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I Vicere

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Consalvo non aveva detto una sola parola, non aveva fatto un gesto durante la sfuriata del principe. Questi aveva un bell’arrestarsi, dopo un’interrogazione o una esclamazione, quasi per dargli il tempo di rispondere qualcosa, di giustificarsi: in piedi presso la finestra, il giovanotto guardava nel cortile di servizio le carrozze tirate fuori dalle rimesse e i famigli intenti a ripulirle: se fosse stato solo nel suo salottino non sarebbe rimasto più impassibile. Ma alle ultime parole del principe, si voltò lentamente.

«Mia madre?»

Aveva sul volto un’espressione indefinibile, di curiosità, di stupore, di dubbio, dominata da un sorriso tenuissimo, di soli occhi.

«Mia madre?… Mia madre è morta. Lei lo sa meglio di tutti.»

Il principe tacque, guardandolo. A un tratto s’udì un fruscio di gonne, e la principessa Graziella, avvertita dalla cameriera che aveva udito le voci, entrò:

«Che c’è? Che cosa avete?…»

Consalvo si mise le mani in tasca e senza dir nulla passò nella camera attigua. Il principe si lasciò condurre via dalla moglie.

Per molte settimane padre e figlio non scambiarono più una parola. L’affare del debito, risaputo dai parenti, divise in due campi la famiglia. Il duca, che non perdonava ancora al pronipote l’imbarazzo in cui l’aveva messo, sosteneva il principe, l’incitava a non cedere, a lasciar protestare la cambiale; Giulente anche lui giudicava necessario dare un po’ di paura al giovanotto, perché niente avrebbe poi potuto arrestarlo nella via dei debiti, se il principe decidevasi a pagare il primo; ma Lucrezia, pel gusto di contraddire al marito, per dare una lezione di munificenza a quel pezzente che giudicava tutti alla sua stregua, esclamava che Consalvo aveva il diritto di svagarsi; che seimila lire per il principe di Francalanza erano come dieci lire per Giulente, e che in casa Uzeda per nessuna ragione al mondo poteva darsi lo scandalo d’un protesto. Donna Ferdinanda, manco a dirlo, se la prendeva con l’avarizia del principe, che non dando abbastanza al figliuolo lo costringeva a ricorrere al credito, e Chiara dava un poco ragione agli uni e un poco agli altri, secondo l’umore di Federico. Quanto a don Blasco, che da un pezzo era diventato invisibile, un bel giorno venuto al palazzo, cominciò a prendersela non solo contro Consalvo pei debiti e per la condotta scandalosa, ma anche contro il principe e la principessa, alla cui debolezza attribuiva lo sfrenamento di Consalvo.

«La colpa è tutta vostra! Questo non è il modo d’educarlo! Pagargli i debiti? Alzargli la mangiatoia, bisogna!…» E, senza nominarla, si scagliò contro donna Ferdinanda, dandole della bestia a tutto spiano, perché coi vezzi che gli aveva fatti ella era l’origine prima della mala creanza del principino.

Donna Ferdinanda riseppe il discorso tenuto dal monaco nello stesso tempo che il suo sensale le dava una notizia strepitosa: don Blasco, non contento d’aver comprato la tenuta di San Nicola, aveva preso dal Demanio, giusto in quei giorni, una delle case appartenenti al convento: il palazzotto di mezzogiorno, l’antica abitazione della Sigaraia; armeggiando così bene, da farselo aggiudicare per un boccon di pane. Allora, apriti cielo.

«Anche la casa?» gridò la zitellona. «Io l’ho sempre detto che è un porco, un vero maiale! E fa la voce grossa con gli altri, dopo quello che ha sulla coscienza!… Che gli estranei comprino i beni del convento, si capisce: non hanno nessun obbligo; ma lui? che se non l’avessero fatto monaco sarebbe morto di fame? che s’è ingrassato a spese della comunità?…»

«O non era quello,» rincaravano nella farmacia di Timpa, «che voleva mangiarsi i liberi pensatori e bandire una nuova crociata addosso agli usurpatori scomunicati e ridare la roba loro al Papa ed a Francesco ii?»

Ma a don Blasco importava adesso un fico secco se il Re chiamavasi Francesco o Vittorio; ché, entrato nella casa di San Nicola, ci stava da papa: le botteghe le aveva affittate a buoni patti, ed il primo piano anche, a un professore che dava lezioni nella scuola tecnica istituita nel convento. Scrupoli egli non ne provava; perché anzi, se tutti i monaci avessero imitato il suo esempio, accaparrando le proprietà del monastero invece di sciupare i quattrini che ne avevano portato via, i beni di San Nicola non sarebbero andati in mano di estranei. «Questo era il vero modo di riparare all’abolizione e non le vociate inutili e ridicole. Ricompràti i beni da tutti i monaci, l’avremmo fatta in barba al governo!»

Egli se la pigliava ancora con questo governo, specialmente per via delle tasse che gli faceva pagare; però, siccome i fedeli alla causa della reazione predicevano la fine della baldoria e il ritorno allo stato antico e la restituzione del maltolto alla Chiesa, il monaco protestava:

«Come, il maltolto? Io ho pagato il Cavaliere e la casa con bei quattrini sonanti; ho affrancato il censo, avete capito?… Me li hanno regalati, o li ho rubati, perché possano riprenderli?»

«Non dovevate comprarli, sapendone la provenienza! E arriverà il giorno della resa dei conti, del Dies irae: non dubitate!…»

«Chi? Che? Chi ha da venire?…» gridava allora il monaco. «Verrà un cavolo!»

«La mano di Dio arriva da per tutto!… Le vie della Provvidenza sono infinite!…»

Le liti ricominciavano ogni dopo pranzo: quei borbonici e clericali ricevevano certi fogliacci dove la fine della rivoluzione era data come certa ed imminente: gli articoli letti ad alta voce, ascoltati come il Vangelo, applauditi ad ogni periodo, facevano andare in bestia il Cassinese. Un giorno che la brigata, dopo una di quelle letture, gli diede addosso con maggior vivacità del solito, don Blasco s’alzò, fece un gesto molto espressivo, gridò un: «Andate a farvi!…» e se ne uscì per non metter più piede dallo speziale. Il pomeriggio, passando dinanzi alla bottega, affrettava il passo, guardando dritto dinanzi a sé, e se c’era gente seduta al limitare, traversava la strada, per passare dal marciapiede opposto. Egli non metteva neppur piede al palazzo, dove quell’usuraia della sorella gracidava anche lei contro i compratori dei beni ecclesiastici come se fossero altrettanti ladri, e dove quell’altro pezzo di Gesuita di Giacomo gli faceva la corte adesso che lo sapeva ricco, ma non dava torto alla zia.

«Vorrebbe che lasciassi a lui il Cavaliere!» gridava in casa alla Sigaraia, a Garino e alle figliuole. «A prenderlo da me, di seconda mano, non avrebbe scrupoli! Ma gli vorrò lasciare trentasette mazzi di cavoli, a cotesto Gesuita e ladro!»

La Sigaraia, Garino e le ragazze approvavano, rincaravano la dose, parlavan male al monaco di tutta la parentela, affinché egli lasciasse loro ogni cosa. E lo servivano come un Dio, si precipitavano ad un suo cenno, camminavano in punta di piedi quand’egli riposava, gli tenevano compagnia fino a tarda notte se non aveva sonno, lo accompagnavano al Cavaliere, gli lodavano le sue colture, le sue fabbriche, la riuscita di tutte le sue speculazioni.

Una di queste, però, era venuta corta al Cassinese. Il Cavaliere era attaccato, da levante, a un altro fondo del Demanio ancora invenduto, e la linea del confine, consistente in un’antica siepe di fichi d’India, in molti punti aveva soluzioni di continuità. Don Blasco, facendo costruire un bel muro sodo e alto, irto di rovi e di cocci di bottiglie, s’era appropriato qua e là molti ritagli di terra; a un certo angolo, dove non restavano più tracce della siepe, aveva annesso al Cavaliere un bel tratto dell’altro fondo. Ora la cosa, venuta in chiaro all’intendenza di finanza, gli aveva fatto piovere in casa certa carta bollata, per cui il monaco s’era messo a sbraitare come ai bei tempi contro i ladri italiani, e quasi quasi voleva riconciliarsi coi reazionari della farmacia.

«A me l’accusa d’usurpazione? Se la proprietà di San Nicola arrivava fino alle vigne? Vogliono insegnare a me qual era la proprietà del convento, cotesti ladri che hanno spogliato un regno?»

Garino aggiungeva il resto; ma poiché le chiacchiere non facevan andare indietro i reclami del Demanio, e una perizia avrebbe potuto legittimarli, l’ex confidente di polizia, vedendo che il monaco ci s’arrabbiava, gli disse un giorno:

«Vostra Eccellenza perché non ne dice una parola a suo fratello deputato?»

Don Blasco non rispose. Era già stato dal duca.

Da anni ed anni non rivolgeva più la parola al fratello, da un tempo più lungo ancora lo vituperava in pubblico e in privato; don Gaspare dunque rimase, vedendoselo apparire dinanzi. Il monaco entrò nello scrittoio del fratello col cappello in testa, come a casa propria; disse: «Ti saluto», col tono di chi vede una persona lasciata il giorno innanzi e si mise a sedere. Il duca, passato il primo momento di stupore, sorrise finemente, dicendogli con lo stesso tono: «Che abbiamo?» e il monaco entrò subito in argomento.

«Sai che ho comprato il Cavaliere da San Nicola? Non c’era più la linea del confine e feci alzare un muro. Per questo il Demanio m’accusa d’usurpazione!..»

Il duca continuava a sorridere in pelle in pelle, godendosela, e poiché il monaco taceva, credendo di non aver bisogno d’aggiunger altro, egli che voleva avere la soddisfazione di sentirsi richiedere d’aiuto da quell’arrabbiato che gli aveva mossa tanta guerra, fece:

«E…?»

«Non si potrebbe parlare a qualcuno?»

Non era precisamente quel che s’aspettava; ma il duca, in fondo, era un buon diavolo, non aveva il fiele del principe e del Priore, e se ne contentò.

«Va bene. Torna domani con le carte.»

Così, con immenso stupore di tutta la parentela, furon visti i due fratelli andare insieme su e giù per le scale dell’intendenza, della prefettura, del genio civile e del catasto. In pochi giorni la cosa fu avviata bene; ma il duca suggerì al Cassinese una soluzione più radicale:

«Perché non compri addirittura l’altro fondo?»

 

«E i danari?»

«I danari si trovano!»

Egli li prendeva dalle banche delle quali era amministratore: con essi speculava sui fondi pubblici, riscattava le proprietà prese dalla manomorta, ne comperava di nuove; adesso, per stare anche lui da sé, faceva fabbricare una grande e bella casa in via del Plebiscito… Per suo mezzo, don Blasco fu ammesso allo sconto alla Banca dei Depositi e Crediti, e una cambiale di venticinquemila lire del monaco passò. Il Cavaliere, ingrandito di quasi il doppio, divenne così una proprietà ragguardevolissima, «un vero feudo» diceva Garino, il quale adesso esaltava il duca, i suoi talenti, la potenza a cui aveva saputo arrivare: ma i ciarlatani della farmacia borbonica sbraitavano più di prima e profetavano imminente il giorno in cui don Blasco e gli altri sacrileghi avrebbero dovuto restituire il maltolto. Il monaco li lasciava cuocere nel loro brodo e non passava più nel tratto di strada dov’era la farmacia, ché solo a vederli da lontano gli facevano venir da recere. Però, alla lunga, la mancanza della conversazione gli pesava, e una domenica, incontrato per le scale il professore suo inquilino, lo invitò a venirlo a trovare.

Il professore diceva d’essere stato garibaldino, narrava il fatto d’Aspromonte, non parlava d’altro che di cospirazioni e minacciava anche lui il finimondo, ma solo nel caso che l’Italia non andasse a Roma.

«Voi dunque dite che questo governo durerà?» domandava don Blasco, trepidante.

«Se farà il suo dovere! Altrimenti lo manderemo all’aria come gli altri! Gli sbirri non ci spaventano! Abbiamo visto il fuoco. Sappiamo come si fanno le rivoluzioni!»

«C’è però gente che crede si possa tornare indietro…»

«Tornare indietro? Ma bisogna andare avanti, invece! integrare l’unità nazionale! smantellare l’ultima cittadella della teocrazia, l’ultimo baluardo dell’oscurantismo!… L’umanità non torna indietro! Abbiamo sepolto il Medio Evo! Lo Stato dev’essere laico e la Chiesa tornare alle sue origini, perché come disse quel grand’uomo di Gesù Cristo: “il mio regno non è di questo mondo!”»

La conversazione dell’inquilino, quantunque di tratto in tratto gli facesse passare qualche brivido per la schiena, piaceva moltissimo a don Blasco, e un giorno anzi, mentre passava dalla farmacia Cardarella, antico ritrovo di liberali, il professore, che era lì dentro a discutere calorosamente, lo chiamò. Parlavano delle soppresse corporazioni religiose, e il professore non voleva credere che le rendite di San Nicola toccassero certi anni il milione di lire.

«Sissignore,» confermò don Blasco. «Era il più ricco di Sicilia e forse di tutto l’ex regno.»

Allora il professore si scagliò contro i monaci, i preti, i parassiti d’una società che per buona sorte s’era finalmente «seduta sopra altre basi».

Da quel giorno don Blasco prese l’abitudine di frequentare la nuova farmacia. Vi bazzicavano i liberali più arrabbiati i quali gridavano contro il governo, come quegli altri retrogradi, ma per una ragione diversa: perché era un governo di conigli, di lacché della Francia, di lustrastivali di Napoleone iii: perché perseguitava i patriotti veri e faceva il Gesuita nella questione romana. Gli rinfacciavano Aspromonte e Mentana; ma Roma doveva essere italiana a dispetto di tutti, o sarebbero scesi in piazza a ricominciar le schioppettate. «O Roma o morte!» vociferava il professore, il quale aveva sempre notizie di guerre e di moti rivoluzionari pronti a scoppiare, e don Blasco, tra le grida degli altri, sentenziava:

«Il Santo Padre dovrebbe pensarci a tempo, con le buone, e rammentarsi del Quarantotto; ché se allora non dava ascolto ai retrivi, oggi sarebbe il presidente rispettato della Confederazione italiana!»

«Con le buone?» gridava il professore. «Sante cannonate vogliono essere! il sangue di Monti e Tognetti è ancora fumante! Ci vuole il cannone per abbattere l’antro del fanatismo!»

Un giorno, entrò dal padron di casa con un’aria gloriosa e trionfante:

«Questa volta ci siamo! La guerra è pronta!»

Don Blasco, turbato dalla notizia, poiché temeva che d’una guerra fosse minacciata l’Italia, si rassicurò quando l’inquilino gli riferì che l’elezione d’un principe tedesco al trono di Spagna era considerata dalla Francia come un casus belli. «Il nostro dovere…» Ma, mentre spiegava il dovere dell’Italia, venne un servitore di casa Uzeda. Il principe mandava a chiedere notizie dello zio e nello stesso tempo l’avvertiva che Ferdinando stava molto male, e che era bene fargli una visita. Don Blasco, a cui premeva sopra ogni cosa udire il verbo del suo nuovo amico, rispose:

«Va bene, va bene; domani ci andrò…»

9

Ferdinando deperiva da un anno. Nel viso emaciato, negli occhi gialli, nelle labbra bianche, gli si leggeva da un pezzo un malessere secreto, un’intima sofferenza; ma, come s’era creduto affetto da tutti i mali quando stava benissimo, così adesso che qualcosa si disfaceva nel suo organismo, se gli domandavano che avesse, rispondeva, seccato:

«Nulla! Che ho da avere? Volete che m’ammali apposta?»

E rispose una mala parola al principe il giorno che questi gli consigliò d’andarsene un poco alle Ghiande a respirare l’aria sana della campagna. Non voleva più sentire neppur nominare la sua terra. I libri che gli erano costati tanti quattrini s’impolveravano e tarmavano negli scaffali, gli strumenti s’arrugginivano e si rompevano; solo il podere prosperava, adesso che egli non sperimentava più novità. Incaponitosi a negare le sue sofferenze, i dolori di stomaco, i disturbi viscerali, li attribuiva a cause fantastiche: alla poca cottura del pane, allo spirare dello scirocco, al fresco della sera; ma egli cadeva in una tristezza lugubre, in una funebre ipocondria. Per lunghe e lunghe giornate non diceva una parola, non vedeva anima viva: chiuso nella sua camera, buttato sul letto, se ne stava immobile a seguire il volo delle mosche; quando la crisi passava, faceva grandi scorpacciate di roba indigeribile. Una notte d’estate, il cameriere spaventato da un vomito nerastro e da una diarrea sanguinolenta, mandò il figliuolo al palazzo, per avvertire la famiglia.

All’arrivo del principe e alla proposta di mandare a chiamare un medico, l’infermo gridò che non voleva nessuno, che s’era rimesso interamente. Ma adesso tutti comprendevano che il caso era grave. Lucrezia, la compagna della sua fanciullezza, ebbe un bell’insistere per dimostrargli la convenienza di una visita medica; egli minacciò di chiudersi in camera e di non ricevere più nessuno. Ma il suo polso scottava dalla febbre. Per vincere quell’ostinazione dovettero ricorrere a un artifizio, come con un fanciullo o con un pazzo: finsero che un ingegnere dovesse rilevar la pianta della casa e introdussero così un dottore in camera sua. Il dottore scrollò il capo: la condizione dell’ammalato era molto più grave che non credessero. A trentanove anni egli se ne moriva: il sangue vecchio e impoverito dei Viceré si corrompeva, non nutriva più le flaccide fibre. Per tentar di combattere la discrasi, una cura e una dieta severissima erano necessarie; ma il maniaco non ascoltava nessuno, tanto meno i parenti. Se essi insistevano, egli gridava: «Non la volete finire?» Fittosi in capo che stava benissimo, se coloro pretendevano per forza che fosse ammalato voleva dire che desideravano, che aspettavano la sua morte. Perché? Per raccogliere l’eredità! Egli confidava la cosa al cameriere; gli diceva, quando gli Uzeda andavano via:

«Credi che costoro vengano qui per amor mio? Vengono per la roba! Un’altra volta dirai loro che non ci sono.»

Ma la sua roba era già bell’e andata. Dapprima per le speculazioni stravaganti che avevano rovinato la terra, poi per le spese matte di libri e d’ordegni, più tardi per le ruberie del fattore; quand’egli non aveva voluto veder le Ghiande neppure da lontano, s’era messo a fare qualche debituccio. Senza stupirsene, senza indagarne la ragione, si vedeva attorno gente che gli offriva denaro, dentro una certa misura, beninteso. Ed egli firmava cambialine, e le cambialine andavano a finire in mano del principe, il quale, adocchiando le Ghiande e comprendendo che quel matto non avrebbe fatto testamento, se le accaparrava a quel modo. Il maniaco, incapace di calcolare a qual tasso prendeva quei quattrini, credendosi ancora padrone della roba, era persuaso che i parenti gli stessero attorno aspettando la sua morte: appena li vedeva apparire, pertanto, voltava loro le spalle tranne che al nipote Consalvo.

Il debito di costui era stato finalmente pagato, e tutti attribuivano a donna Ferdinanda la largizione. Ma la zitellona non aveva dato un soldo. Sarebbe crepata d’accidente se avesse dovuto metter fuori non seimila lire, ma seicento, ma sessanta!… I quattrini erano stati realmente sborsati dal principe, al quale, con una generosità che edificò tutti, la principessa Graziella persuase di perdonare il figliastro. Era mai possibile che la firma del principino di Mirabella fosse protestata? Lei vivente, questo non sarebbe accaduto; piuttosto, se Giacomo si fosse ostinato a dir di no, avrebbe pagato lei del suo! Per Consalvo, come anche per Teresina, ella sentiva l’affezione d’una vera madre, quantunque non lo avesse portato in grembo e il figliastro la ripagasse così male. «Ma che ci posso fare? Non si comanda al cuore! Basta, un giorno o l’altro egli s’accorgerà che non merito simile trattamento…» Così ella aveva indotto il principe a pagar la cambiale, ma aveva pure trovato l’espediente di far credere alla generosità della zitellona, perché Consalvo non facesse assegnamento in avvenire sulla debolezza paterna. Tra padre e figlio l’avversione era cresciuta frattanto di giorno in giorno; Consalvo, per sfuggire la compagnia del principe e per darsi contemporaneamente l’aria di un sacrificato, disertava la casa paterna; ma invece di andarsene con gli amici al caffè, al club, andava dallo zio, al quale portava i giornali e leggeva le notizie politiche. L’infermo s’appassionava moltissimo alla guerra minacciata, era quello anzi l’unico tema che avesse la virtù di sciogliergli la lingua. Don Blasco, venuto finalmente a visitare il nipote, discuteva anche lui con passione intorno a quel soggetto, ripetendo gli argomenti del professore; ma il duca assicurava che si trattava d’un falso allarme e che guerra non ci sarebbe stata, con un’aria così convinta come se Napoleone gliel’avesse confidato in gran secreto.

Scoppiò finalmente la notizia della dichiarazione, e il grand’uomo esclamò allora che Bismarck e Guglielmo dovevano aver perduto la testa. O scherzavano? Attaccar Napoleone? L’esercito francese, il primo del mondo, avrebbe sbaragliato, tritato, polverizzato il prussiano, e preso Berlino fra due settimane al più tardi!… Invece, arrivarono i telegrammi annunzianti le vittorie tedesche; e allora gli avversari del deputato ripresero a sbertarlo con maggior lena. Quella bestia con la prosopopea d’un Cavour redivivo non era neppur buono di capire le cose più evidenti; smentito dai fatti, ostinavasi nella sua sciocchezza, annunziava i nuovi piani dei francesi, la loro imminente rivincita, l’intervento delle potenze!… Ferdinando, dal fondo della poltrona che adesso non lasciava più perché le gambe non lo reggevano, stava a udire quei discorsi con tanta ansietà quasi ne dipendesse la sua salute. Tremante dalla febbre, con la fronte in fiamme, una nuova fissazione sconvolgeva il suo cervello esangue: quella delle vittorie napoleoniche che egli voleva a qualunque costo. Comprata una carta del Reno, passava le sue giornate a piantar spilloni in tutti i posti francesi e spille piccole nei prussiani: col bollettino della guerra alla mano, studiava le operazioni dei due eserciti, mutava di posto i segni secondo i mutamenti reali, e a misura che le spille s’avanzavano e gli spilloni retrocedevano, la sua malattia s’inaspriva. Con voce rauca, cavernosa, spiegava quel che i francesi avrebbero dovuto fare per riottenere le posizioni perdute: improvvisava piani strategici, disegnava ogni giorno parecchi teatri della guerra, disponeva a modo suo delle divisioni e dei reggimenti, esclamando: «Questo di qua va là, quello di là va qua…» finché, stanco, abbattuto, con le mani penzoloni e la testa rovesciata, chiudeva gli occhi e schiudeva la bocca quasi fosse sul punto di spirare.

Frattanto il duca, sentendo crescere l’opposizione e venirgli meno il terreno sotto i piedi, comprendendo la necessità di far qualche cosa per rialzare il proprio prestigio, preparava un colpo di mano. Le inquietudini della guerra accrescevano il malcontento comune, gli avversari del governo se ne giovavano per gridare e minacciare più forte. L’opposizione, che nei diversi partiti e nei diversi ordini sociali procedeva da diversi motivi e tendeva ad opposti scopi, s’accordava pel momento nel chiedere a una voce Roma. Come più la fortuna della Francia precipitava, le accuse di fiacchezza e di vigliaccheria al governo fioccavano da ogni parte; le minacce di prendergli la mano parevano dovessero tradursi in atto da un momento all’altro. Ora, mentre quasi tutti i soddisfatti tenevano a bada i malcontenti e consigliavano la prudenza e navigavano tra due acque, una sera il duca, che se n’era stato nelle sue terre, si recò al Circolo Nazionale dove battagliavasi giorno e notte, ed espresse senza esitazioni il suo pensiero: era venuto il momento d’agire! Se il governo si lasciava scappare quest’occasione, non avrebbe più avuto nessuna scusa agli occhi della nazione! Egli aveva sempre combattuto le impazienze del partito avanzato, perché, se erano generose, potevano far male al paese. Oggi però i tempi erano maturi, qualunque indugio sarebbe stato una colpa inescusabile. Se a Firenze non facevano il loro dovere, egli minacciava «di scendere in piazza con le carabine, come nel Sessanta».

 

«Ah, buffone!… Ah, vecchia volpe!…» esclamavano nel campo avversario; ma, a dispetto dei suoi denigratori, quelle opinioni francamente professate e ripetute ogni giorno a chi voleva e a chi non voleva udirle sostenevano il pericolante credito del duca. Benedetto Giulente era rimasto, udendole; poiché, prevedendo che lo zio avrebbe seguito fino all’ultimo la politica dei temporeggiatori, si era messo con quelli. Rimase ancora peggio quando il duca venne a trovarlo, dicendogli che bisognava ricominciare a pubblicare l’Italia risorta, per spingere il governo sulla via di Roma: i tempi erano maturi e a non secondare la corrente si rischiava d’esserne travolti.

Benedetto, quantunque spendesse tutto il suo tempo al Municipio, mise insieme una redazione d’impiegati comunali e di maestri elementari, e pubblicò il foglio. Lucrezia fece cose dell’altro mondo contro quella bestia che voleva Roma, ora, «quasi potesse mettersela in tasca o portarla a vendere alla fiera!» Ma gli infiammati articoli di Benedetto, il quale diceva che il duca era col popolo, pronto a partire per Firenze se i governanti non volevan udire la voce del paese, procuravano all’onorevole nuova aura di popolarità.

Il giorno che arrivò la notizia della lettera di Vittorio Emanuele al Papa, arrivò pure da Roma, inaspettato ospite, don Lodovico. Egli aveva dato appena una volta l’anno notizie di sé alla famiglia, tutto intento ai doveri del suo ufficio, alla preparazione della sua fortuna che oramai era avviata. In poco più di tre anni era già segretario a Propaganda ed Arcivescovo di Nicea; Pio ix aveva molta stima di lui. Al principe, che nel primo momento lo guardò come uno piovuto dalla luna, egli disse, con tono di dolce rimprovero:

«Ferdinando è in fin di vita, e mi scrivete appena che sta poco bene? Se non fosse stato per Monsignor Vescovo, non avrei saputo la verità!»

E andò a mettersi al capezzale del fratello infermo. Questi non lasciava più il letto; quando chiudeva gli occhi, il suo viso verde e affilato pareva d’un morto; ma rifiutava i rimedi con più ostinazione di prima. Come più il suo corpo si disfaceva, gli ultimi barlumi dell’offuscata ragione si spegnevano: adesso mandava a comprare ogni giorno dozzine e dozzine di scatoline di spilloni e risme di carta e pacchi di matite. Quella roba avrebbe dovuto servirgli per tracciar piani di campagna, per infigger segnali di piazzeforti, di accampamenti e di quartieri generali; ma egli dimenticava lo scopo degli acquisti e ne ordinava sempre nuovi e gridava e smaniava se non l’obbedivano. Con evangelica pazienza, con zelo indefesso, con ammirabile abnegazione, don Lodovico vegliava l’infermo, secondava le sue manie; e frattanto – Baldassarre ne era disperato – le male lingue andavano spargendo che egli era tornato in Sicilia non per amore del Babbeo, al quale non aveva mai pensato, ma per evitare di trovarsi a Roma in quei momenti critici, per poi prender consiglio dagli avvenimenti!…

Gli avvenimenti incalzavano. I soldati italiani avevano ricevuto l’ordine d’avanzarsi nello Stato romano. L’attesa delle notizie era febbrile; il duca, domiciliato alla prefettura, apriva i telegrammi del prefetto e andava poi a diffonderli, quasi li avesse ricevuti direttamente da Lanza.

«È arrivata la fine del mondo!» gridava la zitellona da Ferdinando presso al quale la famiglia adesso si riuniva, in una stanza lontana da quella del moribondo, che non voleva attorno nessuno. E il principe scrollava il capo, e la principessa Graziella si faceva il segno della croce, intanto che Monsignor don Lodovico mormorava, con gli occhi a terra:

«Bisogna perdonar loro, perché non sanno quel si fanno…»

Lucrezia pareva una vipera contro il marito, e nessuno parlava del duca, la cui condotta era una vergogna; ma donna Ferdinanda, incrollabile nella sua fede, si scagliava peggio che mai contro don Blasco, il quale andava anche lui predicando per le farmacie:

«Io l’ho sempre detto, Pio ix,» non gli dava più del Santo Padre, «doveva pensarci a tempo e a luogo, quando era l’arbitro della situazione. Adesso che vuole? Chi è causa del suo mal pianga se stesso!…»

E, fattosi socio del Gabinetto di lettura, ci andava tutti i giorni col professore per saper le notizie e assicurarsi contro il timore di dover restituire la roba di San Nicola; pertanto vociava contro i tiepidi, sosteneva a spada tratta il fratello, leggeva ad alta voce gli articoli di fuoco di Giulente, approvandoli, ammirandoli:

«Eh? Come scrive mio nipote! Questo si chiama scrivere!»

Ma la recente apostasia di don Blasco, l’antico tradimento del duca, non toglievano al resto degli Uzeda la stima dei puri; presso la Curia, specialmente, la loro condotta, la fedeltà prestata ai sani principi, la costante devozione alla buona causa li facevan considerare come figli prediletti. Un giorno, nonostante la tristizia dei tempi, Monsignor Vescovo si recò da Ferdinando per restituire la visita fattagli da don Lodovico, per avere notizie dell’infermo e consolare l’afflitta famiglia. Tutti andarono intorno al prelato e gli baciarono la mano; la principessa dalla commozione aveva le lagrime agli occhi.

«Che notizie del nostro caro ammalato?»

«Non va bene, Monsignore,» rispose Lodovico, sospirando di tristezza. «Abbiamo persino dovuto dispacciare a nostro fratello Raimondo…»

«Ma non ci ha da esser proprio rimedio?»

«Abbiamo provato tutto: l’acqua di Lourdes, le medaglie di Loreto…»

«Bene, bene… ma avete chiamato un dottore? Che farmaci gli avete dato?»

«Oramai!…» parve voler dire Lodovico, aprendo le braccia. «La vita del nostro povero fratello non è più nelle mani degli uomini…»

Egli non disse che Ferdinando era impazzito del tutto. La sorda diffidenza destatasi in lui contro i fratelli, il secreto sospetto che non gli aveva consentito di attribuire all’affezione le loro premure fastidiose, erano cresciuti di giorno in giorno e avevan invaso talmente il suo cervello, che non capiva più nessun’altra idea. Egli che per trentanove anni aveva dato prova di tanto disinteresse da meritar dalla madre il nome di Babbeo, da lasciarsi rubar da tutti, si rivelava a un tratto dei Viceré con quel sospetto buffo e pazzo, adesso che non aveva più nulla da lasciare. Come la sua fibra si infiacchiva e il suo cervello si scombuiava, il sospetto cresceva, finché diventò furiosa certezza all’arrivo del fratello Raimondo.

Il conte arrivò insieme con la moglie ed il figliuolo. Invecchiata di trent’anni, la povera donna Isabella; irriconoscibile come un giorno era stata irriconoscibile la Palmi. In quei cinque anni che erano stati fuori, a Palermo, a Milano, a Parigi, come il capriccio del marito aveva voluto, certe voci di tanto in tanto arrivate in Sicilia dicevano che ella pagasse amaramente il male fatto alla prima contessa; che Raimondo, stufo finalmente di quella donna, l’acquisto della quale gli costava assai caro, non potendo pensare ad infrangere la seconda catena scioccamente postasi al collo, avesse ricominciato a correre la cavallina molto peggio di prima, a portar le ganze fresche nel mutato letto coniugale, a maltrattare in ogni modo la nuova moglie, cui non giovava mostrar prudenza, pazienza, sommessione ed umiltà per schivar l’astio, il rancore, quasi l’odio del marito. Ma quantunque le voci non fossero incredibili, dato il carattere di Raimondo, non avevano trovato tuttavia molto credito, potendo esser messe in giro dagli invidiosi di donna Isabella, dai nemici del conte, dalle eterne male lingue. All’arrivo di Raimondo non fu possibile persistere nel dubbio. Egli scese all’albergo, come sette anni innanzi, quando aveva definitivamente abbandonata la prima famiglia; ma questa volta accompagnato da quattro o cinque tra governanti, bonnes e cameriere: giovani tutte, una più bella dell’altra, svizzere, lombarde, inglesi, un vero harem internazionale. Aveva una camera separata da quella della moglie, e quando i parenti andarono a fargli visita, udirono che dava a costei del voi, lessero in viso a donna Isabella le sofferenze espiatorie. Ella era mutata oltre che nelle fattezze anche nei modi: parlava adagio, evitava di guardare il marito, pareva timorosa di spiacergli perfino con la sola presenza. E Raimondo non nascondeva i propri sentimenti verso di lei: quel voi era già molto eloquente, ma egli affettava di non rivolgerle la parola, di non udire quel che ella diceva: quando andò a vedere il fratello infermo le disse, in presenza dei parenti: