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I Vicere

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Allora avvenne più grande prodigio. Gli occhi del cieco si schiusero: egli riconobbe sua moglie, la donna che aveva maltrattata ed offesa, e che sola lo proteggeva nella miseria e nell’infermità; e nel punto che l’anima sua, perdonata e redenta, saliva al cielo, dalle sue labbra uscirono queste parole: “Santa, Signore! Santa!”»

Teresa aveva gli occhi bagnati di pianto, dalla commozione; ma il libretto non era finito. L’ultimo capitolo narrava i nuovi e più grandi e più chiari esempi di carità e santità che la Beata aveva dati dopo la morte del marito; da ultimo narrava la morte di lei e i suoi miracoli. «Non era per anco spirata, che stormi d’augelletti scesero sul tetto della sua casa, posaronsi sul davanzale del suo verone, entrarono nella sua cameretta, quasi messaggeri celesti venuti ad incontrarne l’Anima bella. Soave profumo di rose e gelsomini e giacinti sprigionossi, come incenso, dal suo corpo; e un gran numero d’infermi che trassero a contemplarla l’ultima volta sul letto ferale guarirono miracolosamente soltanto per aver baciato il lembo della sua veste. Per prodigio divino, la spoglia terrena di questa Eletta salvossi dalla corruzione: dopo tanti secoli, il frale della Beata conserva ancora la freschezza ed il colore che aveva in vita, sì che pare che Essa sia assopita in un sogno divino. In occasione di pestilenze e d’altre pubbliche e private calamità, la Beata Uzeda ha operato innumerevoli miracoli, come fu provato dinanzi ai Sacri Tribunali di Roma. A tal uopo pubblichiamo qui per la prima volta il processo della Sua canonizzazione, che abbiamo potuto procurarci grazie all’alta intercessione dell’Eminentissimo Cardinale Lodovico Uzeda, preclaro discendente della Beata.»

E quella lettura, la solennità del centenario, i discorsi del confessore e della madrigna e della zia monaca, la malattia del padre, la stessa esaltazione dello zio Lodovico alla suprema dignità ecclesiastica avvenuta in quei giorni, tutto concorse a piegare, come cera, il cuore di Teresa… La costringevano forse a sposare un mostro, come avevano costretto, nei tempi, la Santa? Michele non era un mostro, era un buon giovane; e i parenti non la costringevano, le tenevano il linguaggio della persuasione, le consigliavano la virtù dell’obbedienza, parlavano pel suo bene, per la pace delle due famiglie, per la salute di suo padre, ammalato – dicevano – dai tanti dispiaceri. La incitavano a non seguire il tristo esempio di Consalvo; le promettevano ogni ricompensa terrena e celeste… E poi, quella solennità del centenario, la cerimonia del terzo giorno, l’adorazione della salma! Ella s’era accostata all’altare per la comunione, aveva ricevuto l’Ostia, mentre le spire dell’incenso e il profumo dei grandi mazzi di fiori imbalsamavano l’aria, e le campane squillavano a festa, e l’organo cantava, grave e potente. Quante fronti umiliate, quante preghiere mormorate dinanzi alla Santa, a cui ella era stata paragonata! Ma un infinito terrore la stringeva, da lungo tempo, da tanti anni, all’idea di dover vedere la morta, il secolare cadavere, quasi che per un nuovo mostruoso prodigio il corpo esanime potesse sollevarsi dalla bara, infrangere i vetri, afferrarsi ai viventi spandendo attorno l’odore nauseabondo dei balsami corrotti… E in mezzo alla folla che aprivasi rispettosamente sul loro passaggio, mentr’ella avanzavasi verso la cappella tutta lucente, il suo terrore cresceva, l’agghiacciava, le sue gambe piegavansi, brividi di freddo le scendevano dalla nuca giù per la schiena… Ah, quella cassa!

Con gli occhi serrati, ella cadde in ginocchio, smarrita, tremante, folle dalla paura. Una voce al suo fianco mormorò:

«Pregala per tuo padre… promettile che sarai buona come lei…»

Dalla paura, per andar subito via, per non veder quell’orrore, ella rispose con gli occhi serrati:

«Sì…»

E passò dell’altro tempo. Il principe migliorò e ricadde, la duchessa venne al palazzo col solo primogenito; la trama dei consigli, delle persuasioni, degli incitamenti si strinse intorno a Teresa. La madrigna le disse che Giovannino, per non esser d’ostacolo alla felicità del fratello, aveva dato l’esempio dell’obbedienza, se n’era andato ad Augusta, dove domiciliavasi per badare alle proprietà. Teresa consideravasi impegnata dinanzi alla Beata: acconsentì. Mise un patto solo: disse alla madrigna:

«Farò quel che vorrete, purché il babbo mi prometta una cosa. Che faccia pace con mio fratello e consenta almeno a rivederlo, se non vuole che torni a vivere qui. Che finisca la lite con le zie e venga a un accordo. Non sarà difficile concluderlo, purché ciascuno ceda in qualche cosa. Se volete, parlerò io stessa con le zie.» La sua voce era grave, il suo sguardo velato.

«Sei una santa!» esclamò donna Graziella. «Tua madre certo t’ispira! Vedremo così la pace tornare fra tutti!… Parlerò subito a tuo padre, ed otterremo ciò che tu vuoi.»

Il domani, infatti, le annunziò:

«Tuo padre acconsente. Consalvo verrà qui il giorno in cui ci verrà il tuo promesso. Andremo ad invitare noi stessi le zie; e per la lite speriamo che si venga all’accordo.»

Tre mesi dopo, la duchessa venne a presentare il duca in casa della fidanzata. Già Consalvo era arrivato al palazzo, e Teresa, presolo per mano, lo aveva guidato nella camera del padre.

«Babbo,» gli aveva detto, «c’è qui suo figlio che viene a baciarle la mano.»

Il principe, tenendo la sinistra in tasca, gli porse la destra a baciare, e alla domanda del figliuolo: «Come sta Vostra Eccellenza?» «Benissimo,» rispose, calcando un poco la voce, e senza domandargli: «E tu?» Non avevano ancora barattato quattro parole, che la carrozza di donna Ferdinanda entrò con gran fracasso nel cortile. La principessa baciò la mano alla vecchia, e abbracciò la cognata Lucrezia, la quale portava un abito elegantissimo: seta color d’albicocca con guarnizioni pistacchio… Ella avea fatto sapere a tutti che la lite col fratello s’avviava ad un amichevole compimento e che le bisognava adesso dare molte commissioni alla sarta per lo sposalizio di «mia nipote la principessina con mio nipote il duca». Era piena di debiti, con la sarta, con la modista, il gioielliere: imbrogliava sempre più l’amministrazione del marito, ma la sua parte nell’eredità di don Blasco avrebbe appianato ogni cosa.

Tutti gli altri parenti sopraggiunsero: il duca d’Oragua, Giulente, il marchese senza la moglie, la quale non voleva più venire dal Belvedere, dove il bastardello, cresciuto negli anni e rovinato dall’educazione di lei, la picchiava di santa ragione. Il principe, salutando i parenti, guardava con la coda dell’occhio Consalvo e non cavava di tasca la mano sinistra. Arrivò finalmente il promesso con la madre. Il duca, vestito quasi elegantemente, non faceva poi un troppo brutto vedere, e pareva veramente felice. Sua madre gli aveva spiegato che Teresa era innamorata di lui, e che i bronci di Giovannino derivavano dall’idea che questi s’era fitto in capo di sposar la cugina, senza che né la ragazza, né la famiglia, né lei stessa che era sua madre e doveva contare bene per qualche cosa, acconsentissero. Quindi se n’era andato ad Augusta; lì si sarebbe persuaso del proprio torto. Pertanto la duchessa era trionfante: l’opera a cui aveva atteso durante tutta la vita si compiva lietamente: il primogenito accasavasi, continuava la razza; il cadetto, dopo ed a causa di quell’amore contrastato, non le avrebbe dato certamente altre inquietudini. Quanto alla principessa, sfolgorava dalla soddisfazione: il matrimonio di Teresina era tutta fatica sua particolare. È vero che la ragazza aveva dato prova di grande arrendevolezza, e perciò ella la baciucchiava ogni quarto d’ora, in presenza della gente; ma i buoni consigli, le ragioni persuasive chi li aveva dati? Lei, per la felicità della sua cara figliuola, per la soddisfazione del marito, per la pace della famiglia!… Anche il principe mostrava una bella ciera, nonostante l’inquietudine ispiratagli dal figliuolo e le tracce della recente malattia. La transazione per l’eredità di don Blasco era stata discreta: la casa a donna Ferdinanda, la rendita al duca, il quale aveva fatto due grossi regali a Lucrezia ed a Chiara; centovent’onze l’anno a Garino; il Cavaliere col nuovo podere – il più grosso e bel boccone – a lui.

Così la pace era generale, e solamente donna Ferdinanda guardava in cagnesco Consalvo per l’apostasia della quale s’era macchiato. Ma Teresa, dopo aver rappattumato il fratello col padre, riprese Consalvo per mano e lo condusse dinanzi alla zia.

«Zia,» disse, «Consalvo le vuol baciare la mano.»

Egli si chinò subito a prender la zampa rugosa per nascondere il riso che gli solleticava la gola. Quella vecchia che aveva acchiappato senza tanti scrupoli un pezzetto della roba della Chiesa dopo avere sbraitato contro i fedifraghi l’aveva con lui perché egli, a parole soltanto, aveva mutato politica!… E mentre faceva uno sforzo straordinario sopra se stesso per avvicinarsi alle labbra la mano di lei, ella la ritraeva, credendo di fargli cosa sgradita, borbottando un freddo: «Va bene, va bene!…» Egli volse le spalle alla vecchia matta. Ma come chiamar Teresa? Consalvo rideva tra sé, vedendo lo zelo col quale costei andava accoppiando i parenti recalcitranti. Per metter pace tra gente che il domani avrebbe ricominciato ad azzuffarsi, per dar prova d’obbedienza a quei birbanti del padre e della matrigna, perché si dicesse che era una figliuola modello, aveva rinunziato all’amore di Giovannino, sposava quel citrullo del duca!

«Sei contenta?» non poté fare a meno di domandarle, a quattr’occhi.

«Sì,» ella rispose; e la tristezza del sacrifizio che le velava la fronte si diradò per dar luogo alla serenità del dovere compìto…

Ora, mentre questo avveniva nella Sala Gialla, Baldassarre, nell’anticamera, parlava solo, fuori di sé:

«Guardate un po’… E io che non credevo!… Adesso anche lei!… Ma allora come sono, tutti pazzi?… Questa no! Non dovevano farmela!…»

 

No, fino all’ultimo momento egli non aveva creduto a quel che gli diceva tutta la città: «Il duca! Sposa il duca!» No, rispondeva egli a tutti con un sorriso di compassione, come uno che la sa più lunga degli altri… Adesso, vedendo tutta quella gente riunita, il duca seduto accanto alla padroncina, la padroncina che riceveva i complimenti di tutti, la testa cominciava a girargli. Il sangue degli Uzeda si risvegliava in lui. Dopo cinquant’anni di devozione sconfinata, di obbedienza cieca, di volontà annichilita, egli aveva espresso un’opinione, annunziato un avvenimento. Tutto lo aveva persuaso a crederlo immancabile; e quando il principe si era opposto, egli aveva fatto assegnamento sulla volontà dei giovani. Invece, il barone se n’era andato ad Augusta, la principessina sorrideva al duca. Allora voleva dire che per il capriccio di coloro, per la loro stramberia, la parola di lui, Baldassarre, non valeva niente? Egli valeva meno, in quella casa, del manico della granata?… E parlava solo, non udiva gli squilli del campanello, dimenticava gli ordini, sbagliava il servizio; ma quando la gente cominciò ad andarsene, un’impazienza febbrile l’animò ad un tratto. Spingeva via le persone con gli occhi, non stava fermo un minuto, e finalmente, quando credette che non ci fosse più nessuno, entrò nella Sala Rossa.

«Eccellenza…»

C’era ancora il principino. Vedendo entrare il maestro di casa, Consalvo s’alzò e baciò la mano al padre. Ebbe appena voltato le spalle, accompagnato da Teresa e dalla principessa, che il principe, cavata finalmente la sinistra dalla tasca dove l’aveva sempre tenuta, squadrò le corna contro il iettatore. Ma la voce di Baldassarre lo richiamò:

«Eccellenza…»

«E tu, che vuoi?»

«Eccellenza,» disse il maestro di casa, «io me ne vado.»

«Dove?» domandò il principe, credendo d’avergli dato qualche commissione della quale s’era dimenticato.

«Me ne vado via. Chiedo licenza a Vostra Eccellenza.»

Il padrone lo guardò un poco, credendo d’aver frainteso.

«Licenza? Perché?»

«Per niente, Eccellenza. Sono stato quarant’anni in casa di Vostra Eccellenza, ora me ne voglio andare. Vostra Eccellenza può tenermi per forza? In casa sua, Vostra Eccellenza comanda come le pare e piace; chi le può dir nulla?… Anch’io in casa mia sono padrone. Vostra Eccellenza può procurarsi un altro maestro di casa migliore di me; non ne mancano: il primo del mese io me ne vado.»

«Sei impazzito?»

«Non ne mancano… In casa sua Vostra Eccellenza è padrone… fa come crede… Io me ne vado… Il primo del mese…»

6

Uno dei primissimi provvedimenti del giovane sindaco, appena insediato al Municipio, era stato quello relativo alla costruzione di un’«aula» per le riunioni consiliari. All’antica saletta fu sostituito un gran salone provvisto di due file di banchi che, per gradi, si elevavano dal suolo ad anfiteatro, con tre ordini di posti per ciascuna fila. In fondo al salone una specie di alto e vasto pulpito comprendeva: a destra, in basso, i posti della Giunta, in alto quello degli scrutinatori e la poltrona destinata al prefetto; a sinistra, l’ufficio di segreteria; nel mezzo di tutta la baracca, sopra un’alta predella, il seggiolone sindacale dorato e scolpito, con un cuscino che l’usciere toglieva e chiudeva a chiave quando il principino scioglieva l’adunanza e se ne andava. Nel centro del salone, un gran banco per le commissioni; più oltre, tavole per «la stampa»; dirimpetto al pulpito sindacale la tribuna pubblica. «Un Parlamento in miniatura!» dicevano quelli che erano stati a Roma; e le adunanze del Consiglio, sotto la presidenza di Consalvo, prendevano ora un vero carattere parlamentare. L’ordine del giorno, che prima attaccavano manoscritto dietro un uscio, si distribuiva, stampato, a tutti i consiglieri; un apposito regolamento, elaborato dal sindaco, prescriveva le norme da seguire nelle discussioni pubbliche. Gli oratori non potevano parlare più di tre volte sopra uno stesso soggetto; al segretario era rigorosamente vietato d’interloquire, neppure per rispondere alle domande dei consiglieri, e se qualcuno di costoro aveva da lagnarsi della sporcizia stradale o dei cani senza guinzaglio, il principino gli gridava dal suo seggiolone: «Presenti domanda d’analoga interpellanza.»

Prima cura della nuova amministrazione furono i lavori pubblici. Il sindaco, in un discorso dove rammentò la via Appia, «che da Roma conduceva all’Adriatico», dimostrò la necessità di sistemare le strade; e la città fu messa sottosopra, somme considerevoli furono spese per indennizzare i proprietari danneggiati; ma la vistosità dei risultati fruttò considerevoli elogi al giovane amministratore.

Con le strade, l’amministrazione di Mirabella, come tutti la chiamavano, provvide alla costruzione d’un grande mercato, d’un grande teatro, d’un grande macello, d’una grande caserma, d’un gran cimitero.

Nuovi edifizi sorgevano da per tutto, il lavoro non cessava, la città trasformavasi, le lodi del principino salivano al cielo. Qualcuno, timidamente, faceva osservare che tutte quelle cose stavano benissimo; ma, e i quattrini? Ce n’erano abbastanza?… Consalvo rispondeva che il bilancio d’una città in via di continuo progresso «presentava tale elasticità» da permettere non che quelle, ma spese anche maggiori. La popolarità essendo tutta sua, egli faceva degli assessori ciò che voleva; se manifestavasi qualche velleità di contraddizione, la sedava suscitando gli uni contro gli altri coloro che s’accordavano nell’opposizione; oppure, quando la faccenda era più seria, minacciando di andarsene. Allora tutti si chetavano. E di quel che riusciva bene egli aveva tutto il merito; di quel che non otteneva l’approvazione del popolo rigettava la colpa sulle spalle della Giunta. Le tornate consiliari erano diventate uno spettacolo a cui, grazie alla «tribuna» pubblica, la gente accorreva come alla commedia o al giuoco dei bussolotti; i soci del club, gli ex compagni di bagordi del principino salivano di tanto in tanto lassù, con l’intenzione di canzonarlo; ma la serietà, il sussiego, l’autorità di Consalvo s’imponevano talmente, che essi arrischiavano appena tra loro qualche epigramma… Chi rammentava più la prima fase della sua vita? La sua riuscita lo insuperbiva, la sua forza quasi lo stupiva; ma oramai non era sicuro di poter arrivare dove avrebbe voluto? «Sarà deputato, lo manderemo a Roma quando avrà gli anni; in lui c’è la stoffa d’un ministro!» cominciavano a dire in città; ma se udiva queste cose, egli scrollava le spalle, con un sorriso mezzo di compiacimento, mezzo di modestia, quasi a significare: «Grazie della buona opinione che avete di me; ma ci vuol altro!»

Così egli si teneva bene con tutti, raccoglieva lodi da ogni parte. Quelli che s’accorgevano del suo giuoco e lo denunziavano, o non erano creduti, o erano sospettati d’invidia o di malignità, o finalmente, se trovavano credito, sentivano rispondersi: «Fanno tutti così, in questi tempi d’armeggio! Il principino ha questo di vantaggio, che è ricco e non ha da ingrassarsi alle spalle nostre!» Ma gli oppositori più vivaci non mancavano. Come trasformavasi materialmente, la città prendeva anche moralmente un nuovo indirizzo. La popolarità del vecchio duca andava scemando di giorno in giorno; il Circolo Nazionale, che aveva spadroneggiato, perdeva sempre più credito. Le nuove società popolari non ne avevano ancora, ma le riforme promesse dalla sinistra l’avrebbero loro conferito: frattanto, alla discussione dei negozi pubblici partecipavano classi e persone dapprima incapaci di comprenderne nulla. Anche la stampa era più ardita, se non più libera, e trattava con pochi riguardi, gli antichi spadroneggiatori. Il principino, fiutando il vento, sfoggiava coi democratici le sue linee di democrazia. A udirlo, la libertà, l’eguaglianza scritte nelle leggi erano ancora un mito: il popolo era stato cullato nell’opinione che le antiche barriere fossero state infrante; ma i privilegi esistevano sempre ed erano soltanto d’altra natura. Avevano largito il diritto del voto, e questo era parso una rivoluzione; ma quanti godevano di cotesto diritto? Bisognava dunque farne un’altra, «legale e morale», per estenderlo a tutti. La parola «rivoluzione» gli scottava le labbra e gli faceva tremare il cuore; e il desiderio intimo, sincero, ardente dell’animo suo era che vi fosse un numero di carabinieri doppio di quello dei cittadini; ma poiché il vento soffiava da un’altra parte, egli cercava la compagnia dei radicali più noti per dir loro: «La repubblica è il regime ideale, il sogno sublime che un giorno sarà realtà, poiché essa suppone uomini perfetti, virtù adamantine, e il costante progresso dell’umanità ci fa antivedere il giorno del suo compimento.» E dichiarava: «Io sono monarchico per la necessità di questo periodo transitorio. Milioni e milioni d’uomini liberi possono volontariamente riconoscersi e vantarsi sudditi di un uomo come loro? Io non ho nessun padrone!» E in questo era sincero, perché avrebbe voluto esser egli stesso padrone degli altri.

Il duca e i suoi malvacei amici, ostinandosi a giurar sulla destra, aspettando il ritorno di Sella e Minghetti come quello di Nostro Signore, avevano creato un’Associazione Costituzionale, di cui tuttavia l’onorevole deputato non aveva voluto esser capo. Anch’egli adesso, in cuor suo, riconosceva che la strada non aveva uscita; ma oramai egli stava per toccare la settantina, era stanco, non gli restava più nulla da fare. In meno di venti anni aveva messo insieme una sostanza di parecchi milioni, le cure della quale prendevano tutto il resto della sua attività. Deciso veramente a ritirarsi dalla vita pubblica, aveva un’ultima ambizione: quella d’essere nominato senatore; se, quindi, per finir bene dinanzi all’opinione pubblica, non gli conveniva abbandonar bruscamente il partito al quale, dopo il Settantasei, s’era legato ancora più stretto, non gli conveniva neppure muover guerra troppo aperta a quella sinistra da cui aspettava la seggiola a Palazzo Madama. Quindi aveva dato a Benedetto Giulente la presidenza della Costituzionale, contentandosi del posto di semplice gregario. Frattanto, contro questa società era sorta una Progressista, alla quale s’era fatto ascrivere Consalvo. «Zio e nipote l’un contro l’altro armati? Il ragazzo che si ribella al vecchio?» dicevano in piazza; ma le eterne male lingue insinuavano che la cosa era fatta d’amore e d’accordo, che il duca era ben contento d’avere il nipote nel campo contrario, come il principino si giovava del credito dello zio tra i conservatori. Del resto, quantunque consocio dei progressisti, egli dichiarava a questi ultimi che la sinistra non aveva ancora «un finanziere della forza del Sella», né «oratori eleganti come Minghetti». Ma a quelli che non nascondevano i disinganni prodotti dal regime costituzionale non aveva nessuna difficoltà a dichiarare: «L’errore è stato di credere che potesse dare buoni frutti. Il gregge ha sempre avuto bisogno d’un pastore con relativi bastoni e cani di guardia…» Dava ragione perfino a quei pochi che rimpiangevano l’autonomia della Sicilia: «Diciamolo francamente tra noi: forse oggi staremmo meno peggio!» Non avrebbe fatto nessuna difficoltà a concedere alla zia Ferdinanda che il governo borbonico era il solo amabile; ma poiché la vecchia non poteva giovargli, lasciava ch’ella cantasse. Anzi, si giovava di quell’opposizione, non che della rottura col padre. Siccome sapeva che molti, udendo celebrare la sua fede democratica, ridevano d’incredulità, esclamando: «Lui, il principino di Mirabella, il futuro principe di Francalanza, il discendente dei Viceré? Andiamo!…» egli affermava: «Per questa fede, per questi princìpi io sono venuto in urto con mio padre, ho rinunziato all’eredità di mia zia, sosterrei ogni maggiore avversità!…» Nella Giunta, tra i conservatori aristocratici e i radicali progressisti di tanto in tanto s’accendeva una lite; allora egli esclamava: «Qui non bisogna parlar di politica!…» ma una volta che la contesa divenne più vivace, lo tirarono in ballo. Rizzoni, radicalissimo, esclamò:

«Ma domandatelo al principino, se l’avvenire non è nostro, se anch’egli non è democratico!…»

«Mio nipote?» rispose Benedetto Giulente. «L’aristocrazia incarnata?…»

Costretto a rispondere, egli sorrise, si lisciò i baffi, e disse:

«L’ideale della democrazia è aristocratico.»

«Come? Sentiamo!… Questa è nuova!… Che diavolo…» esclamarono tutti.

Egli lasciò che dicessero: poi ripeté:

«L’ideale della democrazia è aristocratico… Che cosa vuole infatti la democrazia? Che tutti gli uomini sieno eguali! Ma eguali in che cosa? Forse nella povertà e nella soggezione? Eguali nelle dovizie, nella forza, nella potenza…» E poiché, dopo un momento di stupore, le esclamazioni ricominciavano, egli troncò di botto la discussione: «Adesso passiamo all’altro articolo: voto al governo per la costituzione d’un bacino di carenaggio…»

 

Egli andava adesso qualche volta da suo padre. Non sentiva più avversione contro di lui: lo zelo, la febbre con la quale s’occupava della cosa pubblica, la tensione di tutte le sue energie al conseguimento del nuovo scopo non lasciavano posto a nessun altro sentimento né d’odio né d’amore. Quanto al principe, le visite del figliuolo gli mettevano i brividi addosso, ed appena lo udiva annunziare dal nuovo maestro di casa – poiché Baldassarre, cocciuto come un vero Uzeda, era proprio andato via – ficcava la sinistra in tasca e non la traeva se non per spianarla, aperta col segno delle corna, dietro al figliuolo, quando costui si decideva a sgomberare. I loro discorsi s’aggiravano sopra cose indifferenti, come fra estranei; il principe fingeva di non sapere che Consalvo fosse il primo magistrato civico; ma insomma adesso stavano insieme da cristiani.

Teresa, ora duchessa Radalì, vedeva in tal modo compensato il proprio sacrifizio. Eccettuati i primissimi tempi, quando la memoria di Giovannino non era interamente morta nel suo cuore, e più grande le era parsa la superiorità di lui sull’altro fratello, ella non aveva del resto sofferto quanto aveva temuto. Il duca Michele non solo la trattava bene e le lasciava ogni libertà; ma le dimostrava, a modo suo, un po’ alla grossa, un affetto vivo e sincero. La duchessa madre, anche lei, dalla soddisfazione di vedere riusciti i propri disegni, le faceva gran festa e la metteva perfino a parte del governo della casa. Il barone se n’era andato ad Augusta, badava agli affari di campagna e scriveva due o tre volte il mese al fratello od alla madre, chiudendo le sue lettere con un «saluto la cognata». La tranquillità che regnava nella sua nuova casa, la pace che ristabilivasi nell’antica, l’affezione del marito, i trionfi di Consalvo, le lodi che raccoglieva ella stessa – poiché, tra le giovani signore, aveva occupato subito il primo posto – facevano fiorire sulle sue labbra sorrisi a grado a grado più schietti. Veramente, ella non sentiva più l’anima disposta a comporre musiche o poesie, ma sedeva ancora spesso al pianoforte per esercitarsi, e nel farsi bella spendeva forse maggiori cure di prima.

Adesso era libera di leggere i libri che più le piacevano; e quando non aveva nulla da fare, divorava romanzi, drammi e poesie. L’eccitazione di quelle letture non le impediva però di attendere alle pratiche religiose con zelo e fervore: in casa Radalì venivano lo stesso Monsignor Vescovo, lo stesso Vicario, gli stessi prelati che frequentavano la casa del principe: essi additavano a tutti la duchessa nuora come modello di domestiche e cristiane virtù.

Presto la gravidanza le fece dimenticare del tutto i sogni del passato, e l’affezionò meglio alla realtà del presente. Soffrì pochissimo durante la gestazione; il tempo volò rapido in mezzo a tante cure ed a tanti pensieri. Il parto fu felicissimo: tutti aspettavano un maschio e un maschio nacque, un bambino grosso e florido che pareva d’un anno. «Poteva essere altrimenti?» dicevano tutti. «Per una figlia e una sposa buona come lei, protetta da una Santa in cielo?…» I preparativi del battesimo furono grandiosi: il duca volle il fratello come padrino. La duchessa madre approvò; Teresa, riposando sul letto nuziale, dove restava più per una beata indolenza che per necessità, disse che naturalmente la scelta non poteva essere migliore. Giovannino tardò a rispondere, ma, sollecitato dal duca anche a nome della madre e della moglie, arrivò la vigilia della cerimonia.

Pareva un altr’uomo: s’era fatto più forte, il sole lo aveva abbronzato, la barba cresciuta gli dava un’aria più maschia, simpatica quanto l’antica, ma in modo diverso. Strinse la mano alla cognata, chiedendole premurosamente notizie della sua salute, e volle veder subito il nipotino che giudicò un amore e baciò e ribaciò fino alla sazietà. Ancora più calma e serena di lui, ella lo accolse come un amico che non si vede da molto tempo. Dopo la cerimonia del battesimo, alla quale furono invitati tutti i parenti stretti e larghi, tutte le conoscenze, mezza città, Giovannino annunziò che ripartiva. Fecero a gara per trattenerlo, ma egli dichiarò che c’era molto da fare in campagna, e andò via promettendo ad ogni modo di tornar presto a rivedere il figlioccio.

Molti degli invitati al battesimo, nuovi tra gli Uzeda, avevano chiesto chi fosse un vecchio magro e sfiancato, il quale portava un abito nuovo fiammante e certe scarpe che non ne potevano più, un cappello unto, e una mazza col pomo d’argento.

Era il cavaliere don Eugenio. La stampa del Nuovo Araldo, ossivero Supplimento, gli aveva procurato un altro momento di benessere. Aveva scialato, possedeva qualche soldo: ma lo scandalo era enorme: egli aveva attribuito titoli di nobiltà e stemmi e corone a quanti lo avevano pagato: speziali, calzolai, barbieri sfoggiavano dentro le botteghe quadri dalle cornici dorate dove, sotto corone, elmi e variopinti svolazzi, si vedevano scudi con leoni, aquile, serpenti, gatti, lepri, conigli, ogni sorta di bestie passanti e volanti; e poi castelli, torri, colonne, montagne; e poi astri di tutte le grandezze, lune d’argento, piene e falcate; soli d’oro, stelle, comete; e tutti i colori dell’iride, tutti i metalli, tutti i mantelli. Né scrupoli, né difficoltà lo avevano arrestato: a chi si chiamava Panettiere aveva dato per arme un forno fiammante in campo d’oro, a chi portava il nome di Rapicavoli un bel mazzo di verdura in campo d’argento. Così l’impresa aveva fruttato di gran bei quattrini; ma, come l’altra volta, buona parte s’era perduta per via. Egli aveva però riscattato l’edizione del primo Araldo che il tipografo teneva sotto sequestro, e con mille copie dell’opera se n’era tornato al suo paese per venderle e mangiarci su.

Faceva il conto senza il principe. Sistemato l’affare della lite, questi s’era pentito dell’accordo, e si lagnava d’essere stato defraudato, d’esser rimasto con un pugno di mosche, mentre l’eredità di don Blasco doveva toccare tutta a lui. Il malumore, l’inappetenza, la debolezza di cui aveva sofferto tornavano a tormentarlo: sordamente irritato, incapace di confessarsi ammalato pel superstizioso timore di accrescere con la confessione la malattia, se la prendeva con la figlia che gli aveva imposto la transazione, dichiarava d’essere stato spogliato come in un bosco. Appena visto tornare lo zio, e udito che aveva qualche soldo, andò a chiedergli la restituzione del prestito. E siccome don Eugenio tirò in ballo la rinunzia ai propri diritti, egli gridò:

«Che diritti e che storti? Sono stato spogliato! Si sono preso tutto! Io v’ho dato i quattrini; restituiteli, adesso che li avete.»

Vista la mala parata, don Eugenio gli confidò:

«Non li ho! Ti giuro che non li ho! Ho quattro soldi per tirare innanzi; se ti do duemila e cinquecento lire, come mangio?»

«Datemi allora le copie,» rispose pronto Giacomo.

«Ma sono il mio solo provento! Se tu me le togli, dove vado a sbattere? Che t’importa di un po’ di carta sporca?… Tu che sei tanto ricco? Per me è il pane!… Le venderò a poco a poco, avrò tanto da campucchiare…»

Inflessibile, il principe volle presso di sé tutta l’edizione dell’Araldo sicolo e del Supplimento, come garanzia del proprio credito.

Quantunque mezza Sicilia fosse inondata di quella pubblicazione, pure riusciva spesso a don Eugenio di collocarne qualche copia; e allora andava a prenderla dal principe promettendo di portare i quattrini per poi dividerli con lui; ma i quattrini non venivano mai, talché un bel giorno, stanco d’esser beffato, il nipote gli dichiarò: