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«Non occorre che veniate anche voi.»

Ora il Babbeo, che non ragionava più, alla vista del fratello ebbe un assalto di manìa furiosa. Con gli occhi stravolti, coi capelli arruffati sul viso scarno e pauroso, si mise a gridare:

«Assassini! Assassini!… I prussiani!… Vogliono avvelenarmi!…»

Gridò così tutta la notte, delirante; ma, cessata la crisi, l’idea rimase fissa, incrollabile. E per paura del veleno, colla manìa della persecuzione, non schiuse più bocca: tutte le volte che gli si appressavano per dargli del cibo stringeva i denti, urlava, trovava nelle braccia, spaventosamente magre, la forza di respingere i tentativi di fargli ingoiare un sorso di brodo o di latte.

«Aiuto!… Bismarck! Assassino!…»

Lucrezia gli si metteva accanto, lo prendeva per mano, gli domandava:

«Ma di chi hai paura? Non ci riconosci?… Credi che ti voglia avvelenare io? O Giacomo? O Raimondo?…»

Il pazzo sorrideva d’incredulità, ma quando ritentavano di fargli prendere un boccone, per prolungargli di qualche giorno la vita, perché non morisse di fame, ricominciava a urlare: «Assassino!… Aiuto!… Assassino!…»

Una sera, mentre don Blasco stava per uscir di casa insieme col professore, il cocchiere del principe venne a dirgli, col fiato ai denti:

«Eccellenza, l’aspettano dal Cavaliere… Sono tutti lì… Portano il viatico al signorino Ferdinando…»

Il monaco aveva una gran fretta di andare al Gabinetto per sapere che c’era di nuovo. Le ultime notizie dicevano che le truppe italiane erano dinanzi a Roma; e se la curiosità universale era vivamente eccitata, don Blasco smaniava addirittura. Nondimeno, a quell’annunzio di morte, stava per rispondere che sarebbe subito andato, quando arrivò a precipizio un altro messo da parte del duca.

«Sua Eccellenza l’aspetta subito a casa… È affare urgentissimo…»

«Vengo.»

Il professore, declamando contro il tribunale del Sant’Uffizio, lo accompagnò fino alla nuova casa del duca, dove questi s’era domiciliato dal primo del mese. Giunto dinanzi al portone, il monaco chiese permesso al compagno, il quale restò ad aspettarlo passeggiando su e giù. Dopo due o tre minuti riapparve don Blasco, pallido in viso, correndo e agitando un pezzo di carta:

«È nostra!… È nostra!…»

«Chi?… Che cosa?…»

«Venite!…» esclamava il Cassinese allungando il passo e ansimando. «Al Gabinetto! Roma è nostra! La breccia è aperta!…»

«Come?… Aspettate!… Fatemi vedere…»

«Avanti!… Avanti!… Mio fratello ha ricevuto il dispaccio… Le truppe sono entrate… Andiamo al Gabinetto!…»

Piovve lì, tra la gente seduta sul marciapiede al fresco, come una bomba:

«È nostra! È nostra! È nostra!… Roma è nostra!…»

Tutti s’alzarono, circondandolo, parlando insieme, levando le braccia. Egli spiegava il pezzo di carta dove il duca aveva riadattato il telegramma ricevuto dal prefetto per togliergli il carattere ufficiale, mutando l’indirizzo per far credere che fosse venuto a lui; e la gente accorreva dal fondo delle sale, i passanti si fermavano, la folla ingrossava da un momento all’altro. Tutti volevano leggere la notizia, ma don Blasco non dava a nessuno il dispaccio che nella ressa correva pericolo d’essere stracciato in mille pezzi.

«Leggete!… Leggete!… Vogliamo sentirlo!…»

Salito allora sopra una seggiola, il monaco lesse col suo vocione: «Firenze, ore 5 pomeridiane: Onorevole d’Oragua, Catania. Oggi alle ore dieci antimeridiane, dopo cinque ore di cannoneggiamento, truppe nazionali aprirono breccia cinta di Porta Pia… Bandiera bianca alzata su Castel Sant’Angelo segnò fine ostilità… Nostre perdite venti morti, circa cento feriti…»

E un urlo si levò tutt’intorno. Ma don Blasco, dominando le urla, gridò:

«All’Ospizio… per la musica… Fermi!… Le bandiere…»

In un attimo tutte le bandiere del Gabinetto furono recate dai camerieri storditi dalle grida. Don Blasco ne agguantò una, s’aprì un varco tra la folla e vociò nuovamente:

«All’Ospizio!… All’Ospizio!…»

Per via, le grida di Viva l’Italia! Viva Roma! echeggiavano d’ogni intorno, la dimostrazione s’ingrossava; quelli che ignoravano ancora di che si trattasse gridavano per sapere che cos’era successo, e tutti rispondevano:

«La truppa ha preso Roma!… È venuto il dispaccio al deputato, al duca d’Oragua!…»

Quando la banda dell’Ospizio, riunita in fretta e in furia, cominciò sonare, il clamore divenne assordante. E mentre i sonatori e il capo musica domandavano:

«Da che parte?… Dove si va?…»

«Dal deputato…» risposero dieci, cento voci; «dal duca…»

Tutte le finestre illuminate, in casa dell’onorevole; una bandiera che pareva una vela di bastimento sventolante al balcone di mezzo, il deputato che in persona rispondeva salutando col fazzoletto alle grida di:

«Viva Roma capitale!… Viva Oragua!… Viva il deputato…»

A un tratto, mentre alcuni gridavano per ottener silenzio, aspettando un discorso d’occasione, il duca scomparve. Per evitare il pericolo di dover parlare, poiché Giulente non lo poteva aiutare essendo con la moglie al letto dell’agonizzante Ferdinando, egli scendeva incontro ai dimostranti, veniva a mescolarsi tra la folla.

«Evviva!… Evviva!… Alla prefettura!…»

E la marcia ricominciò. Don Blasco, con la bandiera a spall’arme, la tuba un poco di traverso, il colletto monacale madido di sudore, andava in mezzo alla dimostrazione a braccio del professore che lo aveva ripescato e non lo lasciava più.

«Fuori i lumi!…» gridavano i suoi seguaci a ogni passo, e applausi e fischi s’alternavano secondo che le finestre illuminavansi o restavano serrate e buie com’erano. Dinanzi a una bottega di merciaio, la fiumana dei manifestanti s’arrestò un momento: «Le torce!… Le torce a vento!…» E tutte quelle che si trovarono furono distribuite e accese immediatamente. La luce fosca, fumosa si rifletteva contro le case, illuminandole, strappando vivi bagliori ai vetri delle finestre; sul mare delle teste fazzoletti e cappelli s’agitavano; la banda eccitava l’entusiasmo sonando a tutto andare la marcia reale e l’inno di Garibaldi; e le grida echeggiavano più forte, più alte, più spesse intorno all’onorevole:

«Viva Roma!… Viva l’Italia!… Viva Oragua!…»

A un tratto la dimostrazione s’arrestò nuovamente come se qualcuno le contrastasse il passo, e un vario vocìo si levò:

«Ancora!… Avanti!… Abbasso!… Morte!… Chi è?… Che c’è?…»

Da un vicolo era sbucato un frate: alla vista della tonaca i dimostranti che andavano innanzi s’erano fermati e gridavano sul muso al malcapitato:

«Abbasso i preti!… Abbasso le tonache! Viva Roma nostra!…»

Il frate, livido in volto, con gli occhi spalancati, guardò un momento la folla minacciosa e urlante; di repente, alzò le braccia, gridando anche lui, scompostamente:

«Eh!… Eh!…»

«È il matto… lasciatelo andare!…» esclamarono alcuni; ma pochi udirono l’avvertimento, e la folla si mise in moto gridando:

«Morte ai preti!… Abbasso il temporale!… Abbasso!… Morte!…»

Don Blasco, allungato il collo, riconobbe fra’ Carmelo, un altro degli Uzeda ammattito, il bastardo che a dispetto della fede di battesimo si rivelava anch’egli della famiglia. E il professore, alla vista della tonaca, se era un energumeno, inferocì come un torello al rosso:

«Morte ai corvi!… Giù i tricorni: viva il pensiero laico!… Abbasso l’ultramontanismo!…»

Il pazzo, alla luce fantastica delle torce, continuava a gestire scompostamente, a gridare: «Eh!… Eh!…» senza riconoscere l’ex paternità di don Blasco, il quale, per non esser da meno del professore che gl’intronava le orecchie, vociava anche lui:

«Abbasso!… Morte!… Abbasso!»

Parte terza

1

«Signore onorandissimo,

«L’origini nommenché l’istoria della patria nobiltà sapere, tornar’in mente non dev’a ciascuni, specie in ta’ tempi che la vengon stimando da sezzo, in quella vece che tuttosì dagli esteri ammirando si viene. Da ricapo narrarla, dopocché il Mugnos, il Villabianca ed altri famosi a sé recarono immortalità sbrancandone quel denso velo, chiarirsi potrebbe un fuor’opera; se quei valentuomini, per legge di natura, arrestati non fossers’ ai tempi che vissero. Ma, senzaché il proseguiment’insin’a nostri ultimi giorni, un altr’oggetto ne rischiara la convenienza; vogliam dir la rarezza di quell’oper’insigni, cui non a tutt’è dat’acquistare. Quind’è perciò, all’oggettocché tra le mani dell’universale una nuov’opera messa in giornata ne gisse, abbiam divisato dettarla. E attalché non ci s’imputi in superbia a tant’impres’azzardarci, non vogliamo far senza di porre qui bocca sulla scienza che dell’araldiche discipline noi succhiammo una col latte, sì come quelle ch’a discendente di non ultima, tra le sicole blasonate famiglie, famiglia, più convenissero. Lusingarci da indi possiamo che, la mercé d’uno studio indefesso, nommenché la paziente compulsione d’archivi importanti e zeppati di documenti solo noi dato esaminare, saracci dato fornire l’assunto come disse il Poeta, senza infamia sicuro, forse con lode.

«Comecché cultore d’istoric’istudii ed amante delle patrie glorie, Vostra Signoria Onorandissima, echeggiando al nostro proposito, negar non vorrane il suo ambito concorso; laonde viviamo fidenti della sua firma nella scheda dove le soscrizioni si ammozzolano. Bassa idea di guadagno non spronaci, laddiomercé not’essendo non averne poi uopo; nonperoddimanco onde coprire in parte le pure semplici spese, abbisognamo il suo appoggio. Delché dormiam’in guanciali.

scheda di soscrizione all’opera

del cavaliere don Eugenio Uzeda dei principi di Francalanza e Mirabella, duchi d’Oragua, conti della Lumera, etc., etc.; già Gentiluomo di Camera (con esercizio) di Sua Maestà il Re Ferdinando II; medagliato dell’ordine ottomano del Nisciam-Ifitkar da Sua Altezza il Bey di Tunisi, membro di varie Accademie, etc., etc., intitolata:

 

l’araldo sicolo

consistente nell’istoria documentata dell’origini, sort’e vicende delle Nobili Famiglie Siciliane da’ tempi più oscuri infino al giorno d’oggi: ben tre volumi, di cui il primo testo, il secondo alberi genealogici, il terzo stemmi. Usciranno una dispensa ogni mese. Prezzo d’ogni dispensa: lire due. Associazione all’opera completa, lire cinquanta. – N.B. Chi procura sei soscrizioni avrà diritto a pubblicare il proprio albero genealogico. Chi ne procura dodici avrà tuttosì lo stemma colorato.»

Questa circolare, diffusa a centinaia e centinaia di copie, provò ai concittadini del cavaliere don Eugenio che egli era ancora tra i vivi. Nessuna notizia di lui arrivava più da anni; sulle prime aveva scritto ai parenti chiedendo quattrini in prestito per grandi e sicure speculazioni; ma poiché gli rispondevano picche, aveva finalmente smesso. Che cosa avesse fatto tanto tempo, dove fosse stato, non seppe nessuno. Nessuno di quelli che andavano a Palermo lo vide mai, nessuno udì parlare di lui, e insomma l’ignoranza dei fatti suoi fu così grande, che molti avevano supposto fosse passato zitto zitto al mondo di là. La posta non aveva finito di distribuire il manifesto dell’Araldo sicolo, che arrivò l’autore in persona.

Mancava da tanti anni, ed era naturalmente invecchiato, toccando ormai la sessantina; ma stranamente imbruttito, anche, e quasi irriconoscibile. Sul viso dimagrito ed emaciato il naso sembrava essersi allungato, come una tromba, una proboscide, un’appendice flessibile atta a frugare in mezzo al letame; la caduta dei denti, affossando la bocca, aveva contribuito anch’essa a quell’apparente crescenza che dava a tutto il viso un aspetto basso, ignobile e quasi animalesco. Indosso, la sordidezza della camicia e dell’abito a coda, troppo lungo e troppo largo, con un panciotto che era stato bianco e l’untume del cappello che pareva sudasse dal troppo caldo, lo facevano prendere per un servitore di trattoria o per un bigliardiere di bisca; la gotta che gli tormentava i piedi lo costringeva ad un’andatura storta e strisciante. Prese alloggio in un albergo d’infimo ordine; ma alle prime persone alle quali si diede a conoscere – giacché nessuno lo riconosceva – egli disse che non aveva trovato camere disponibili al Grand Hotel e che, partito improvvisamente da Palermo, non aveva potuto portare con sé i bauli… i bàuli, come pronunziava.

La sua prima visita fu pel capo della famiglia; ma, giunto dinanzi al portone del palazzo, vide con stupore che era chiuso, col solo sportello aperto. Datosi a conoscere come zio del padrone al nuovo portinaio che lo squadrava da capo a piedi, sentì rispondersi che non c’era nessuno: né il principe, né la principessa, né Consalvo: partiti tutti: il signorino in viaggio da quasi un anno, i padroni per togliere dal collegio la signorina e farle vedere un po’ di mondo. Non bene persuaso, come uno avvezzo ad esser mandato via, il cavaliere alzava gli occhi alle finestre, pareva voler guardare a traverso i muri, quando s’udì salutare:

«Eccellenza?… Vostra Eccellenza qui?»

Era Pasqualino Riso, il cocchiere. Anche lui era andato giù, non sfoggiava gli abiti eleganti, gli anelli e le catene d’oro d’un tempo.

«Tutti partiti, Eccellenza… La casa è vuota!»

«Quando torneranno?»

«Non sappiamo, Eccellenza; forse per le vendemmie, i padroni…» «E il principino?»

«Ah, il principino non per ora…»

Don Eugenio, i cui occhietti luccicavano di curiosità sul viso affamato, s’accomodò sulla seggiola senza spalliera che il portinaio teneva dinanzi all’uscio del suo stanzino, domandando:

«Perché? Che c’è di nuovo?»

E a poco a poco, Pasqualino rivelò la verità. Il signorino non poteva più stare in casa, almeno per un certo tempo, a cagione dell’urto continuo col padre. Dai tanti dispiaceri, il signor principe era caduto ammalato. Quanto a don Consalvo, non si poteva dire che s’affliggesse tanto da farne una malattia, ma neanche lui doveva ingrassare a furia di dissapori e di diverbi; il meglio perciò era che se ne stesse un pezzo lontano… Così il principe avrebbe trovato tempo di placarsi, di persuadersi che, in fin dei conti, il figliuolo non aveva ammazzato nessuno! L’accusavano di non interessarsi alle faccende dell’amministrazione, di trattar male la madrigna? «Ma Vostra Eccellenza sa com’è fatto il signor principe: piuttosto che dare ad altri i registri dei conti o le chiavi della cassa, si lascerebbe tagliare tutt’e due le mani!… Alla principessa il signorino non vuol bene come una madre, questo è vero: madre però ce n’è una sola: dico bene, cavaliere? La madrigna basta che la rispetti; e rispettarla, la rispetta…» La ragione vera del dissenso era pertanto un’altra: che il signor principe non voleva metter fuori quattrini, e il principino invece spendeva da signore… Perciò il signorino aveva firmato qualche cambialetta; e ogni volta che i creditori ne presentavano una al signor principe, pareva, Dio ne scampi e liberi tutti quanti, che gli pigliasse un accidente secco. E voleva perfino farlo arrestare, come se una cosa simile potesse dirsi per puro semplice scherzo, in casa Francalanza!

Fatto un gesto d’indignazione, Pasqualino prese un’altra seggiola nel bugigattolo, e sedette accanto al cavaliere, il quale, scrollando gravemente il capo, trasse di tasca mezzo sigaro spento e chiese un cerino al cocchiere. «Allora, Vostra Eccellenza permette?…» E accesa la sua pipa riprese il filo del discorso. Per chi dunque aveva ammassato tante ricchezze, il signor principe? Per se stesso, no; giacché non ne godeva; per la figlia, neppure; perché, una volta maritata, la signorina Teresa avrebbe preso la sua dote e buona notte; dunque, pel figlio. Allora, perché tenerlo a corto di quattrini? Un giovanotto come il principino di Mirabella aveva bisogno di tante cose; doveva, per necessità, far tante spese!… Il padrone non lo capiva, lui che, giovane, era vissuto da monaco. «Ma siamo tutti fatti ad un modo?» E poi, i tempi erano mutati: i signori dovevano spendere, se volevano essere considerati; se no, il primo ciabattino arricchito si reputava da più di loro!… E nel rammarico di non poter più guadagnare come un tempo sulle spese intime del padroncino, Pasqualino qualificava arditamente di porcherie le lesinerie del principe: diceva che per una lira colui avrebbe rinnegato il figliuolo; lasciava intendere, per trarre dalla sua il cavaliere, che il capo della casa, se fosse stato un altro, avrebbe dovuto aiutare i parenti che non erano ricchi quanto lui… Don Eugenio, fumando e sputando, con le gambe magre da don Chisciotte accavalciate, chinava il capo, dava ragione al cocchiere, si dava ragione da sé: «Io l’avevo detto… così non poteva durare… mio nipote ha un certo modo!…»

Al fresco del vestibolo la conversazione si prolungava: padrone e servo discorrevano intimamente, da pari a pari, mescolando il fumo della pipa e del sigaro; anzi, quantunque Pasqualino non fosse elegante come un tempo, pure sembrava il padrone, e don Eugenio il creato. Il guardaportone, tra scandalizzato ed invidioso della confidenza che il cavaliere accordava al cocchiere, spasseggiava dignitosamente dinanzi all’entrata, con le mani sul dorso del soprabitone gallonato.

«Chi è quel pezzo di straccione?» gli domandavano i commessi dell’amministrazione, uscendo dopo il lavoro.

«Uno zio del signor principe, dice!»

E, tutto sommato, fu la miglior accoglienza che ebbe il povero don Eugenio. Il domani egli cominciò il giro dei parenti che erano in città: andò prima di tutti dal fratello don Blasco.

Il monaco pareva sul punto di scoppiare: il pancione gli s’era imbottito di lardo e la testa ingrossata; il mento si confondeva con la massa gelatinosa del collo. Non poteva muoversi, per l’enormezza della persona, per la fiacchezza delle gambe; e accanto a lui donna Lucia, la moglie di Garino, sembrava svelta e leggiera.

«Perché sei tornato?» disse al fratello, appena lo vide entrare ed a modo di saluto. Aveva infatti ricevuto la circolare dell’Araldo sicolo, e comprendendo da quella che l’autore doveva aver l’acqua alla gola metteva le mani avanti, per evitare richieste di sussidi.

«Sono venuto per poco,» rispose don Eugenio; «prima di tutto per rivedervi, e poi per fare associati all’opera di cui ti ho mandato il manifesto…»

E cominciò a enumerare gl’insigni sottoscrittori: Sua Altezza il Bey di Tunisi, i vizir della reggenza, i più gran signori palermitani; il principe d’Alì, il marchese di Lojacomo, il duca tale e il conte tal altro.

«E?…» fece il monaco, quasi per dire: «Perché vieni a contarmi queste storie?» senza neppur domandare al fratello: «Sei stato a Tunisi? Che sei stato a farci?»

«Ho pure le firme di venti municipi, di trenta società, di otto biblioteche. L’affare è magnifico. A conti fatti, dedotte le spese di stampa, carta, posta, etc. con le sole soscrizioni sinora raccolte il guadagno è assicurato. Ma debbo ancora girare mezza Sicilia per fare associati. Se arriveremo a trecento, resteranno diecimila lire nette.»

«E?…»

«Io ti vorrei proporre di stampare insieme il libro.»

Il monaco lo guardò fisso nel bianco degli occhi.

«Sei pazzo?»

«Perché? O non credi forse che ci sia da guadagnare? Ti faccio i conti in quattro e quattr’otto, ti faccio vedere le firme raccolte…»

«Non voglio veder niente! Credo benissimo e ti ringrazio tanto. Tieni per te le diecimila lire.»

Il cavaliere ebbe un bell’insistere, col tono persuasivo e insinuante d’un sensale o d’un mezzano, e un bello sgolarsi per dimostrare a luce meridiana l’eccellenza della sua proposta; don Blasco continuava a rifiutare, dapprima seccamente, poi alzando la voce, poi gridando perché quel seccatore gli si togliesse dai piedi.

«Allora… se non vuoi correre i rischi dell’affare… fammi un favore… I soscrittori non pagano anticipatamente; m’occorre una somma per cominciare la stampa. Prestami un migliaio di lire…»

«Non le ho.»

«Ti cederò le firme più sicure, le sceglierai tu stesso…»

«Non le ho.»

Il cavaliere non si scoraggiava neppure adesso. Ridusse la domanda da mille a ottocento e poi a cinquecento lire; poiché il monaco continuava a rispondere, cantilenando dall’impazienza: «Non le ho, non-ho-de-na-ri… come debbo dirtelo?…» don Eugenio concluse, pacatamente:

«Allora aspetterò finché sarai comodo… Non ho fretta: prima debbo compire la soscrizione… poi ti porterò a veder le schede, le domande, i manifesti…»

Sperando di riuscir meglio con la sorella, il cavaliere andò a rinnovare il tentativo con donna Ferdinanda. Asciutta e verde come un aglio, la zitellona pareva sfidare il tempo, gli anni le passavano addosso senza mutarla: ne aveva oramai sessantadue e non ne mostrava più di cinquanta. Solo le mani le si coprivano di rughe e si spolpavano e s’irruvidivano a contar denari, come a lavorare il ferro od a zappar la terra. Anche lei aveva ricevuto la circolare dell’Araldo sicolo: ma, vedendo il fratello, cominciò a chiedergli notizie della sua salute, di Palermo, delle persone che conosceva in quella città; ascoltando con interesse i discorsi interminabili del cavaliere che, incoraggiato da quelle buone disposizioni, nominava un mondo di persone colle quali era come «fratello», ne narrava i casi con tanto interesse come se fossero occorsi a lui in persona: «la separazione del duca Proti, tanto amico mio… quella pazza della baronessa non mi volle dar retta… io al principe l’avevo detto: caro Emanuele, pensaci bene…» Le chiacchiere tiravano in lungo, perché donna Ferdinanda gli dava la corda, ed il cavaliere non ne aveva neppur bisogno, felice di mentovare le sue grandi relazioni palermitane.

«E non sai la più bella notizia? La figlia della Palmi è sposa!»

«Sì? E con chi?»

«Col mio amico Memmo Duffredi, Duffredi di Casàura, il nipote di Ciccio Lojacomo: la prima nobiltà di Palermo e parecchi milioncini di proprietà…»

«Ma davvero?»

«Una gran fortuna per la ragazza! Quell’intrigante del barone ha combinato ogni cosa ed ha preso Memmo in trappola… Naturalmente, come parente, non potevo dir questo, altrimenti sarei andato da Ciccio per avvertirlo: “Tuo figlio può trovare un partito migliore…” E poi, quella ragazza ha un certo fare… Basta; io non ho parlato, tanto più che giusto quando si combinava la cosa, ero a Tunisi…»

«Ah, sei stato a Tunisi? E per fare che cosa?»

«Che cosa?… Niente!… Per diporto…» egli tossicchiava un poco, tuttavia, imbarazzato, quasi confuso. E poiché donna Ferdinanda continuava a fargli domande, per sapere se Tunisi era una bella città, quanto tempo c’era stato e via discorrendo, il cavaliere, quasi risolvendosi, disse finalmente:

«Ci fui anche per raccogliere soscrizioni alla mia opera, sai…»

 

«Opera?» fece la zitellona, con atto di meraviglia. «Qual opera?»

«Come, non hai ricevuto il manifesto?»

«Io non ho ricevuto niente…»

«L’Araldo sicolo?… la storia della nobiltà?…»

«Tu?… Tu stampi un’opera?… Ah! ah! ah!…»

E scoppiò in una di quelle sue rare risate che pungevano nel vivo. Don Eugenio, che aveva sostenuto imperterrito tutti i rifiuti del monaco, si sconcertò all’ilarità della sorella.

«Perché?» domandò, tentando di rialzare la propria dignità di cui donna Ferdinanda faceva ludibrio con quelle rise indecenti. «Non sono forse buono a scriverla, come tanti altri?…»

«Ah! ah! ah!..»

E la risata non finiva. Quando il vecchio spiegò che libro aveva scritto, essa divenne più fine, più ironica, più tagliente. Una storia della nobiltà dopo il Mugnòs e, il Villabianca? Per ficcarci dentro gli arricchiti che si facevano dare del cavaliere e del marchese? La nobiltà autentica era tutta scritta nei libri antichi!… E il cavaliere tentava almeno di dimostrare la bontà della speculazione: ma la zitellona non gli dava quartiere: guadagnare con la carta sporca? Per chi mai la carta sporca ha avuto valore, fuorché pei pizzicagnoli? E chi avrebbe comprato un libro di lui? Si sarebbero messi a ridere, come rideva lei! Le firme? Le avevano date per levarselo di torno! Bisognava vedere quanti avrebbero poi pagato!…

«Almeno, mi presti qualche centinaio di lire?»

«No, perché non me le restituiresti.»

E ogni altra insistenza fu inutile.

Andato a ripetere il tentativo dalla nipote Chiara, don Eugenio non poté neppure vederla: la cameriera gli disse che il marchese era fuori e la marchesa chiusa in camera col dolor di capo.

«Dille che c’è suo zio.»

«Vostra Eccellenza scusi; ma quando ha il dolor di capo, nessuno può parlare alla signora marchesa.»

E facendo il cavaliere un atto d’impazienza, la donna mormorò, guardandosi attorno:

«Eccellenza, c’è guai!»

«Che guai?»

«La marchesa… ma signor cavaliere, per carità, non mi faccia perdere il pane!… Pazza pel marito, è vero, Eccellenza? Tutt’una cosa; quello che voleva il signor marchese era legge per lei… Né il padrone ne abusava: d’amore e d’accordo in tutto e per tutto… Adesso? Adesso non c’è più pace, per quel figlio di… chi so io! Un diavolo dell’Inferno, Eccellenza; e la padrona, che non ci vede dagli occhi, dal tanto bene che gli vuole, lo lascia fare, lo difende contro il padrone… Litigano tutti i giorni, perché il signor marchese vorrebbe correggerlo, insegnargli l’educazione, obbligarlo a studiare; e invece la nipote di Vostra Eccellenza se la prende col padrone perché le maltratta il ragazzo… Ieri vennero alle grosse; non si parlano da ventiquattr’ore… Il signor marchese è uscito di casa all’alba… chi sa se torna!»

E, per quanto insistesse, don Eugenio non poté persuadere la cameriera ad affrontare il malumore della padrona portandole l’ambasciata.

Allora egli andò a battere alla porta dei Giulente. Arrivò da loro sull’annottare, dopo una giornata di corse. Benedetto non c’era e Lucrezia non si riconosceva più, tanto s’era trasformata ed imbruttita. Il corpo era diventato un sacco di carne, dove non si distinguevano piu né seno, né vita, né fianchi; il viso, dalla continua acrimonia che la animava, dall’inguaribile scontento della propria condizione, era divenuto duro, arcigno, inaspettatamente rassomigliante a quello del principe. E il primo discorso che tenne allo zio, rivedendolo dopo tanti anni, fu giusto contro Benedetto.

«Non c’è; non sta mai in casa. Adesso che non è più sindaco, s’è fatto nominare presidente del Consiglio provinciale. Per amor della patria, Vostra Eccellenza mi capisce!… Più invecchia, e più bestia diventa. È un pazzo! Ma la disgrazia è che fa impazzire anche me. Dopo vent’anni,» ella calcolava il tempo a modo suo, «un altro che non fosse tanto bestia avrebbe capito l’inutilità di fare il servitore a questo e a quello. Invece, pare l’uovo al fuoco: più sta e più indurisce! Vuol essere deputato; per che cosa, domando io? Dopo che sarà deputato. che cosa avrà buscato? A fare il sindaco ha guadagnato questo: che nessuno lo può vedere, neppur quelli ai quali ebbe la stupidaggine di rendere servizio! Bene gli sta!…»

Verso la propria famiglia ella aveva ancora quel misto d’astio, di invidia e di premura, secondo che il vanto di farne parte, il dolore d’averla lasciata o il sospetto d’esserne ripudiata predominavano nel suo cervello. Anche ora, parlando del viaggio del principe, ella ripeteva con insistenza che il fratello e la cognata le scrivevano ogni due giorni, e riferiva il contenuto delle loro lettere, annunziava il loro ritorno per l’autunno; poi cominciava a criticare ed a malignare:

«Hanno fatto bene a prender essi stessi Teresina dal collegio, e a farla viaggiare… Mia cognata è un’altra madre per questa figliastra!… Dal tanto amore, l’ha tenuta due anni più del bisogno in collegio, per farne una letterata. Graziella s’intende molto di letteratura!…»

Però, subito dopo soggiunse:

«Vostra Eccellenza non ha visto l’ultimo ritratto di Teresina?.. No?… Aspetti… vedrà che bellezza; me l’hanno mandato due mesi addietro… Di Consalvo però,» riprese dopo che ebbe mostrato il ritratto allo zio, «né nuova né vecchia… come se non fosse loro figlio anche lui… Senza le lettere che scrive alla zia, non sapremmo se è vivo o se è morto… Adesso dice che è a Parigi. È stato a Berlino, a Londra, a Vienna…»

Il cavaliere non l’udiva, rimuginando il discorso da tenerle. Appena la nipote fece una pausa, egli espose la speculazione ideata, che riuniva l’immancabile riuscita finanziaria alla nobiltà dello scopo. Ma Lucrezia:

«Storia della nobiltà?» replicò. «Dov’è più la nobiltà? Che storia vuole scrivere Vostra Eccellenza? Adesso sono in favore i lustrascarpe, non i nobili! Per esser considerati, bisogna venire dal niente! Scriva piuttosto la storia dei villani e dei mastri notari; in quella sì che c’è da guadagnare!…»

Imperturbabile, don Eugenio ricominciò il giorno seguente. Dai Radalì-Uzeda trovò il duca Michele e il barone Giovannino; la duchessa era fuori di casa. Michele, a venticinque anni, perdeva i capelli e pareva vecchio del doppio; Giovannino era invece più grazioso di prima, fine, elegante. Udita la richiesta del parente, entrambi risposero che solo la madre gli avrebbe potuto dare risposta. Il giorno dopo il cavaliere tornò a parlare con la duchessa, e questa cadde dalle nuvole:

«Io stampar libri? E come mai vi viene in testa una cosa simile? So molto di queste cose, io!»

E don Eugenio ci rimise le pedate.

Ma egli non si perdette d’animo. Dai lontani parenti passò agli amici, ai semplici conoscenti, alle persone che incontrava per istrada e che fermava col pretesto di rivederle e salutarle. Cominciava a riferire, come se le avesse avute direttamente, le notizie del principe e di Consalvo apprese da Lucrezia, s’addolorava per la lite fra padre e figliuolo, annunciava il ritorno della principessina, che diceva d’aver visto a Firenze: «una bellezza da sbalordire!…», e poi parlava del suo soggiorno di Palermo, descriveva l’appartamento di dieci stanze che aveva abitato sul Cassaro, drappeggiandosi maestosamente nell’abito lercio e sdrucito che diceva la miseria, la fame, le ignobili promiscuità; riferiva ancora il viaggio di Tunisi, l’onorificenza beilicale ma senza spiegare a qual titolo l’avesse ottenuta, che cosa avesse precisamente fatto alla corte di Sua Altezza; e quando aveva bene intontito la gente con tutti quei discorsi, domandava a bruciapelo:

«Avete ricevuto il mio manifesto?»

E riesponeva il concetto dell’opera, enumerava le adesioni ricevute: ogni volta, queste crescevano di numero: le firme dei privati salivano da duecento a trecento, a quattro, a cinquecento; quelle dei municipi sommavano a cinquanta, a settanta, a novanta; le biblioteche si moltiplicavano da un momento all’altro. Mille sottoscrittori erano già sicuri, un altro migliaio non potevano mancare. E offriva la compartecipazione, si restringeva all’anticipo, da ultimo dichiarava di contentarsi di dodici firme, di sei, anche di una. Per levarselo di torno la gente prometteva ambiguamente; ma egli prendeva nota dei nomi in un suo portafogli unto e squarciato, unicamente imbottito di circolari e di schede, delle quali faceva nuove distribuzioni, ficcandole in tasca a chi rifiutava col gesto, raccomandando di diffonderle, di riempirle al più presto… Dopo una giornata di lavoro, nel momento che stava per rientrare nell’albergo, incontrò Benedetto che ne usciva.