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Teresa pareva non udire né questi né altri discorsi, e sognare tuttodì ad occhi aperti. Divorava i pochi libri di versi e i romanzi che la principessa le consentiva di leggere, dipingeva quadretti dove si vedevano castelli merlati sorgenti in mezzo a laghi di cobalto, trovatori con la chitarra ad armacollo, o più spesso castellane inginocchiate ed oranti, Madonne col divino Figliuolo tra le braccia. Le composizioni austere e più le sacre erano le preferite dalla principessa; e la figliuola lasciava perciò da canto i soggetti futili. Questa costante remissione ai voleri altrui, questo senso di doverosa obbedienza erano sempre vivi in lei; più Consalvo dava motivi di cruccio in famiglia, più ella credeva suo obbligo di evitare ai parenti ogni più piccolo dispiacere. Le finzioni poetiche dei libri le accendevano la fantasia e le facevano battere il cuore, ma se la principessa giudicava troppo lungo il tempo da lei dedicato alle letture frivole, le smetteva addirittura. Spesso udiva lodare un romanzo, un dramma, un volume di versi, e si struggeva di leggerli, immaginando quanto dovevano esser belli, che piacere le avrebbero procurato; non ci pensava più se la madrigna le diceva: «No, Teresina, non sono per te.» Certe volte quei libri erano posseduti da Consalvo, il quale, benché s’occupasse solo di studi positivi, pure comprava anche la roba amena per far vedere che era a giorno di tutto; e allora sarebbe bastato a Teresa farsi prestare il volume dal fratello per leggerlo di nascosto; ma quest’idea non le passava neppure pel capo, per la stessa ragione che, in collegio, aveva rifiutato di leggere i libri che qualche sua compagna era riuscita a procurarsi, e non aveva dato ascolto ai discorsi proibiti delle amiche sventate. Il confessore, la direttrice le avevano detto che non bisognava neppur parlare di certe cose, ed ella se ne asteneva, rigorosamente. Come quando era bambina, l’idea delle lodi e del premio da ottenere, l’ambizione di vedersi additata come esempio alle altre, vincevano le tentazioni della curiosità, non le facevano sentire le privazioni che s’infliggeva.

Adesso la conducevano spesso al teatro: d’estate alla commedia, d’inverno al melodramma; ed ella non sapeva veramente dire quale dei due spettacoli le piacesse di più. Ella stessa componeva di tanto in tanto un valzer, una mazurca, oppure notturni, sinfonie, fantasie senza parole che portavano per titolo: Vorrei!, Incanti, Storia mesta, Ognor…, e conoscenze, parenti, amici, tutti andavano in visibilio udendole; lo stesso maestro, un vecchietto scelto apposta dalla principessa per non mettere «l’esca accanto al fuoco», prodigava grandi lodi: don Cono, il vecchio lavapiatti, le dava del «Bellini in gonne» ed anzi una volta esclamò: «Opino che al concerto bellico convenga appararle onde eseguirle in pubblico!» Il concerto bellico era la musica militare, che godeva la fama d’essere una delle migliori d’Italia. Teresa si schermì; la principessa, tra il piacere di far conoscere a tutti il talento di «mia figlia» e la repulsione per la pubblicità, non sapeva risolversi; il principe, poiché non ne andavan quattrini di mezzo, era del tutto indifferente; ma don Cono, incaponito nella sua idea, venne un giorno a dire che aveva già parlato al capobanda.

Il maestro venne al palazzo, in compagnia del lavapiatti; era un giovane così bello che pareva San Michele Arcangelo: bruno di capelli, biondo di baffi, roseo di carnagione. La principessa, appena lo vide, cominciò a torcere il muso e a far segni a don Cono per dirgli che non s’aspettava da lui quella parte: condurle in casa un tipo simile?… Intanto il maestro eseguiva al pianoforte le composizioni della signorina, con un colorito, un’espressione, un’anima da renderle irriconoscibili alla stessa autrice; e ad ogni pezzo le esprimeva una crescente ammirazione, e quando non ce ne furono più, disse che non sceglieva perché erano uno più bello dell’altro: non potendoli prender tutti, lasciava che la stessa «principessa» scegliesse. Teresa gli diede Storia mesta; ma quando, finito di cavar la partitura, una settimana dopo, il maestro si presentò al portone del palazzo, per far vedere il suo lavoro, il portiere disse che i padroni non ricevevano.

«Condurmi in casa quel tipo? Non m’aspettavo un simile tiro da voi! Si vede bene che non avete figliuole!» aveva detto donna Graziella al vecchio lavapiatti, non riuscendo a darsi pace; ma ella esagerava, come in ogni cosa: la principessina di Francalanza poteva forse gettare gli occhi sopra un capobanda?

Storia mesta fu eseguita una domenica, alla Marina, dalla musica del reggimento: il concerto era veramente uno dei migliori, e la composizione di Teresa parve un vero pezzo d’opera, con certi cantabili affidati ad un corno inglese dolce come una voce umana, e certi effetti d’organo da far credere alla gente d’essere a San Nicola, dinanzi allo strumento di Donato del Piano. Teresa, in carrozza chiusa, sotto i platani, stava a udire, col cuore che le batteva come se volesse schiantarsi, con un nodo di pianto alla gola e pallida in viso come una rosa bianca, e poi a un tratto di porpora quando, al finire del pezzo, s’udì uno scroscio d’applausi… La musica sua, quella degli altri, i drammi, la poesia l’inebbriavano, la rapivano, la sollevavano in alto, in cielo, nell’etere azzurro, dove ella non sentiva più il suo corpo, dove aspirava e beveva, anche tra le lacrime, la pura felicità. Ma niente delle commozioni ora dolci, ora ardenti, or tristi, or soavi, or disparate, ineffabili sempre, che gonfiavano il suo cuore di gioia o lo serravano dall’angoscia, era noto al mondo. Ella non si tradiva: mentre l’anima sua era più turbata, al pensiero dell’amore, nell’attesa dell’amore, dinanzi agli uomini, ai giovani belli come il cugino Giovannino Radalì; mentre la fantasia le rappresentava con maggior evidenza il proprio avvenire, piaceri e dolori, fortune e sciagure, ella rimaneva tranquilla e composta e serena. Non le costava farsi forza, disperdere quelle fantasie per attendere alle minute o ingrate bisogne reali.

La conoscenza del maestro del reggimento, le sue lodi, l’esecuzione della musica avevano scatenato una tempesta in lei; ma quando il giovane, per divieto della principessa, non tornò più al palazzo, ella non pensò più a lui. Don Cono, incaponito nella sua idea, incoraggiato dal lieto successo, parlò un giorno all’assessore dei pubblici spettacoli, perché desse ordine al direttore della musica cittadina di concertare anche lui le composizioni della principessina. Questo assessore degli spettacoli era Giuliano Biancavilla, figliuolo di don Antonio e della Bivona, un giovanotto sulla trentina, bruno di carnagione e nero di capelli come un arabo, ma fine, elegante e con gli occhi dolcissimi. Appena udì la proposta di don Cono, diede immediatamente gli ordini opportuni, e la principessa acconsentì che la figliuola avesse tutte le conferenze occorrenti col maestro, che era sulla sessantina. Ma quando il diavolo ha da ficcarci la coda! Donna Graziella, con tutte le sue precauzioni, non poté impedire che il giovane assessore mettesse, da lontano, gli occhi addosso a Teresa! Al teatro la guardava fisso, senza lasciarla un istante; al passeggio, la sua carrozza seguiva sempre quella degli Uzeda; perfino in chiesa si faceva trovare sul loro passaggio. Appena accortasi di quella commedia, la principessa riferì ogni cosa al principe, il quale lasciò cadere tre sole parole:

«È pazzo, poveretto.»

E la lingua della moglie cominciò a lavorare. Un Biancavilla pretendere alla principessina di Francalanza? Forse perché una Uzeda aveva sposato un Giulente? Poveretto, credeva d’avere a fare con un’altra Lucrezia, quell’assessore!… Nobili, sissignori: i Biancavilla erano nobili, ricchi anche; ma la loro ricchezza e la loro nobiltà non li faceva eguali ai Viceré. «Guardate frattanto che ardimento e che petulanza! Far ciarlare la gente intorno alla mia figliuola!…» E con tutti i suoi discorsi, non s’accorgeva di diffondere più rapidamente la nuova.

In breve non si parlò d’altro in città. «Gliela daranno?… Non gliela daranno?…» Ma tutti riconoscevano che Biancavilla aveva posto gli occhi troppo in alto. Baldassarre, specialmente, non sapeva darsi pace. Egli voleva naturalmente che la principessina sposasse uno fatto per lei, un barone, a dir poco, ricco da mantenerla come una Regina; e, pure aspettando che il principe facesse la sua scelta, in cuor suo aveva destinato alla padroncina il cugino don Giovannino. Questo frattanto era per lui certo: che la signorina non si sarebbe neppure accorta dell’esistenza di Biancavilla.

Invece, alla lunga, gli sguardi del giovane avevano attirato quelli di lei quasi per virtù magnetica, e le facevano adesso affrettare e mancare tutt’in una volta il respiro. Anch’ella lo guardava, di tanto in tanto, senza vederlo bene, dal turbamento; ma tornava a casa felice e ridente quando lo aveva scorto anche da lontano, e si metteva a improvvisare al pianoforte, tremando da capo a piedi, come se egli potesse udire tutti i segreti pensieri d’amore confidati allo strumento, le divine speranze d’eterna felicità… In collegio, ella aveva composto talvolta qualche verso, per le feste delle maestre, per gli onomastici delle amiche: voleva adesso scriverne per lui, metterli in musica unicamente per lui…

Se fossi il pallido

raggio di luna

che a notte bruna

ti posa in fronte;

se fossi il zeffiro,

la lieve brezza

che t’accarezza…

Non riuscì ad andare più innanzi, ma si pose a comporre una romanza su quel tema, intitolato Se!… piangendo di dolcezza quando non la vedevano, mentre le note appassionate s’involavano dal pianoforte.

In inverno, il barone Cùrcuma diede alcuni balli. Donna Graziella non aveva ancora condotto Teresa in società; prima di tutto perché non intendeva che i giovanotti avvicinassero sua «figlia», e poi anche perché non aveva giudicato nessuna casa degna d’esser frequentata dalla principessina. Quella dei Cùrcuma, veramente, poteva passare; e poi il principe volle che tutta la famiglia vi andasse. Ma il cuore le parlava, a donna Graziella: giusto la prima sera, chi ci trovò? Giuliano Biancavilla!… Se quel petulante avesse conosciuto un poco il mondo, sarebbe rimasto quieto al suo posto; invece pensò di farsi presentare e di ballare con la sua Teresa!… Costei tremava, nelle sue braccia; egli non le disse altro che qualche parola: «È stanca?… Grazie!…» ma pareva a lei d’essere in cielo, mentre la principessa stava sulle spine e faceva segni al marito per dargli segno del pericolo. Ma il principe era in istretto colloquio col padrone di casa; e a un tratto quel petulante si ripresentò per chiedere alla signorina una mazurca. Allora donna Graziella intervenne:

 

«Scusate, cavaliere; mia figlia è stanca.»

Con una gran stretta al cuore Teresa s’accorse dell’opposizione della madre. Infiammato per averla tenuta un momento fra le braccia, Biancavilla cominciò a seguirla per le vie, come l’ombra: la principessa gonfiava, smaniava, soffiava: una volta, sulla porta della chiesa dei Minoriti, passandogli innanzi, esclamò piano, ma in modo che i vicini potessero udirla: «Che seccatore!…»

Teresa pianse a lungo, nascondendo le proprie lacrime, prevedendo che tutte le sue speranze si sarebbero infrante, se i suoi non volevano. Anche i Biancavilla sapevano che gli Uzeda non avrebbero mai consentito a quel matrimonio; ma il giovane, che era proprio cotto, insisteva giorno e notte presso la madre e il padre perché facessero la richiesta; tanto che un giorno Biancavilla padre prese il suo coraggio a due mani e andò a parlare col duca. Questi, con grande consumo di «molto onorati» e di «figuratevi con quanto piacere, per me!» gli rispose che ne avrebbe parlato al principe; Giacomo ripetè allo zio le stesse tre parole dette alla moglie, con una piccola variante: «Sono pazzi, poveretti!» Quindi il duca rispose a don Antonio, con molte belle parole, che non se ne poteva far niente, «perché il principe voleva prima accasare Consalvo».

Non era un pretesto. Il principe aveva iniziato pratiche coi Cùrcuma ed era andato in casa loro per combinare il matrimonio della baronessina col figlio. Il partito era stato accettato a occhi chiusi, e l’assiduità di Consalvo ai balli del barone fu appresa come l’inizio della sua corte alla signorina. Ma egli non sapeva niente di quanto aveva ordito suo padre, e andava ora in società per parlare di politica e di filosofia. Tutto l’oro del mondo non lo avrebbe piegato a fare un giro di valzer: teneva cattedra nel cerchio degli uomini, e se avvicinava le signore o le signorine, le metteva a parte del bilancio comunale, del regolamento scolastico e del gettito dei dazi consumo, con molte citazioni statistiche e proverbi latini. Ripetuta di bocca in bocca, la notizia del suo matrimonio arrivò anche a lui; e allora egli scoppiò in una risata cordiale, dicendo, più laconico del padre:

«Sono pazzi!»

Prender moglie, sposare una bambola carica d’oro come quella baronessina, legarsi ancora più strettamente a quel paese dal quale voleva andar via, crearsi gli avvincenti doveri della famiglia, quando aveva bisogno d’essere libero come l’aria, di dedicare tutte le proprie energie al conseguimento dello scopo prefissosi? Matti, davvero! E la cosa gli parve sì buffa, che neppur volle smettere le visite al barone.

Giusto in quel torno, perduta ogni speranza, Giuliano Biancavilla partì. Chi diceva che sarebbe andato a Roma, chi a Parigi, chi aggiungeva che non sarebbe mai più tornato a casa, senza riguardo al dolore dei suoi. Il duca, per incarico del principe che aveva paura di parlare direttamente col figliuolo, annunziò a Consalvo che era tempo di prender moglie e che tutta la famiglia era d’accordo per dargli la baronessina.

«Benissimo, Eccellenza,» rispose il giovane. «C’è però una difficoltà.»

«Cioè?»

«Che io non la voglio!»

«E perché non la vuoi?»

«Perché no! Si tratta di me o di Vostra Eccellenza? Si tratta di me! Dunque tocca a me manifestare la mia volontà. Io non la voglio.»

Quando il duca riferì al principe questa risposta, Giacomo era già fuori della grazia di Dio, per aver saputo che il perito, incaricato dal tribunale di esaminare il testamento del fu don Blasco, s’era pronunziato contro l’autenticità della scrittura. Udendo il decisivo rifiuto del figlio, egli scoppiò, gridando con voce rauca:

«Ah, iettatore! Lo fa apposta! Per farmi crepare! Ma voglio far crepare lui, prima! Ditegli dunque che si scelga chi diavolo vuole: sposi, sposi la prima sgualdrina che gli piace, una di quelle ciarpe con le quali andava bagordando quando ancora non s’era fitto in capo di divenire letterato! Sposi chi gli piace e vada al diavolo, perché io non voglio più trovarmelo fra i piedi, cotesto iettatore!»

«Eccellenza,» rispose il principino allo zio che gli riferiva la seconda ambasciata, «io non voglio sposare né la Cùrcuma, né nessun’altra. Sono ancora giovane e ci sarà sempre tempo di mettermi la catena al collo. La cosa certa è che per ora non bisogna parlarmi di matrimonio. Non sono una donna come la zia Chiara, che la nonna fece sposare per forza…»

E la nuova tempesta si veniva addensando sordamente; i lampi guizzavano negli sguardi irosi del principe, i tuoni rumoreggiavano nella sua voce cupa.

«Santo Dio d’amore!…» diceva la principessa a Teresa. «Che dispiacere, questa guerra; che scandalo! E chi sa come e quando finirà… Ma tu!… Tu no, non hai dato a nessuno il minimo motivo di dolore!… Benedetta!… Sempre santa così!..»

Teresa si lasciava abbracciare e baciare dalla madrigna, assaporando la lode, dolendosi della guerra tra il padre e il fratello, votandosi alla Madonna affinché la facesse cessare. Che cosa poteva offrire alla Vergine, per ottenere tanta grazia? L’amor suo per Giuliano?… No, era troppo, era la cosa che più le stava a cuore… Ella non vedeva più il giovane, non aveva notizia della richiesta e del rifiuto; sapeva nondimeno che i suoi non vedevano bene quel partito; ma la speranza era in lei viva ancora: un giorno o l’altro il padre e la madrigna avrebbero potuto ricredersi, consentire alla sua felicità…

Un giorno, invece, scoppiò la tempesta fra il padre e il fratello. Questi aveva ordinato, di suo capo, senza dirne niente a nessuno, quattro grandi scaffali per disporvi i suoi libri; quando il principe vide arrivare quei mobili, fece chiamare Consalvo e gli domandò concitato:

«Chi t’ha permesso d’ordinar nulla, in casa mia?»

Il giovane rispose con la studiata freddezza che faceva imbestialire suo padre:

«Avevo bisogno di questi mobili.»

«Qui comando io, t’ho detto molte volte,» ribatté l’altro, facendo sforzi violenti per contenersi. «Non s’ha da piantare un chiodo senza mio permesso! Se vuoi far da padrone, vattene via! Nessuno ti trattiene!… Prendi moglie e rompiti il collo.»

«Ho già detto,» rispose Consalvo più freddo che mai, «ho già detto allo zio che non voglio ammogliarmi…»

«Ah, non vuoi?… Non vuoi?… Ed io ti butterò via a pedate, bestione, facchino, animale!…»

«Tanto meglio,» soggiunse il principino freddo come la neve. «Mi farete piacere…»

A un tratto il principe impallidì come se stesse per svenire, poi diventò paonazzo come per un colpo apoplettico, e finalmente proruppe, abbaiando come un cane:

«Fuori di qui!… Fuori di casa mia!… Ora, all’istante, cacciatelo fuori!…»

Accorsero, pallidi ed impauriti, la principessa, Teresa e Baldassarre: con la bava alla bocca, il principe fu trascinato via dalla moglie e dal servo.

Teresa, giunte le mani tremanti dinanzi al fratello, esclamò con voce d’angosciosa rampogna:

«Consalvo!… Consalvo!… Come puoi fare così?»

«Tu lo difendi?» rispose il giovane, sempre calmo, ma con voce un po’ stridula. «Difendilo, difendili, gli assassini di nostra madre.»

«Ah!»

Ella nascose la faccia tra le mani. Quando si guardò intorno, era sola. Un andirivieni di servi, per la casa: chiamavano un dottore, applicavano vesciche di ghiaccio alla fronte del principe. Ella andò a cadere dinanzi all’immagine di Maria Santissima. Un rimorso, dopo la scena disgustosa, dopo le terribili parole del fratello, le serrava il cuore, per non aver voluto offrire in olocausto l’amor suo, le sue speranze di gioia, pur di evitare la lite violenta e la tremenda accusa. Ella chiedeva perdono alla Vergine di tanto egoismo, le chiedeva conforto ed aiuto, tremante di paura, malferma come se il suolo oscillasse sotto le sue ginocchia. Ed era ancora in ginocchio, quando fu sorpresa dalla principessa che la chiamava al capezzale del padre.

«Figlia mia! Figlia mia!… Che cuore di figlia!… Sì, prega la Madonna Santa che torni la pace: Ella sola oramai può fare questo miracolo… Tuo padre non vuole più vederlo, non lo vuole più in casa; ed egli non cede!… Tu no! Tu no!…»

E tra i baci e le lacrime, le parlò di qualcuno, di lui, dandole la notizia che era partito:

«Era il meglio che potesse fare. Tu forse lo guardavi con simpatia: non te ne incolpo: siamo tutte state ragazze e so come vanno queste cose. Ma non avresti potuto esser felice con lui, e tuo padre, il cui unico scopo è la tua felicità, non voleva… Non ti avrei parlato di tutto ciò senza i dolori che soffriamo, e se non sapessi che tu sei tanto buona, tanto giudiziosa da comprendere che tuo padre non può voler altro che il tuo bene. È vero, figlia mia?…»

La prima volta, dopo quella scena, che il principe udì nominare il figliuolo, gridò:

«Non parlate più di cotesto iettatore! Non lo nominate più! O mando via tutti…»

La rottura fu definitiva. Il duca, messo a giorno dell’accaduto, venne a prendersi Consalvo e lo condusse per alcune settimane in campagna. Di ritorno, fu deciso che il principino sarebbe andato ad abitare la casa che il padre possedeva alla Marina. Il giovane non chiedeva di meglio. Arredò il quartiere a modo suo, e passò a starci contento come una pasqua. Faceva adesso da padrone, non andava più alla messa, riceveva chi voleva, invitava a casa sua i pezzi grossi del circolo, ai quali mostrava due stanzoni tutti pieni di carta stampata. I vantaggi erano infiniti. Al palazzo, non aveva ancora potuto significar bene i suoi sentimenti liberali, mettendo fuori lumi e bandiere per le feste patriottiche; qui il 14 marzo e il giorno dello Statuto inalberava un bandierone grande quanto una tenda, e disponeva ai balconi una fila di lampioncini che splendevano malinconicamente nelle tenebre del quartiere deserto. Poi, restava nel suo studio quanto voleva, e prendeva i suoi pasti nelle ore più stravaganti. Studiava l’Enciclopedia popolare, ne mandava a memoria gli articoli riguardanti le quistioni del giorno, e poi sbalordiva l’assemblea con la propria erudizione, dicendo: «Su questa materia hanno scritto Tizio, Caio, Sempronio, Martino, etc., etc.» Come un tempo aveva gettato sulla folla il suo tiro a quattro, così la schiacciava con tutto il peso della sua dottrina, e la gente che si tirava da canto, un tempo, per non restar sotto i suoi cavalli, esclamando tuttavia: «Che bell’equipaggio!» adesso lo stava a udire, intronata della sua loquela, dicendo: «Quante cose sa!» La nativa spagnolesca albagia della razza ignorante e prepotente, e la necessità d’adattarsi ai tempi democratici si contemperavano così in lui, a sua insaputa. Pur di arrivare all’intento, niente lo arrestava, le imprese più ardue non lo sgomentavano; leggeva i libri più grevi come se fossero romanzi; come un romanzo avrebbe letto un trattato di calcolo sublime. Cavava da quello studio il mediocre profitto che era solo possibile: acquistava una infarinatura di tutto, immagazzinava cognizioni disparate, idee contraddittorie, una scienza farraginosa e indigesta. Ma, in mezzo alla massa ignorante della nobiltà paesana, si guadagnava la riputazione di «istruito», e quando la gente minuta udiva nominare il principino di Mirabella, tutti dicevano: «Quello che ora fa il letterato?»

Una bella mattina, tra le stampe che la posta gli portava a cataste, ricevette da Palermo il primo fascicolo dell’Araldo sicolo, opera istorico-nobiliare del cavaliere don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella. Come lui, tutti i parenti, i sottoscrittori, i circoli ne ebbero un esemplare. L’opera storico-nobiliare cominciava con Brevi cenni amplificati sulle dinastie che avevano regnato nell’isola: Real Casa Normanna, Real Casa Sveva, Real Casa d’Angiò e così via discorrendo fino alla Real Casa Sabauda: ché il cavaliere aveva riconosciuto la nuova monarchia per vender copie del libro alle biblioteche dello Stato. I brevi appunti amplificati fecero ridere Consalvo, la Real Casa Sabauda fece imbestialire donna Ferdinanda, benché del resto la vecchia adesso fosse in un immutabile stato di furore per via della lite ancora indecisa. Ma la sua collera contro la famiglia del principe s’accrebbe naturalmente, poiché la stampa di quelle «porcherie» era stata possibile per l’anticipazione fatta dal principe a don Eugenio!…

 

Dopo aver promesso duemila lire, il principe però non ne aveva date più di cinquecento, per le quali lo zio aveva dovuto rilasciargli una cambiale con la data in bianco; ma, dopo la morte di don Blasco, i rapporti finanziari tra zio e nipote avevano preso una piega pericolosa. Don Eugenio, dapprima con le buone, poi con le minacce, scriveva al nipote chiedendo altri quattrini, perché, in caso contrario, egli avrebbe fatto lega con Ferdinanda per impugnare il testamento del fratello; il principe, da canto suo, con la cambiale in mano, pretendeva tenere in riga lo zio. Avviata la stampa dell’opera, il cavaliere piovve un giorno da Palermo: era più sordido di prima, aveva l’aria più affamata che mai. Dopo una lunga serie di trattative, il principe sborsò altre duemila lire, mediante le quali don Eugenio rinunziò con apposito atto a tutto quel che avrebbe potuto eventualmente toccargli nella spartizione dell’eredità del monaco, e riconobbe il nipote proprietario di mille esemplari dell’opera.

Il principe aveva capito che l’impresa di quella pubblicazione non era poi l’affare sballato che tutti credevano. I fascicoli successivi, dove s’iniziava la storia delle singole famiglie, andavano a ruba. Don Eugenio, in verità, si restringeva a trascrivere il Mugnòs e il Villabianca, infiorandoli di locuzioni di sua particolare fattura; ma, da una parte, quei libri erano introvabili, o costavano caro e si prestavano poco alla lettura, coi loro vecchi tipi, con la loro carta secca, gialla e polverosa, mentre l’edizione di don Eugenio era veramente bella, e i fascicoli degli stemmi colorati fiammeggiavano dal tanto minio e dal tanto oro; da un altro canto, poi, il compilatore usava l’innocente artifizio di sopprimere le indicazioni troppo precise, talché tre, quattro, cinque famiglie che portavano per caso lo stesso nome senza nessuna relazione di parentado potevano credere che la storia della sola autenticamente nobile fosse anche la propria. A Palermo, a Messina, in tutta la Sicilia, egli trovava così una quantità di «gentilesche genti» e quindi di associati. Certuni volevano dire che prendesse altri quattrini per aggiungere qua e là: «Una branca di cotanto blasonata famiglia fiorisce tuttosì nella vetusta città di Caropepe…» Donna Ferdinanda, pertanto, diventava paonazza dall’indignazione; e anche Consalvo nutriva un profondo disprezzo per quel parente che non solo prostituiva in tal modo se stesso, ma discreditava tutta la casata. Il principino però, al contrario della zia, teneva per sé i propri sentimenti, e manifestava solo quelli che gli giovavano. Sentiva di dover fare in politica come aveva visto fare a suo padre, in casa, quando si teneva bene con tutti e assecondava le pazzie di tutti quanti, salvo a dare un calcio a chi non poteva più nuocergli. Adesso adoperava anch’egli quel metodo, piaggiando tutti i partiti. Quello dello zio duca aveva sempre il mestolo in mano. Veramente nei quattro anni passati dallo scioglimento della questione romana, il favor popolare aveva a poco a poco ricominciato ad abbandonare il deputato, poiché questi, dimentico del pericolo corso, persuaso d’aver consolidato stabilmente la propria posizione, non temendo più sommosse e rivolgimenti, aveva ripreso a mostrarsi partigiano, a badare agli affari propri e degli amici piuttosto che a quelli del paese, a trattare il collegio come un feudo; ma, se la gente spicciola incominciava a mormorare, i pezzi grossi, invece, i capi della camarilla si lasciavano ammazzare per l’onorevole, non giuravano per altro che per lui, per i suoi sani princìpi di moderazione: nel novembre di quell’anno Settantaquattro, egli fu rieletto, senza dimostrazioni, ma senza opposizioni: alla unanimità. Così Consalvo dinanzi allo zio ed ai suoi amici celebrava la saldezza della loro fede, l’eccellenza del principio conservatore «da cui dipende la salute dell’Italia»; ma, trovandosi dinanzi a qualcuno degli avversari, affermava la necessità del progresso, la convenienza che anche la sinistra facesse la prova del governo, perché «come dice il celebre Tal dei Tali, i partiti debbono alternarsi al potere».

E se gli stavano di fronte due che la pensavano in modo contrario, taceva o dava ragione ad entrambi e torto a nessuno. Tranne che nel grande principio aristocratico, nel profondo sentimento di sprezzo verso la ciurmaglia, nella ferma opinione d’esser fatto veramente d’un’altra pasta, nell’ardente bisogno di comandare al gregge umano come avevano comandato i suoi maggiori, egli era disposto a concedere tutto. Non aveva neppure scrupolo di sostenere a parole il contrario di quel che pensava, se era necessario nascondere il proprio pensiero ed esprimerne un altro. Le parole «repubblica» e «rivoluzione» gli facevano passare brividi di paura per la schiena; ma, per secondare la corrente democratica, per farsi perdonare la sua nascita, s’ingraziava il partito estremo. Al Circolo Nazionale buona parte dei soci, pure accettando le istituzioni, onoravano, sopra tutti gli uomini del Risorgimento, Mazzini e Garibaldi; altre società, specialmente le popolari, festeggiavano il 19 marzo, giorno di San Giuseppe, in loro onore; egli ripeté l’esposizione del bandierone e dei lumi anche in quell’occasione, cercò apposta i più noti repubblicani per dir loro: «Io non capisco l’esclusivismo di certuni: senza Mazzini il fuoco sacro si sarebbe spento; e senza Garibaldi, chi sa, Francesco ii sarebbe ancora a Napoli.»

Né credeva alla sincerità della fede altrui. Monarchia o repubblica, religione o ateismo, tutto era per lui quistione di tornaconto materiale o morale, immediato o avvenire. Al Noviziato aveva avuto l’esempio della sfrenata licenza dei monaci che avevano fatto voto dinanzi al loro Dio di rinunziare a tutto; in casa, nel mondo, aveva visto che ciascuno tirava a fare il proprio comodo sopra ogni cosa. Non c’era dunque nient’altro fuorché l’interesse individuale; per soddisfare il suo amor proprio egli era disposto a giovarsi di tutto. Del resto, il sentimento ereditario della propria superiorità non gli permetteva di riconoscere il male di questo scettico egoismo: gli Uzeda potevano fare ciò che loro piaceva. Il conte Raimondo aveva distrutto due famiglie; il duca d’Oragua s’era arricchito a spese del pubblico, il principe Giacomo spogliando i propri parenti; le donne avevano fatto stravaganze che confinavano con la pazzia: se egli dunque s’accorgeva talvolta d’essere in fallo, secondo la morale dei più, pensava che in fin dei conti faceva meno male di tutti costoro.