aveva posto opera a farla felice: poteva giudicarlo per ciò?… E dov’era la felicità? Sarebbe ella stata felice altrimenti? Chi sa quali altri dolori! Quante miserie!… E sempre il gesto del chirurgo che incideva la viva carne le stava dinanzi agli occhi… Pensava suo padre a queste cose? Riconosceva d’essersi ingannato?… Ella non doveva giudicarlo; ma perché dunque le tornavano a mente tutte le accuse che aveva udito ripeter contro di lui: che era stato duro, falso, violento; che aveva spogliato le sorelle e i fratelli, e falsificato il testamento del monaco, e lasciato morire accattando lo zio, e amareggiato la vita e affrettato la morte della moglie, della madre di lei?.. Erano vere queste cose? Era egli così tristo?… Se l’invidia, la malignità lo avevano calunniato, quanto più tristo era il mondo? Che tristo e orribile mondo, quello dove l’odio tra padre e figlio poteva allignare!… Egli non voleva veder Consalvo; il sacrifizio di lei era stato dunque inutile! Sarebbe morto senza vederlo, bestemmiando e piangendo… Che mondo di tristezza, che mondo di miseria!… Allora, rapidamente, quasi i cavalli che la trascinavano la trasportassero indietro nel tempo, ella pensò alla badìa, dove, fanciulla, s’era sentita opprimere, come ad un sicuro rifugio, a un porto riparato dalle tempeste. Beata, sì, la zia monaca che passava i suoi giorni, tutti eguali, tra le preghiere e le semplici cure della santa casa, fuor della vista del male, al sicuro dalle tentazioni, dagli errori e dalle colpe. Ella pensava: «Perché ho avuto paura del monastero?… Così vi fossi entrata per sempre!…» L’imaginazione dolente riconosceva adesso che la verità era lì, in quel silenzio, in quella solitudine, in quella rinunzia. «Vi entrerei ora?» chiedeva a se stessa; e rispondeva: «Ora, all’istante!» Che era la vita se non l’aspettazione della morte? Perché avrebbe provato repugnanza per la solitudine, la rinunzia, il silenzio della vita claustrale, se ella sentivasi sola, spaventosamente sola, se aveva rinunziato a tante cose che le erano state a cuore, se le voci del mondo erano tristi e dolorose? «Se io non fossi nata?…»

Un brivido di freddo l’assalì quando la carrozza arrestossi nel cortile di casa sua. E i suoi figli? Aveva dimenticato i suoi figli? Quando li ebbe stretti al petto, la lunga agitazione del suo spirito si risolse in pianto. Ed in quel punto ella udì una voce, una voce viva, dolce e pietosa:

«Teresa, che avete?… Com’è andata?… Sta male?…» Non poté rispondere; il pianto la strozzava.

«Teresa!… Per l’amor di Dio, non v’angustiate così! Voi che siete tanto forte!… L’operazione non è riuscita? Sì?… E allora?… Andiamo, Teresa, siate ragionevole!… Guarirà, vedrete… Poveretta!… Ha ragione… Ma ora basta! Basta, Teresa… Sentitemi… ditemi… Michele non è venuto con voi?…»

Ella rispondeva a cenni col capo. Voleva dirgli di tacere perché quella voce dolce, quelle parole buone accrescevano la tempesta del pianto, perché quella soave pietà le rivelava la propria miseria. No, ella non era forte; era debole, timida, fragile; non poteva dare aiuto agli altri; aveva ella stessa bisogno d’appoggio e di soccorso.

E la caritatevole voce diceva ancora:

«Poveretta! Poveretta!… Fatevi animo… Sono qui i vostri figli; guardateli, guardate come sono belli… Fatelo per amore di questi angioletti, non v’ammalate anche voi… E la mamma che non c’è!… Volete vostro fratello? Volete che lo mandi a chiamare?… Dite che cosa volete; son qua io…»

Ed il suo braccio la cinse, la sua tempia sfiorò la tempia di lei. Ella piangeva ancora, ma di tenerezza, non di dolore: dopo l’orrore che aveva visto, dopo le tristezze che aveva pensate, l’anima sua aveva bisogno di conforti, e le confortanti parole le scendevano soavi all’anima come un balsamo. Avendo pensato d’esser sola al mondo, di non aver nessuno che l’intendesse, abbandonavasi ora, con la trepida voluttà della debolezza, a quella forza, a quella simpatia. Egli le asciugava gli occhi, le divideva sulla fronte i capelli scomposti. La sua mano tremava.

«Così…» mormorava, «basta così…»

Le passò nuovamente il braccio attorno alla vita, le prese una mano. I singhiozzi che le sollevavano il seno ambasciato facevano più stretto l’abbraccio. La baciò in fronte.

Ella si liberò dalla stretta e levossi. La duchessa sopravveniva.

Da quel momento, entrambi lessero il pensiero della colpa nei loro sguardi. Evitavano di guardarsi, ma il pensiero persisteva, come se qualcuno, le stesse mute cose lo esprimessero. Se la mano, se l’abito dell’una sfiorava quello dell’altro, le fronti arrossivano, le menti si turbavano. Ella non pensava più a suo padre che se ne moriva, non ai suoi figli. Alla tentazione, soltanto, sempre. Andò a gettarsi dinanzi alla Beata: la lampada votiva ardeva perennemente, come la fiamma che struggeva il suo cuore. Non valsero le preghiere: nessuno le udiva. Nulla valeva. Ella pensava: «Sarà oggi… sarà domani…»

Suo marito le disse una volta:

«Giovannino m’inquieta… torna ad esser turbato come dopo la malattia, hai visto?»

Ella non aveva visto nulla: stupivasi come non si fossero accorti ancora dello smarrimento suo proprio.

«Non parla, non ride, pare che ricominci a tormentarlo qualche fissazione… Che possiamo fare?»

Che potevano fare?

Un giorno, a tavola, Giovannino annunziò:

«Parto per Augusta.»

Era la salvezza, ella pensava che era la salvezza, mentre la duchessa e Michele esclamavano:

«Un’altra volta? Per prendere una recidiva? In questa stagione?… Di qui non ti lasceremo partire!»

Ella pensava che era la salvezza; e come Michele le domandò:

«È vero che non può partire?»

«È un’imprudenza…» rispose.

Egli alzò lo sguardo su lei. Non si guardavano negli occhi da tanto tempo. Allora ella ebbe paura: quegli occhi spalancati, fiammanti, terribili, gli occhi del folle, ripetevano a lei: «Volete dunque farmi impazzire?»

E rimase. Ma divenne un selvaggio. Ella s’accorse subito della pazzia, perché era rivolta contro di lei. La evitava, non le rivolgeva la parola. Quando gli presentavano i bambini li respingeva, quasi toccasse lei stessa nel toccar la carne della sua carne. Una terribile misantropia lo assalì, non andò più fuori: un giorno, costretto ad uscire, non rincasò. Tornò il domani: non si seppe dov’era stato.

Quel giorno ella fu chiamata, all’alba, dalla principessa. Il principe Giacomo era agli estremi; il sangue avvelenato incancreniva a poco a poco tutto il suo corpo. La mattina prima, con grande stupore di tutti, egli aveva mandato a chiamare Consalvo. Voleva fare un ultimo tentativo per indurlo a prender moglie; la paura della iettatura cedeva dinanzi alla suprema necessità di assicurare la discendenza. Nella mente superstiziosa, indebolita ancor più dal male, il matrimonio del figlio era d’altronde l’unico mezzo di togliergli quel funesto potere. Ammogliato, stabilito in una casa propria, padrone d’un assegno e della dote della moglie, non avrebbe avuto ragione di augurare corta vita al padre.

Consalvo venne subito, s’informò premurosamente della sua salute, sedette al suo capezzale. Il principe spiegò

«T’ho fatto chiamare per dirti una cosa.. È tempo che tu prenda moglie.»

«Pensi Vostra Eccellenza a guarire!» esclamò Consalvo. «Poi si parlerà di questi negozi.»

«No,» insisté il principe. «Devi prender moglie ora…» Non aggiunse: «Perché io sto per morire…»

Consalvo frenò un moto di fastidio

«Ma che teme Vostra Eccellenza?… Che la nostra razza si spenga?… Non dubiti… prenderò moglie, glielo prometto… Mi lasci però un po’ di tempo… Vuole che io ne prenda l’impegno in iscritto?» aggiunse sorridendo. «Sono pronto!… È contenta?…»

 

L’infermo tacque un poco; poi riprese con voce breve:

«Voglio che tu non perda tempo… Ha da esser ora.»

«Oggi, subito, all’istante?…» continuò Consalvo con lo stesso tono di scherzo.

«Ora… o te ne pentirai!»

Egli nascose più difficilmente un moto di ribellione.

«Ma, santo Dio, che fretta ha mai Vostra Eccellenza… Neanche s’io fossi una ragazza che invecchiando corresse il rischio di non trovar più partiti! Ho appena ventinove anni; posso aspettare ancora, fare una buona scelta. Ai tempi di Vostra Eccellenza davano moglie ai ragazzi di diciott’anni; ora le idee sono altre. Non dico che col sistema antico riuscissero cattivi mariti e padri… ma, come si pensa oggi, come penso io, bisogna aver acquistato una larga esperienza, essere nella pienezza della vita prima di dar la vita ad altri. Forse sbaglierò; ma a prender moglie ora, le assicuro che farei infelice la mia compagna e sarei infelice io stesso. Mi pentirei se ascoltassi Vostra Eccellenza. Vorrei farla contenta, se l’obbedienza al suo desiderio non portasse conseguenze troppo gravi a me e ad altri…»

Finché il figlio parlò, sfoggiando la sua eloquenza, il principe non disse una parola. Quando Consalvo andò via, egli s’afferrò al campanello e sonò disperatamente; e la principessa, le persone accorse lo trovarono in uno stato da fare spavento. Pallido come fosse già morto, con le mascelle contratte, con le coltri strettamente afferrate tra le mani adunche:

«Il notaio! Il notaio! Il notaio!» mugolava.

Ad ogni parola dei familiari che gli domandavano che avesse, che tentavano calmarlo, mugolava, come un cane arrabbiato:

«Il notaio!… Il notaio!… Il notaio!…»

Teresa lo trovò in quello stato. Non si chetò se non prima venne il notaro. E allora diseredò il figlio. Solamente nell’impeto dell’ira, per vendicarsi, aveva potuto indursi a dettare le sue ultime volontà. E, arrestando con rauche grida le osservazioni del vecchio notaro che non credeva alle proprie orecchie e cercava richiamarlo alla ragione e impedire quella mostruosità, dettò:

«Nomino erede universale di tutto il mio patrimonio, di tutto il mio patrimonio, mia figlia Teresa Uzeda duchessa di Radalì… con l’obbligo che faccia precedere il cognome dei suoi figli dal mio casato, chiamandoli Uzeda Radalì di Francalanza… e così per tutta la discendenza, sino alla fine…»

«Eccellenza…»

«Scrivete!… Lascio a mia moglie Graziella principessa di Francalanza il mio palazzo avito… con l’obbligo espresso, espresso, scrivete: espresso, che vi dimori essa sola, vita natural durante…»

«Signor principe!…»

«Scrivete!…» E continuò a dettare i legati alle persone di servizio, ai parenti per il corrotto, alle chiese per le messe, ai preti per le elemosine; e non una sola parola, non un accenno a quel figlio. Ordinò che i funerali fossero celebrati col decoro competente al suo nome, che il suo corpo fosse imbalsamato; ma a mano a mano che esprimeva queste intenzioni, la sua voce s’arrochiva, gli spiriti vitali lo abbandonavano: quando finì, parve al notaio che l’ultimo momento fosse giunto davvero. Ma allora l’infermo si rianimò, prese il foglio, lo rilesse parola per parola e lo firmò. Quando le ultime formalità furono compite, quando il testamento fu chiuso, quella violenta eccitazione venne meno a un tratto. Egli aveva parlato della propria morte! Aveva dettato le ultime volontà! Aveva provveduto ai funerali! Egli era iettatore di se stesso! Non gli restava più che morire! Nessuno gli cavò più una parola: immobile, tetro, serrò gli occhi, aspettando.

Il notaio era già corso dal duca:

«Il principino diseredato! Messo fuori di casa! Erede universale la figlia! Il palazzo alla madrigna!… E quando mai s’è vista una cosa simile?… La casa Francalanza è proprio finita?… Pensateci voi!… Riparate lo scandalo!… Persuadete quel pazzo!…»

Il duca, in quei giorni, aveva da fare: la tredicesima legislatura era stata chiusa, i comizi convocati per il 26 maggio. Deciso a ritirarsi se lo avessero nominato senatore, egli ripresentavasi ancora una volta perché la nomina non voleva venire. E tra la devozione dei vecchi amici, tra l’indifferenza sfiduciata di quanti speravano nella promessa riforma elettorale per sbarazzarsi di lui, la sua candidatura non andava peggio delle altre volte: Giulente, credutosi sul punto di ottenere il posto, tornava a battersi per lo zio. Nonostante le sue occupazioni, udite le notizie portategli dal notaio, il duca accorse al palazzo; ma il principe aveva dato ordine di non lasciar entrare anima viva. Andò allora in cerca di Consalvo. Questi era al Municipio, dove presiedeva, nella sala della Giunta, una riunione d’ingegneri per una nuova opera che aveva divisata: la costruzione di grandi acquedotti destinati a dotar d’acqua la città. Udendo che suo zio lo chiamava, chiese permesso agli astanti e andò a riceverlo nel suo gabinetto.

«Non sai che succede?» esclamò piano il duca, ma con aria grave ed inquieta; e gli riferì ogni cosa.

«Ebbene?» rispose Consalvo, arricciandosi i baffi.

«Come, ebbene?… Ma va’ a gettarti ai suoi piedi!… Chiedigli perdono!… Arrenditi una buona volta…»

«Io?… Perché?…» E con un sorriso ambiguo, soggiunse: «Può togliermi quel che mi dà la legge? No?… Faccia del resto ciò che gli pare!»

Lo zio restò a guardarlo, interdetto, non comprendendo. Era dunque vero? Quell’Uzeda non somigliava a tutti gli altri? Quando gli altri litigavano, s’azzuffavano, passavano sopra a tutti gli scrupoli e a tutte le leggi pur di far quattrini, quello lì restava indifferente, sorrideva udendo che era diseredato?

«Ma tu non pensi a ciò che perdi!… Il palazzo lasciato a sua moglie per cacciartene via?… Non capisci questa cosa?… Non te ne duole?…»

Consalvo lasciò che lo zio dicesse; poi rispose:

«Vostra Eccellenza ha finito?… Sappia che la legittima, cioè un quarto del patrimonio, mi basta, anzi mi soverchia. Quanto al palazzo…» egli tacque un poco, perché questo veramente gli coceva: il principe aveva saputo portare il colpo, «quanto al palazzo, case non ne mancano, e coi quattrini se ne fanno di più belle della nostra… Adesso Vostra Eccellenza permetta: la commissione m’aspetta.»

E la notizia si diffuse per la città. Ad una voce, in alto e in basso, il principe fu biasimato. Antipatia e odio contro il figliuolo, sia pure; ma fino a questo punto?… L’anima a Dio e la roba a chi spetta!… Non si rammentava egli dunque che anche la vecchia principessa sua madre lo aveva odiato, ma che, nondimeno, lo aveva trattato come il prediletto?.. La cosa era solo possibile in quella gabbia di matti. Pazzo il padre e pazzo il figlio! Ma i fautori del principino esclamarono: «Vedete il suo disinteresse?… Per esser uomo di carattere, per non transigere, perde un patrimonio, e non gliene importa niente!»

Ma se tutti, universalmente, biasimavano il principe, tra la servitù, tra i familiari, tra i lavapiatti regnava una vera costernazione. La casa Francalanza finita! Le ricchezze alla femmina! Il palazzo alla moglie! Era venuta dunque la fine del mondo?… E una sola persona durava fatica a nascondere la propria gioia: la duchessa Radalì madre. La sostanza che si riuniva nelle mani del suo primogenito era dunque immensa! Il duchino non avrebbe potuto contare le proprie rendite. Se Giovannino non si fosse ammogliato – e lei c’era per questo! – la ricchezza del futuro duca avrebbe dato le vertigini!… Ella quasi le provava, non comprendeva come Michele restasse indifferente a quell’annunzio, come le dicesse:

«Mamma, non penso a questo… Penso a Giovannino… Non lo vedete? Cupo, taciturno, certi giorni mi fa spavento…»