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«Mi pare che lo scherzo sia durato a lungo; d’ora in poi, se vorrete altri esemplari, li pagherete anticipatamente.»

Allora, finiti i soldi che aveva portato da Palermo, gl’imbarazzi ricominciarono per l’ex Gentiluomo di Camera. Come un fattorino di libraio, egli saliva e scendeva scale coi piedi gonfi dalla gotta, trascinandosi penosamente, per offrire il suo Araldo, per mostrarne un fascicolo di saggio, e quando arrivava a scovare un compratore correva a supplicare il principe perché gli desse la copia, giurando e spergiurando che sarebbe tornato subito coi quattrini; ma il principe, duro: «Portateli prima!» Non sapendo dove dar il capo, il vecchio fermava i parenti e le semplici conoscenze per farsi prestare le trenta lire; raggranellatele, le portava al nipote, il quale solo dopo averle intascate rilasciava l’esemplare. Ma, riscosso il prezzo dal compratore, don Eugenio dimenticava di soddisfare i debiti contratti, talché l’operazione si rinnovava ogni volta con maggior difficoltà. Del resto il cavaliere trovava da un certo tempo la piazza molto più dura di prima: da gente a cui egli non aveva mai proposto l’Araldo sentivasi rispondere: «Un’altra volta? L’ho già!» Dicevano così per mandarlo via?… Un giorno, per sincerarsene, volle domandare a uno di costoro come l’avesse: «Oh, bella! L’ho comprato! È venuta una persona di casa vostra: non siete zio del principe?…»

Il vecchio si batté la fronte: quel birbone di Giacomo!.. Non contento di avergli preso novemila lire di roba in cambio delle duemila e cinquecento anticipate, non contento d’avergli reso impossibile la vendita pretendendo l’anticipazione del prezzo, adesso vendeva le copie per proprio conto! «Ah, ladro! Ah, ladro!…» Ma, composta la fisionomia all’abituale bonarietà, corse al palazzo.

«Se anche tu hai venduto l’opera, facciamo i conti!» disse al principe.

«Che conti?» rispose costui, quasi cascando dalle nuvole.

«Hai venduto il libro! A quest’ora il mio debito sarà estinto.»

«Ci vuol altro!… I conti li faremo quando avrò tempo…»

Don Eugenio tornò, assiduamente; ma il nipote un po’ gli diceva che aveva da fare, un po’ che gli doleva il capo, un po’ che stava per andar fuori. Lo zio non perdeva la pazienza; tornava ogni giorno, a rammentargli la promessa; anzi una brutta mattina gli disse, gettandosi sopra una seggiola:

«Senti, i conti li faremo quando sarai comodo; ma oggi non ho niente in tasca e sono stanco. Prestami qualche cosa.»

«Come? Volete il resto?» esclamò il principe impallidendo. «Credete forse che siamo pari? Si sono vendute mezza dozzina di copie in tutto! Avete il viso di chiedere altri denari?»

«Non ho come fare,» gli confidò il cavaliere, con un viso da affamato, guardandolo bene negli occhi.

«E venite da me? Che pretendete? Che vi dia da mangiar io? Perché avete sciupato ogni cosa? Perché non avete pensato mai all’avvenire?»

«Io ho da mangiare, capisci?» ripeté il cavaliere, con lo stesso tono di voce; e i suoi occhi parevano volersi mangiare il nipote.

«Andate da vostro fratello, da vostra sorella… che hanno l’obbligo d’aiutarvi… Perché venite da me?»

Ma, spaventato dall’espressione del vecchio, gli voltò le spalle. Quando lo udì andar via, chiamò il portinaio per ordinargli di non lasciarlo mai più salire.

E il provvedimento riscosse l’unanime approvazione della servitù: veramente quel cavaliere non faceva onore alla famiglia, non tanto per quel che si diceva sul conto di lui, quanto per la condizione in cui era caduto. Il nuovo maestro di casa confessò: «Io mi vergognavo ogni volta che lo dovevo annunziare al padrone…»

Tutti i tentativi del vecchio per salire al palazzo furono vani: egli ebbe un bel dichiarare: «Mio nipote mi aspetta, m’ha detto che sarebbe in casa,» oppure: «L’ho visto rientrare,» oppure: «Eccolo lì, dietro quella finestra…» il portinaio, i cocchieri, i famigli gli dicevano sul muso: «Vostra Eccellenza può andarsene, che perde il suo tempo,» e gli davano dell’Eccellenza come in tempo di carnevale ai facchini di piazza vestiti da barone. Egli tentò di salire per forza, ma allora lo afferrarono e lo spinsero fuori: «Eccellenza, con le brusche?… Questi non son modi da Eccellenza pari vostra!…» Un giorno, si mise a sedere in portineria, dichiarando che non si sarebbe mosso fino al passaggio del nipote. Sulle prime, il guardaportone ci scherzò su; poi tentò persuaderlo con le buone, prendendolo dal lato dell’amor proprio: «Qui non è il posto di Vostra Eccellenza!… Un cavaliere come Vostra Eccellenza sedere con un portinaio! Non si vergogna?…» Ma il vecchio non si moveva, non rispondeva, cupo, affamato come un lupo; e il portinaio cominciò a perdere la pazienza, smise a un tratto l’Eccellenza: «Se ne vuole andare, sì o no?…» e come don Eugenio restava inchiodato sulla seggiola, quell’altro montò finalmente in bestia, smise anche il lei e, afferratolo per le spalle, lo fece sorgere e lo spinse fuori ad urtoni, gridando:

«Fuori, vi dico, corpo del diavolo!»

Donna Ferdinanda lo cacciò via come un cane rognoso: il duca gli dette un piccolo soccorso, facendogli intendere di non dover fare assegnamento sopra altre elemosine. Procurargli un posto era il meglio che si potesse fare e ciò che egli desiderava; quindi Benedetto Giulente, il quale lo aveva anch’egli sovvenuto, ne parlò a Consalvo.

«Che posto volete dargli?» rispose il principino. «È una bestia, non sa far nulla. Volete che lo zio del sindaco serva da usciere o da accalappiacani?»

Era chiaro che al Municipio non c’era da far niente per il legittimo orgoglio del principino. Giulente andò dal duca, suggerendogli di metterlo in qualche ufficio alla provincia o alla prefettura. E il duca, per evitare altre domande di sussidi, fece in modo da ottenergli un posto di copista all’Archivio provinciale, il meglio che si poté trovare. Ma quando ne diedero comunicazione all’interessato, il cavaliere diventò rosso come un rosolaccio.

«A me un posto di scrivano? Per chi m’avete preso?»

«Ma veda…» gli fece considerare rispettosamente Benedetto, «Vostra Eccellenza non ha titoli accademici… è avanzata in età… le amministrazioni pubbliche sono esigenti…»

«E mi proponi di fare il copista?» gridò il cavaliere. «A me, Eugenio Uzeda di Francalanza, Gentiluomo di Camera di Ferdinando ii, autore dell’Araldo sicolo?… Perché non lo fai tu, pezzo d’asino che sei?»

Il vecchio ricominciò a chiedere aiuto. Ma il duca, per punirlo del rifiuto del posto, gli chiuse la porta in faccia, e Lucrezia, dopo averlo giudicato degno dei più alti uffici per far onta al marito, non lo volle neppur lei per la casa quando lo vide questuare… Un giorno, il cavaliere, sempre più miserabile e stracciato, andò dalla nipote Teresa. Il portinaio, non riconoscendolo, non voleva lasciarlo passare; arrivato finalmente dinanzi alla duchessa nuora, che giunse le mani vedendolo in quello stato, cominciò a querelarsi:

«Vedi come m’ha ridotto tuo padre? Quel birbante che mi ha rubato il libro? Quel ladro che mi ha…»

«Zio, per carità!…» esclamò Teresa: e vuotò la sua borsa nelle mani del vecchio che tremava dalla cupidigia alla vista dei quattrini. Egli si ripresentò altre volte al palazzo ducale, ma la duchessa madre, per evitare i commenti tra la servitù, dichiarò a Teresa che, se voleva soccorrerlo, facesse pure; ma che in casa non lo lasciasse più venire.

Ed anche quella porta gli fu chiusa.

Egli aspettava che gli procurassero un posto di professore o di cassiere, tanto da vivere signorilmente senza far nulla; e siccome non lo contentavano, fermava per istrada le persone di sua conoscenza, narrava a modo suo i propri casi:

«M’hanno spogliato, m’hanno ridotto alla miseria! Mio fratello il Benedettino m’aveva lasciato cinquecent’onze, e stracciarono il testamento, ne fecero uno falso! Il principe mio nipote m’ha rubato la mia grand’opera dell’Araldo sicolo!… Mi chiudono la porta in faccia! A me, Eugenio di Francalanza! Gentiluomo di Camera! Presidente dell’Accademia dei Quattro Poeti!… Sanno forse chi sono io? Se veniste a casa mia, vi farei vedere quante medaglie e diplomi: uno scaffale intero!…»

La sua megalomania, con la miseria, gli stenti, le umiliazioni, cresceva di giorno in giorno; egli annunziava:

«Il governo m’ha invitato a Roma per una cattedra dantesca. Ma io non ci vado! Fossi pazzo! Me ne andrò piuttosto in Alemagna, dove conoscono tutte le mie celebri opere, e la scienza è rispettata!… Il prefetto mi ha detto che il Re mi vuole come professore di suo figlio. Io fare il maestro di scuola? Per chi m’hanno preso? Se lui si chiama Savoia, io mi chiamo Uzeda. Ehi, don Umberto, siete forse al buio?…» Poi, all’orecchio: «Potreste favorirmi cinque lire? Ho dimenticato il portafogli a casa…»

Gliene davano due, una o anche mezza; egli metteva in tasca ogni cosa. I parenti, avvertiti di quello scandalo, si stringevano nelle spalle, o dicevano: «Bisogna finirla», senza far poi nulla. Giulente e Teresa, di nascosto, lo soccorrevano come meglio potevano: ma egli aveva già preso l’abitudine di questuare, il mestiere era dolce e comodo, il passaggio del denaro dalla tasca altrui alla propria gli pareva naturalissimo; e poi un sordo istinto di rappresaglia contro i parenti lo spingeva a continuare per far loro onta.

E un giorno si diffuse per tutta la città una notizia:

«Non sapete nulla? il cavaliere don Eugenio chiede l’elemosina!»

Egli accattava, alla lettera. Anche se aveva in tasca qualche lira, s’avvicinava agli sconosciuti, tendeva la mano, diceva:

«Per gentilezza, mi favorite due soldi? Un soldo, per comprare un sigaro?»

Acchiappava la moneta come una preda, la cacciava in tasca; s’avvicinava a un altro:

«Un soldo, per favore?»

Teresa, accompagnata dal marito, andò a trovarlo nello stambugio dove s’era ridotto, gli si gettò ai piedi:

«Zio, noi le daremo tutto quel che vorrà, purché non faccia più questa cosa!… Una persona come lei, abbassarsi così?»

 

«Sì, sì…»

Egli prese i denari che gli porgevano; il domani ricominciò. Adesso era un’idea fissa; la malattia che tornava a tormentarlo finiva di scombuiare la sua debole testa d’Uzeda. Lacero come un vero accattone, con la barba bianco-sporca spelazzata sul viso smunto, i piedi in grosse scarpe di panno, andava attorno, appoggiandosi a un bastone, chiedendo:

«Un soldo, per favore!… per questa volta sola!…»

E per procacciarselo dava spettacolo della sua pazzia. Certuni gli domandavano chi era, se non era il cavaliere Uzeda? e allora lui:

«Eugenio Consalvo Filippo Blasco Ferrante Francesco Maria Uzeda di Francalanza, Mirabella, Oragua, Lumera, etc., etc., Gentiluomo di Camera (con esercizio) di Sua Maestà, quello era Re!» e si cavava il cappello, «Ferdinando ii; medagliato da Sua Altezza il Bey di Tunisi del Nisciam-Ifitkar, presidente dell’Accademia dei Quattro Poeti, membro corrispondente di più società scientifico-letterarie-vulcanologiche di Napoli, Londra, Parigi, Caropepe, Pietroburgo, Paoloburgo, Nuova York e Forlimpopoli, autore della celebre opera storico-araldico-blasonico-gentilesco-cronologica intitolata l’Araldo sicolo con supplimento… Un soldo, per comprarmi un sigaro…»

7

Il secondo figliuolo di Teresa, un altro maschio, nacque un anno dopo il primo, tanto che tutti dicevano agli sposi: «Si vede che non perdete tempo!» Se al primo parto la duchessa non aveva sofferto, di quest’altro quasi non s’accorse: degno premio della purezza dei suoi costumi. La cerimonia del battesimo, questa volta, fu modesta, un po’ perché era nato un cadetto, il baroncino, un po’ per un’altra ragione incresciosa. Grattandosi un giorno sotto la nuca, in mezzo alle spalle, per un forte prurito, il principe aveva calcato le unghie sino a farsi un po’ di sangue. Lì per lì non ci aveva badato, ma dopo qualche tempo gli si formò, nel punto maltrattato, una specie di bottone che crebbe fino a impacciarlo nei movimenti e ad impedirgli di star supino nel letto. Tutti attribuirono il fatto all’eccessivo grattamento; nondimeno, siccome l’incomodo non andava via, fu necessità chiamare un chirurgo. Il dottore confermò che era una cosa da nulla, ma disse che senza una piccola incisione non sarebbe guarita. Il principe all’annunzio dell’operazione impallidì, rifiutando di sottoporvisi; ma giusto, dopo il parto di Teresa, quel tumoretto era cresciuto ancora, dandogli tanto fastidio che egli aveva consentito a lasciarselo tagliare. L’operazioncella durò più che non si credesse e il principe dové restare molti giorni in casa; pertanto il battesimo del baroncino di Filici fu celebrato senza pompa. Il sindaco Consalvo fece da compare; da Augusta venne per assistere alla cerimonia Giovannino. Durante l’anno, egli aveva fatto, secondo la promessa, due o tre visite al figlioccio: visite brevi d’uno o due giorni. Dicevano che egli avesse ad Augusta, e propriamente nelle terre di Costantina, la figliuola d’un fattore, una bella contadina bianca, rossa e prosperosa, per via della quale rifiutava di stare a lungo a Catania. La duchessa madre ne era contentissima, come della più sicura garanzia contro il matrimonio. Il duca godeva nel sentire che suo fratello si divertiva; e quanto a Teresa, nonostante che l’onestà le impedisse d’approvar quel legame, pure dimostrava al cognato un affetto fraterno, e gli faceva molta festa; se da Augusta egli mandava qualche commissione alla madre, spesso l’eseguiva ella stessa. Chiedeva ordinariamente biancheria, oggetti d’uso domestico, ma di tanto in tanto anche tagli d’abiti da donna, busti, fazzoletti di seta… Servivano per la figlia del fattore?

Tutte le volte che veniva alla casa materna, egli aveva il viso più cotto, con la barba più ispida, la pelle delle mani più dura. Su quella faccia da arabo del deserto il bianco degli occhi era però dolcissimo. Teresa ringraziava il Signore della saggezza che gli aveva ispirata, della salute che gli accordava; però, in cuor suo, ella domandava come mai quel giovane tanto elegante, così avido di piaceri, delle cose belle e ricche, aveva potuto rassegnarsi a far la dura vita di campagna, a vivere con una contadina, in mezzo a contadini… Non era però lei stessa la causa di quella trasformazione? E subito, quasi a scagionarsi ai propri occhi, ella pensava: «Sono trasformata anch’io!…» Dov’erano più, infatti, le sue ispirazioni poetiche, le sue alate fantasie? Aveva preso marito da due anni, e già cominciava la terza gravidanza. Quand’ella sognava di Giuliano Biancavilla, di Giovannino, pensava forse di divenire una macchina da far figliuoli?… Ora dava guerra a quei pensieri che lo spirito della tentazione doveva certo suggerirle… Biancavilla, tornato dal suo viaggio, dimenticava anche lui, prendeva moglie: un giorno ella lo incontrò a faccia a faccia; trasalì un momento, ma un’ora dopo l’incontro se ne dimenticò. Giovannino era suo cognato; più nulla restava così dei sogni antichi. Se ne doleva forse? No! Pensava: «Che cosa mi manca per esser felice? Sono giovane, bella e ricca, tutti mi vogliono bene, tutti mi lodano, ho due angioletti di figli: di che mi lagno?» E nella misura delle proprie forze aveva fatto il bene: la sua mamma di lassù non doveva benedirla? La Beata non poteva esser contenta di quella lontana discendente?

Lo spirito della tentazione si serviva di arti molto sottili per turbarla in quella serenità. Forse erano i libri, le poesie, i romanzi, quelli che, certe volte, quando si sentiva più tranquilla e sicura e sorrideva di maggior beatitudine, facevano sorgere a un tratto una specie di nebbia che offuscava il suo bel cielo, e le davano un senso di oscuro sgomento, e il rancore d’un bene perduto prima ancora che ella avesse potuto raggiungerlo. Era peccato leggere quei libri, seguire quelle visioni? Il confessore, i preti che la circondavano dicevano sì, che erano pericolosi; ma non riconoscevano forse nello stesso tempo che il pericolo, per lei, era molto più lontano, giacché ella aveva un’anima retta e una mente sana e una coscienza purissima?… E poi, e poi, e poi, ella aveva rinunziato a tante cose; se avesse rinunziato anche a vivere con la fantasia, che le sarebbe rimasto?

Anche Giovannino leggeva molto: tutte le volte che veniva da Augusta le domandava: «Cognata, avete libri da prestarmi?» e ne portava via a casse, in mezzo alla roba di cui veniva a rifornirsi. In qual modo ammazzare il tempo quando non c’era da vegliare ai lavori della terra: la vendemmia, le seminagioni, i raccolti?… Un’altra cosa di cui si provvedeva, venendo in città, era il solfato di chinino. A Costantina, nei poderi della Balata e della Favarotta regnava la malaria; egli, veramente, nella stagione del pericolo se ne andava a Melilli, sui colli Iblei, dove l’aria era balsamica; ma, ad ogni buon fine, per sé come pei lavoratori, era bene che il sovrano rimedio non mancasse mai.

Una bella sera d’estate, Teresa e la duchessa madre, lasciato a casa, in custodia della cameriera, il duchino, e presa in carrozza la balia col figliuolo più piccolo, facevano la consueta passeggiata. Il baroncino lattante, cullato dal moto dolce del legno, dormiva in mezzo a una nube di garza sulle ginocchia della nutrice. Teresa portava per la prima volta un abito molto ricco arrivatole da qualche giorno da Torino; ella vedeva che tutte le signore le cui carrozze incrociavansi con la sua si voltavano, esaminandola, ammirandola. La carrozza salì fino alla Madonna delle Grazie; le padrone e la balia scesero, entrarono nell’angusta cappella e s’inginocchiarono dinanzi all’altare. Teresa aveva chinato gli sguardi per evitare la vista del muro pieno di ex voto orribili, del carnaio che la disgustava ora come l’inorridiva bambina; ma, fissando l’immagine della Vergine, le diceva tutta la sua gratitudine per le grazie di cui la colmava. Sentivasi tanto calma, da un certo tempo; quasi felice! Da un pezzo nulla più la turbava; nessun soccorso aveva da chiedere alla Madonna. Sì, la salute sempre malferma di suo padre, l’umor tetro che lo rodeva dopo l’operazione chirurgica. Chiuso, cupo, cruccioso, con più bisogno di prima di prendersela con qualcuno, egli era tornato a rimuginar l’idea di dar moglie a Consalvo. Quantunque non parlasse e paresse non occuparsi di quel iettatore, rodevasi al pensiero della fine della propria razza, se quel iettatore non prendeva moglie. E gli aveva cercato un nuovo partito, a Palermo, un partito che tutti assicuravano straordinario; ma Consalvo aveva detto ancora di no, e il principe aveva rotto un’altra volta più violentemente con lui…

Teresa pregò più a lungo, pertanto; poi si segnò e sorse in piedi. La suocera era già alzata; la balia, l’umile contadina che reggeva in braccio il frutto delle sue viscere, finiva di pregare; il bambino, destato dallo scalpiccio dei passi, dal borbottare dei ciechi questuanti, guardava la fiamma dell’altare tra ridente ed attonito. Ella distribuì tutto quel che aveva in tasca ai poveri e risalì in carrozza. La duchessa madre ordinò al cocchiere di andare a fermarsi al Caffè di Sicilia.

Lì, il cameriere non aveva ancora portato i gelati, che una voce alterata esclamò dietro la carrozza:

«Teresa… Mamma…»

Era il duca, irriconoscibile, con la camicia disfatta dal sudore, pallido come un morto. Rivolto al cocchiere, mentre esse domandavano sgomente:

«Che c’è?… Michele!… Che hai?…»

«Torna a casa!» ordinava egli. «Torna subito…»

E aprì lo sportello, salì, si gettò a sedere accanto alla balia.

«Mio padre?… Il bambino?» esclamava già Teresa, afferrandogli una mano; ma egli:

«No, no…»

E mentre i cavalli, sferzati, partivano traendo scintille dal lastricato, spiegò finalmente:

«Giovannino… Un telegramma del fattore… La perniciosa!… Sono corso dal dottore, poi alla stazione… Vi ho cercato da per tutto… Partirò stanotte, con un treno straordinario…»

Nel primo momento, Teresa provò quasi un senso di sollievo. Smarrita alla vista del marito, atterrita dalle sue oscure parole, aveva creduto alle più terribili catastrofi: la morte del padre, un’improvvisa minaccia per l’altro suo figlio. Assicurata che nessuno dei suoi era in pericolo, ella non attribuì molta gravità alla malattia del cognato. Poiché Michele perdeva la testa, e la suocera, improvvisamente intenerita per quel figliuolo che aveva tanto trascurato, smaniava adesso e parlava di partire, di correre a chiamare altri dottori, ella sentiva che toccava a lei ragionare. Letto il telegramma del fattore, la sua fiducia s’affermò. Il telegramma diceva: «Fratello Vostra Eccellenza trovasi a letto con febbre alta, somministrato subito chinino temendo trattisi perniciosa; venga qualcuno famiglia insieme dottore.» Il duca non aveva posto attenzione alla forma dubitativa dell’annunzio; ella diede coraggio a tutti, s’offerse di accompagnarli; ma la duchessa che esclamava ogni due minuti: «Figlio mio!… Figlio mio!…» volle che restasse. Allora ella preparò le valige pel marito e per la suocera, non dimenticando nulla, raccomandando loro di non lasciarla senza notizie, assicurandoli che anche della perniciosa il chinino già somministrato e le cure del dottore di Catania avrebbero sicuramente trionfato.

All’una della notte Michele e la duchessa partirono. Restata sola in casa, la sua fiducia cominciò a mancare. Se non si fosse trattato d’una cosa grave, il dispaccio, la richiesta d’un altro dottore, la chiamata dei parenti non sarebbero stati necessari. E perché non aveva firmato egli stesso il telegramma?… Stringendosi al petto i bambini ella pregava in cuor suo: «Signore, Madonna delle Grazie, fate che non succeda una disgrazia!…»

E perché col giorno, quando Michele e la duchessa dovevano esser giunti al capezzale di lui, non veniva nessuna notizia?… Ella diceva tra sé, per darsi coraggio: «Nessuna nuova, buona nuova!…» e tentava raffigurarsi i volti ilari del marito e della suocera nel vedere il fratello e il figlio sorrider loro, rassicurarli… Perché dunque non rassicuravano lei stessa? Non sapevano che anche lei era inquieta?… Come si rimproverava, adesso, il crudele egoismo che l’aveva quasi fatta gioire udendo che in pericolo versava il cognato! Non le era quasi fratello? Non l’amava ella di fraterno amore?… Come si perdeva adesso, come si cancellava la memoria di quell’altro amore che aveva nutrito per lui! Adesso restava solo l’amico, il parente, colui che aveva tenuto al fonte della redenzione la creaturina sua!…

E le notizie mancavano ancora. Veniva gente a chiederne, parenti, amici: ed ella non poteva darne. Il marchese Federico, scotendo il capo, riferì d’aver sentito dire che l’imprudente giovanotto era stato a dormire parecchie notti nelle terre della Balata, nel fitto della malaria: «Ho paura che sia di quella buona: sarebbe peggio d’una schioppettata.» La principessa Graziella protestava: «Ma che! Le male nuove le porta il vento!… Se gli hanno dato il chinino a tempo, non c’è pericolo!»

 

Fino a mezzogiorno non venne nulla. Ella stessa voleva fare un dispaccio per sollecitar la risposta; ma, comunicata l’idea alla madrigna, costei rispose che non le pareva il caso, che era meglio aspettare.

Nel pomeriggio restò di nuovo sola. I tristi pensieri tornarono ad assalirla. Per combatterli, per discacciarli, si mise in orazione. Pregando, pensò alla Beata, alle lampade votive ardenti nella sua cappella. Con la veste che indossava, buttatosi soltanto uno scialle sulle spalle, accompagnata dalla cameriera, si fece portare in carrozza chiusa ai Cappuccini. Sotto l’altare stava sempre la secolare cassa mortuaria, l’oggetto dei suoi terrori. Ella ne sostenne la vista, giunse le mani, invocò dalla santa parente la salute del poveretto, e ordinò al sagrestano d’accendere una lampada perpetua. Tornata a casa, non trovò nulla, ma uno squillo di campanello la fece trasalire: forse era il dispaccio. Era invece un usciere municipale mandato da Consalvo, il quale voleva sapere le novità… Ella schiuse una finestra, avendo bisogno d’aria. Tornando in camera sua, cadde sopra una seggiola, col viso nascosto tra le mani. Lo vide morto. Michele non le dava la notizia funesta per riguardo del suo stato. E a un tratto, il passato le tornò tutto alla memoria: ella lo rivide come lo aveva conosciuto, come lo aveva amato: udì la sua voce dolce quando le aveva domandato: «Teresa, Teresa, mi vuoi bene?…» e con gli occhi aridi, con voce strozzata, ella riconobbe: «Sì, l’ho ucciso io!… Per me ha mutato vita… è andato a seppellirsi laggiù… ha trovato la morte!…»

Sorse in piedi. Se qualcuno l’avesse udita?… Le creature dormivano; ella era sola. E i dolorosi, i malvagi pensieri tornarono ad assalirla. Non era stata soltanto lei, erano stati anche, e più, tutti quegli altri! La sua madrigna, suo padre, la madre di lui, tutta quella gente dura, spietata, inesorabile, tutti quelli che avevano impedito d’esser felice a lui ed a lei stessa. Perché ella non era stata felice, no, mai! E le davan lode per l’amore che portava al marito! Se non l’aveva amato neppure un momento! Se le ispirava quasi disgusto! Se disprezzava la sua ignoranza, la sua volgarità! E l’avevano sacrificata pei loro puntigli, pei loro capricci, per la superstizione dei titoli, per l’idolatria delle vane parole! Pazzi e maligni: aveva ragione Consalvo. Egli aveva ben fatto, che s’era ribellato. La sciocchezza era stata tutta sua, nell’obbedir ciecamente. Colpa sua! Anche sua! Per obbedire, per rispettare, per contentare: chi? «Gli assassini di nostra madre!…»

Con gli occhi spalancati, ella trattenne il respiro. Il bambino l’aveva udita?… La guardava, coi chiari occhi sereni, lucenti come celesti spiracoli nella penombra della sera… Non corse a lui. Nella penombra, anche l’argento del Crocifisso, il vetro del quadro della Madonna lucevano. Perché dunque Essi permettevano queste cose? Non le sapevano? Non le vedevano? Non potevano impedirle?

La porta si schiuse: la cameriera entrò esclamando:

«Eccellenza, il telegramma!»

Ella lesse: «Dottori assicurano superato ultimo accesso. Riprende conoscenza. Siamo più tranquilli.»

Allora ruppe in pianto.

Il duca tornò dopo una settimana. Suo fratello era entrato in convalescenza, ma quel giorno dell’arrivo lo avevano trovato boccheggiante: in un accesso di delirio aveva tentato di buttarsi giù dal balcone; quattro uomini a stento erano riusciti a trattenerlo. Un vero miracolo l’aveva salvato. Appena in grado di viaggiare, lo avrebbero riportato a casa per assicurare la guarigione col cambiamento d’aria.

Infatti, pochi giorni dopo, la duchessa madre, restata al suo capezzale, scrisse chiamando il duca per aiutarla a trasportare il sofferente. Quando Teresa lo vide arrivare, curvo, dimagrito, con la barba ispida sul viso giallo, quasi non lo riconobbe. La pace era tornata adesso nell’anima di lei. Aveva un istante disperato del soccorso divino, e giusto mentr’ella dubitava, mentre quasi accusava il Signore d’averla dimenticata, un miracolo aveva salvato il poveretto. Ella vi riconosceva l’intercessione della Beata: innalzava quindi al cielo le più fervide azioni di grazie. La lampada ardeva ora notte e giorno nella cappella, la voce del prodigioso soccorso accresceva la fama della Santa.

Nessuna traccia della tempesta restò più in lei. Dinanzi al cognato, debole, scarno e tremante, ella non provava null’altro che una grande pietà, non faceva altri voti che per la sua guarigione. Mentre gli prodigava tutte le sue cure, come una suora, pensava: «Com’è imbruttito! Non si riconosce più!…» Egli lasciavasi curare come un bambino, senza forza, senza volontà, senza memoria. Il terribile colpo l’aveva stordito, la fibra si rinsanguava a poco a poco, ma le facoltà della mente erano più tarde a ripristinarsi. Le fortissime dosi di chinino gli avevano quasi tolto l’udito; spesso, egli credeva d’essere ancora ad Augusta, chiamava la gente che aveva intorno laggiù. La parola era rara sulle sue labbra; lo sguardo stanco, fisso, a momenti pareva cieco.

Dopo un mese, i dottori consigliarono di portarlo in montagna. Sua madre lo accompagnò alla Tardarìa. Durante la loro assenza, che durò tre mesi, Teresa partorì un altro maschietto. In novembre, il freddo non permettendo più di stare in mezzo ai boschi, la duchessa e il convalescente tornarono: Giovannino era adesso guarito del tutto, i colori della salute gli fiorivano in viso; la mente però era debole ancora. La sua lieve sordità lo rendeva inquieto, irritabile, nervoso. Ora smaniava per andar fuori, per veder gente; ora si chiudeva in camera, evitando tutti. Spesso, ad una lieve contraddizione, a un’osservazione senza importanza della madre o del fratello, si spazientiva, rispondeva sgarbatamente; alle volte gridava con le mani in testa: «Volete dunque farmi impazzire?…» Solo Teresa pareva esercitare un’influenza pacificatrice sul suo spirito ammalato. Come per virtù d’un senso più fine, perfetto, egli intendeva sempre tutto ciò che diceva Teresa, quasi leggesse le sue parole negli sguardi, nello stesso movimento delle labbra. Ed a poco a poco, per quel benefico influsso, egli migliorò, guarì, riprese le abitudini d’un tempo, ricominciò a vestirsi con cura, a prendere interesse alle cose che vedeva e udiva. Un giorno si fece radere la barba: fu una specie di trasformazione come quelle che si vedono al teatro: ringiovanì in un momento, il bel ragazzo di un tempo riapparve.

«Così va bene!» gli disse Consalvo, che veniva spesso a trovarlo, quando le sue occupazioni sindacali lo lasciavano libero

Egli era adesso all’apogeo della popolarità: non si sentiva parlare d’altro che della sua intelligenza, della sua accortezza, del gran bene che faceva al paese: il governo l’aveva nominato commendatore della Corona d’Italia. Spesso, tuttavia, s’impegnavano discussioni tra lui e Giovannino, poiché quest’ultimo osservava che col sistema di buttar via allegramente i quattrini in opere più o meno utili le finanze del comune, già floridissime, correvano rischio di dare un crollo.

«Chi ne ha ne spende!» rispondeva Consalvo. «Après moi le déluge…»

«Dovranno far debiti, se continuerai di questo passo…»

«Qualcuno li pagherà. Mio caro, ho da farmi popolare; mi servo dei mezzi che trovo. Credi tu che questo gregge m’apprezzi per quel che valgo? S’ha da buttargli la polvere agli occhi!»

Teresa e Giovannino, nei loro discorsi, parlavano sempre di lui, s’accordavano interamente nel giudicarlo. Quel suo disprezzo di tutto e di tutti li addolorava: certo, era un segno di forza; ma alla lunga non avrebbe potuto nuocergli? Teresa, specialmente, credeva che la forza vera fosse più modesta, più riguardosa, più timida; il cognato consentiva nei suoi giudizi; però scagionava Consalvo, attribuiva quel che c’era di men bello in lui al sistema politico. Doleva sopra ogni cosa a lei che il fratello non avesse una fede salda e desse ragione a tutti e si ridesse di tutto. Egli non praticava più, e ciò la crucciava infinitamente; ma avrebbe piuttosto preferito una franca negazione ai sotterfugi ch’egli poneva in opera. Per Sant’Agata, alla testa della Giunta, con l’abito nero e le decorazioni, egli assisteva alla messa pontificale dinanzi a migliaia di persone stipate nella cattedrale; poi dichiarava: «La mascherata è finita!»