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I Vicere

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Le sue gesta avevano anche un altro campo, meno elegante, ma altrettanto famoso. Insieme con gli amici più scapestrati, aveva combinato una compagnia che era, la notte, il terrore di mezza città. Armati di stocchi, di rivoltelle o anche di semplici coltelli, portavano a spasso le ciarpe d’infima classe, cantando a squarciagola, spegnendo i fanali del gas, attaccando briga coi passanti, facendo aprire per forza, a furia di schiamazzi e di sassate ai vetri, le taverne e le case pubbliche, giocando al tocco o a briscola coi bertoni, ordinando cene che finivano con la rottura di tutte le stoviglie: i padroni li lasciavano sbizzarrire perché, se facevano danni, sapevano anche risarcirli. Certe volte, però, per capriccio, pel gusto di commettere un sopruso, per esercitare l’ereditaria prepotenza dei Viceré, il principino non voleva pagare lo scotto, o lo pagava a legnate; e, mentre profondeva i quattrini con le donne, era capace di portar via a certe povere diavole, per spasso, i pochi soldi che avevano in tasca – salvo a compensarle un’altra volta – lasciandole intanto piangenti o vomitanti un sacco di sozzure che lo facevano ridere a crepapelle.

Spesso scendeva con la sua comarca al porto, andava a far baccano nelle taverne dove i marinai inglesi s’ubriacavano come bruti: egli saliva sopra una tavola, prendeva la parola senza soggezione, predicava la Regola di San Benedetto, ripeteva le sentenze politiche dello zio duca e di Giulente; senza sapere una parola d’inglese teneva lunghi discorsi, serio serio, ai marinai foggiando per proprio uso e consumo una lingua che nessuno intendeva; la cosa spesso finiva con una partita di box e relative ammaccature di costole e rotture di stoviglie… Se lo avesse visto fra’ Carmelo! il fratello appariva di tanto in tanto al palazzo, sempre più magro e stralunato, per ricantare il consueto: «Me n’hanno cacciato!… Me n’hanno cacciato!…» Non gli strappavano di bocca nient’altro. Quando nelle sue escursioni notturne Consalvo andava dalle parti di San Nicola, lo incontrava immancabilmente, errante per le vie del quartiere come un’anima in pena o fermo a considerare la massa scura del convento; il principino, alterando la voce, gli dava la baia, lo chiamava: «Padre Priore!… Padre Abate!… Dove sono i porci di Cristo?…» tra le risa della comitiva.

Egli ne era l’anima, il capo riconosciuto e obbedito. Giovanni Radalì veniva spesso con lui; ma quantunque ora fosse libero, ricco e barone, non aveva l’umore costante: talvolta faceva pazzie straordinarie, talaltra frenava i compagni; più spesso, prendendo parte ai bagordi, aveva la ciera funebre, un riso falso. Di tanto in tanto scompariva, se ne andava ad Augusta, nelle terre lasciategli dallo zio, donde nessuno riusciva a scovarlo, se egli stesso, mutata fantasia, non si decideva a tornare. Allora Consalvo lo trascinava ai bagordi.

Una notte, per quistione di donne, la banda venne alle mani con una comitiva di popolani, di barbieri, di sensali; piovvero le legnate, luccicarono i coltelli, ma per buona sorte, sopravvenute le guardie, tutti scomparvero. I bastonati, i mariti canzonati, le vittime della loro prepotenza non osavano ricorrere: se qualcuno minacciava di querelarsi, la gente lo dissuadeva, considerando chi erano quei signori: il barone Radalì, il principino di Mirabella, il marchesino Cugnò! E la polizia, se ricorrevano ad essa, faceva accomodar la cosa: qualche biglietto di banca, e tutti lesti. Ma il prestigio di quei nomi era tale che pochi osavano lagnarsi; la più parte si stimavano onorati di competere con quei signori, li ammiravano, parlavano di loro col massimo rispetto. In carnevale, la mascherata favorita dei monelli, dei facchini, era quella del barone: sui calzoni a sbrendoli e sulle camicie rattoppate, un vecchio abito a coda di rondine, un enorme colletto di carta, una tuba di cartone alta quanto una canna di camino: andavano così a crocchi chiamandosi scambievolmente, ad alta voce, fra le risa dei passanti, col nome dei baroni per davvero: «Addio, Francalanza!… Radalì, come stai?… Andiamo al teatro, marchese!…»

Senza quei nobili l’operaio come avrebbe fatto? il loro lusso, i loro piaceri, le loro stesse pazzie erano altrettante occasioni perché la gente minuta lavorasse e buscasse qualcosa! E il principino spendeva e spandeva, regalmente, come se avesse le mani bucate. Suo padre gli pagava i cavalli e le carrozze, i fucili e i cani, e pei minuti piaceri gli passava cento lire il mese; ma Consalvo, alle volte, perdeva in una notte la pensione dell’anno intero; e il domani ricorreva a tutti gli usurai della città, i quali, contro la firma d’una cambialina, gli davano quel che voleva. Quanto ai parenti, essi o lo incoraggiavano a scialare, o non si occupavano di lui, o erano disarmati dalla sua politica, giacché egli sapeva prenderli pel loro verso, secondando le fisime di ciascuno. Solo Benedetto comprendeva che quella vita doveva costargli molto e sospettava qualcosa dei debiti; ma il giovanotto lo tirava dalla sua, sollecitandolo nella sua vanità di patriotta, di ferito del Volturno, di futuro deputato; e del resto se Benedetto manifestava le proprie paure alla moglie perché questa mettesse sull’avviso il principe:

«Di che ti mescoli?» saltava su Lucrezia. «Lascialo fare! Credi che mio nipote sia un pezzente, da non potersi permettere questo lusso? Può pagarli i suoi debiti, se mai!»

Donna Ferdinanda da canto suo andava in estasi per la riuscita del suo protetto e, dalla soddisfazione, gli regalava di tanto in tanto qualche biglietto da cinque lire che il giovanotto, dopo essersi profuso in ringraziamenti, lasciava come mancia al cameriere del Caffè di Sicilia. Il duca, ingolfato negli affari, aveva qualche sentore dei pasticci del pronipote, ma bastava a costui dargli del salvatore del paese, del grande statista o profetargli un posto al Ministero, perché il deputato si chetasse. Più tardi, per ingraziarsi meglio donna Ferdinanda, Consalvo le dava ragione se l’udiva gridare contro il fedifrago; e in questo era sincero, perché, senza mescolarsi nella politica, egli parteggiava pel governo assoluto, protettore dei signori, sciabolatore della canaglia. Questi sentimenti però non gl’impedivano di prender con le buone lo zio Giulente, al quale non dava tuttavia dell’Eccellenza, ma del semplice voi; e più tardi conveniva con la zia Lucrezia se costei lagnavasi di quella bestia del marito. Così, nonostante la freddezza col padre, seguiva l’esempio di lui, pigliando ciascuno pel suo verso, secondando le fissazioni di tutti gli Uzeda. La zia Chiara già parlava d’adottare il bastardo della cameriera: egli approvava questa risoluzione. Lo zio Ferdinando, credutosi affetto da tutte le malattie quando vendeva salute, adesso che deperiva visibilmente credeva invece d’esser sanissimo e non poteva soffrire che la gente gli consigliasse di chiamare un dottore: Consalvo si rallegrava con lui per l’ottima ciera… Quanto a don Blasco, da un pezzo non si faceva più vedere al palazzo. Dacché stava per casa sua, amministrando i propri capitali, la sua smania di criticar tutto e tutti in famiglia era finita: quando capitava tra i parenti, discorreva un poco del più e del meno e andava via presto. Per non star solo, in casa, s’era messo dentro la Sigaraia, suo marito e le sue figlie; talché ora, servito di tutto punto, non aveva più bisogno di nulla. E, da un certo tempo, era diventato addirittura irreperibile. «Che cosa fa lo zio?… Che cosa fa don Blasco?…» ma nessuno ne sapeva niente. Il principe, il marchese, Lucrezia, un po’ anche Benedetto, cercavano d’ingraziarselo, per via dei quattrini che doveva aver da parte; ma egli li sfuggiva tutti, e se li udiva alludere, sorridendo, alla sua ricchezza, ripigliava a vociare come un tempo: «Che ricchezze e povertà?… Che…» e giù male parole di nuovo conio.

Un bel giorno però Benedetto, leggendo sul foglio d’annunzi della prefettura l’elenco degli ultimi aggiudicatari dei beni ecclesiastici, trovò il nome di Matteo Garino.

«Non si chiama così il marito della Sigaraia?» domandò alla moglie.

«Credo… Perché?»

«Ha comprato il Cavaliere, una delle migliori terre dei Benedettini.»

Senza esitare un istante, Lucrezia esclamò:

«Garino? Questo è lo zio don Blasco che l’ha comprato!…»

Infatti di lì a poco la verità si seppe; Garino era il prestanome di don Blasco; questi aveva messo fuori i quattrini ed era già entrato in possesso del latifondo… Un monaco, un monaco benedettino, uno che aveva fatto voto di povertà, comprare una terra del suo stesso convento, calpestare in tal modo la legge divina?… Lo scandalo fu straordinario: donna Ferdinanda disse vituperi del fratello; il duca sorrise scetticamente, rammentando le furibonde minacce di dannazione eterna eruttate dal Cassinese; lo stesso principe, quantunque non volesse inimicarsi uno zio che comprava di tali poderi, scrollava il capo; e tutti i cattolici zelanti, i partigiani della Curia, i monaci a spasso, i borbonici un tempo amicissimi di don Blasco gli si misero contro; ma a chi gli riferiva le voci malevole egli gridava:

«Sissignore, il Cavaliere è stato comprato per mio conto: e poi? Chi ci trova da ridire? Mia sorella che ha fatto l’usuraia per cinquant’anni? Mio nipote che ha rubato tutti i suoi? Sono questi gli scrupolosi e i timorati?… Io non ho scrupoli di sorta! Se non avessi comprato io il Cavaliere, l’avrebbe preso un altro: al convento non restava di sicuro, per la buona ragione che il convento non c’è più!… Anzi, in mano mia, è come se fosse di San Nicola; a segno che ho fatto restaurare la cappella, e vi dico la messa tutti i giorni, quando salgo lassù: che se andava ad altri, a quest’ora l’avrebbero ridotta a uso di porcile!…»

La messa, veramente, egli la diceva di tanto in tanto, perché aveva molto da fare: dissodava la chiusa, strappava vecchie piante, scavava un pozzo, ingrandiva la fattoria trasformandola in casina di villeggiatura, spostava il muro di cinta arrotondando a modo suo i confini; doveva quindi stare con tanto d’occhi aperti sugli zappatori e sui muratori perché non lo rubassero. In campagna, per esser pronto ad esporsi all’acqua ed al vento, indossava una giacca corta da cacciatore e portava gli stivaloni fino a mezza gamba; tornato in città, smise la tonaca e lo scapolare, ma si compose un abito nero, da ministro protestante, col panciotto abbottonato fino in cima e il colletto clericale. Pertanto disapprovava quei due o tre antichi suoi compagni che s’erano spogliati del tutto, dandosi senza riguardo alla vita del secolo, come il sanculotto Padre Rocca; o quelli che, senza smetter l’abito, davano da ciarlare alla gente con la loro condotta, come Padre Agatino Renda che stava tutto il giorno in casa della vedova Roccasciano, giocando mattina e sera. Padre Gerbini se n’era andato a Parigi, dov’era stato creato rettore della Maddalena; altri, rimasti in città, facevano la vita dei preti; ma don Blasco proponeva a tutti se stesso come modello. Fra’ Carmelo, che, come dal principe, veniva spesso anche da lui, pareva non si fosse accorto del mutamento di Sua Paternità, e ripeteva con gesti disperati il suo eterno ritornello: «Me n’hanno cacciato!… Me n’hanno cacciato!…» Don Blasco gli dava qualche soldo e gli offriva da bere, confortandolo con belle parole; ma il maniaco, dopo bevuto, ragionava meno, cominciava a prendersela con gli indiavolati che avevano spogliato il convento:

 

«Assassini e ladri! Ladri e assassini! il più gran convento del Regno!… E quegli altri ladri che si son prese le sue proprietà! All’Inferno! All’Inferno, scomunicati…»

Una volta, delirante più del solito, si mise in ginocchio, declamando, con gran gesti di croce:

«In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo! Vi scongiuro per parte di Dio!… Restituite il maltolto a San Nicola!… Ladri!… Schifosi!… Siete cristiani o turchi?… Pensate all’anima! Fuoco d’inferno!…»

Don Blasco, perdendo finalmente la pazienza, lo prese per una spalla e lo spinse fuori:

«Va bene, va bene, abbiamo inteso.., ma per adesso vattene, che ho da fare…»

E sbattutogli l’uscio sul muso mentre sopravveniva donna Lucia:

«Comincia a rompermi la divozione, questo vecchio pazzo!… Se torna un’altra volta, buttatelo giù dalle scale, avete capito?…»

8

Una notte, mentre Lucrezia, a letto, russava profondamente, e Benedetto studiava a tavolino il bilancio comunale, una scampanellata improvvisa fece sussultare il marito e destò la moglie. Andato ad aprire, Benedetto si vide dinanzi il principino bianco in viso come un foglio di carta.

«Datemi da lavare,» disse allo zio, traendo dalla tasca della giacchetta la destra rossa di sangue.

«Consalvo!… Che è stato?… Che hai?…»

«Nulla, non gridare… Per aprire una finestra… ho rotto un vetro, mi sono tagliato… Datemi da lavare!… È una cosa da nulla…»

La ferita era invece profonda; cominciava dal dorso della mano, girava sotto la giuntura del pollice e finiva sul polso. Medicata con taffetà, doveva essersi riaperta, perché del fazzoletto che fasciava la mano non restava neppure un angolo bianco, e il sangue gocciolava, macchiando l’abito e la camicia.

«Non potevo andare a casa, conciato in questo modo…» spiegava il giovinotto, mentre teneva immersa la mano in una catinella, l’acqua della quale s’arrossava; ma ad un tratto, perduta la sicurezza che l’aveva fin lì sostenuto, cominciò a tremare, con la fronte madida di sudor freddo, girando intorno lo sguardo stravolto, dove Giulente leggeva adesso lo sbigottimento di un’improvvisa aggressione, la paura della morte intravista nel baleno d’una lama.

«Di’ la verità: com’è stato?…»

«Ancora?… La vetrata rotta, v’ho detto… Chiamate piuttosto Giovannino che m’accompagnò dal farmacista e aspetta giù…»

L’amico, più pallido di Consalvo, confermò la narrazione. La verità si seppe il domani. Da un pezzo Consalvo andava dietro alla figlia del barbiere del Belvedere, Gesualdo Marotta: una ragazza che si tirava su per pettinatrice e, quantunque girasse sempre per le vie, non dava retta a nessuno, con una gran paura dei fratelli poco disposti, articolo onore, a scherzare. Ma il principino, quando concepiva un capriccio, non si chetava se non dopo averlo soddisfatto; e, nonostante le preghiere, gli avvertimenti e le minacce dei Marotta, aveva messo in moto tutte le mezzane della città per vincere la resistenza della giovane e della famiglia, promettendo di toglierla dalle strade, da quel mestiere penoso e pericoloso; di metterle su una bella bottega di modista, assicurandole anche la clientela di tutte le sue parenti ed amiche. Tutto era stato inutile. Allora, vedendo che con le buone non otteneva nulla, egli fece un bel giorno rapire la ragazza e la tenne tre giorni con sé al Belvedere. I fratelli, per un certo tempo, stettero zitti, quasi fossero al buio; solo quella brutta notte, mentre il principino usciva dal Caffè di Sicilia, in compagnia di Giovannino Radalì, s’era sentito urtare e squarciare da una lama tagliente la mano distesa istintivamente per difendersi. «Ci rivedremo!…» aveva detto l’aggressore, scappando alle grida di Radalì.

Il principe non disse nulla quando vide il figliuolo con la mano fasciata: mostrò di credere alla storia della vetrata rotta e si mise a vegliarlo insieme con la principessa, la quale stette al capezzale di Consalvo premurosa ed inquieta come una vera madre. Il giovane dissimulava male il suo fastidio per quelle cure antipatiche e accoglieva come altrettanti liberatori gli amici che venivano a fargli visita mattina e sera. Il pericolo corso, il sangue perduto gli procuravano l’ammirazione di quei suoi compagni di bagordo; però, guarito, egli non mise il naso fuori dell’uscio. I Marotta avevano fatto sapere che erano pronti a ricominciare appena lo avrebbero rivisto, di notte o di giorno, e che la seconda volta non se la sarebbe cavata con una semplice graffiatura, e che, aspettando di farsi giustizia da loro, denunziavano intanto la cosa ai giudici. Tutti gli Uzeda, inquieti per la vita dell’erede del nome, ricorsero al duca: egli solo, con l’autorità che gli veniva dalla posizione politica, poteva ottenere dal prefetto, dal questore, dai magistrati che quei malviventi lasciassero quieto il giovanotto. Il duca, udito il fatto e quel che volevano da lui, invece di dar ragione al pronipote, fece inaspettatamente una gran sfuriata, tanto più strana quanto che non era nel suo carattere.

«Bene gli sta! Queste sono le conseguenze della sua vitaccia! E voialtri che non lo chiudete a chiave! Che vi rallegrate delle sue prodezze! Adesso che volete da me?»

Nessuno lo aveva mai visto così rabbuffato; un altro poco e pareva suo fratello don Blasco. La quistione era che i suoi avversari tentavano con accanimento un nuovo assalto alla sua reputazione e che l’imbroglio di Consalvo dava loro buono in mano. Il deputato non andava da due anni alla capitale, dimenticava interamente gli affari pubblici per badare ai propri. Che gran patriotta, eh? Di quanto disinteresse, di quanto amor patrio non dava prova? Quando aveva avuto da imbrogliare a Torino e a Firenze, se n’era stato sempre lontano, col pretesto degli affari pubblici, anche se la Camera era chiusa a catenaccio e il ministero disperso di qua e di là; pei fatti del Sessantadue nessuno lo aveva strappato da Torino; in patria era venuto solo per essere rieletto; l’ultima volta neppur s’era data questa pena, considerando il collegio come un feudo elettorale la cui proprietà nessuno poteva contrastargli; adesso che gli conveniva accomodare le sue faccende, avevano un bel discutere delle più gravi quistioni, in Parlamento: egli non si moveva. Ma quando pure ci fosse andato? Che cosa avrebbe fatto, lì dentro? Che cosa aveva fatto in otto anni di deputazione? Come un burattino, aveva alzato ed abbassato il capo, per dire sì o no, secondo gl’imbeccavano! E avesse una volta, una sola volta, aperto la bocca! Si scusava col dire che il pubblico lo sgomentava; ma la verità era che non aveva neppur l’ombra di un’idea in fondo alla zucca, che non sapeva scrivere un rigo senza fare sette spropositi; e credeva di poter nascondere la sua supina ignoranza con l’aria di presunzione e di sufficienza! E ad una bestia di quella cubatura affidavano tutti gli affari della città e della provincia, lasciavano dettar sentenze intorno a ogni sorta di quistioni: d’istruzione pubblica, di ingegneria, di musica, di marina!… Non contento di esercitare personalmente tanto potere, ficcava i suoi aderenti da per tutto perché facessero il suo giuoco: così Giulente zio aveva avuto la direzione della banca, così Giulente nipote era stato fatto sindaco!…

Tutte quelle accuse dei suoi nemici giravano per il paese, trovavano credito, erano una minaccia. Giulente prendeva le sue difese, ma adesso non lo ascoltavano più come un tempo; il discredito del deputato si estendeva un poco su lui. Gli davano dell’ipocrita perché pretendeva conservare le antiche amicizie mentre era diventato settario, l’esecutore delle partigianerie, delle ingiustizie del duca. Ipocrita soltanto? I più accaniti assicuravano che teneva anzi il sacco all’onorevole, perché qualcosa doveva entrargliene, perché spartivano gli illeciti profitti, il frutto dei loschi affari!… E, più di ogni altro argomento, questo dei guadagni del deputato aveva la virtù d’infiammare i suoi nemici. Delle cariche pubbliche s’era servito per accomodar le sue cose; i denari impiegati nella rivoluzione gli fruttavano il mille per cento! Così spiegavasi il suo patriottismo, la commedia della sua conversione alla libertà, mentre casa Uzeda era stata sempre covo di borbonici e di reazionari, mentre egli stesso, al Quarantotto, aveva goduto col cannocchiale, come al teatro, lo spettacolo della città agonizzante! Spiegavasi un poco con la paura, col bisogno di dar prova di liberalismo e di democrazia per non essere fucilato – e i gonzi s’eran lasciati prendere dalla famosa abolizione del pane di lusso, durata quindici giorni! – ma la cupidigia era stata più grande della paura; e certuni bene informati assicuravano che una volta, nei primi tempi del nuovo governo, egli aveva pronunziato una frase molto significativa. rivelatrice dell’ereditaria cupidigia viceregale, della rapacità degli antichi Uzeda: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri…» Se non aveva pronunziato le parole, aveva certo messo in atto l’idea; perciò vantava l’eccellenza del nuovo regime, i benefici effetti del nuovo ordine di cose! Le leggi eran provvide quando gli giovavano; per esempio, la famosa soppressione delle comunità religiose! A dargli retta, i beni tolti alla Chiesa dovevano permettere di alleggerir le tasse, e far divenire tutti proprietari. Invece, le gravezze pubbliche crescevano sempre più, e chi aveva ottenuto quei beni? il duca d’Oragua, la gente più ricca, i capitalisti, tutti coloro che erano dalla parte del mestolo!…

L’opposizione al deputato si confondeva così, a poco a poco, nell’universale malcontento, nel disinganno succeduto alle speranze suscitate dalla mutazione politica. Prima, se le cose andavano male, se il commercio languiva, se i quattrini scarseggiavano, la colpa era tutta di Ferdinando ii : bisognava mandar via i Borboni, far l’Italia una, perché di botto tutti nuotassero nell’oro. Adesso, dopo dieci anni di libertà, la gente non sapeva più come tirare innanzi. Avevano promesso il regno della giustizia e della moralità; e le parzialità, le birbonerie, le ladrerie continuavano come prima: i potenti e i prepotenti d’un tempo erano tuttavia al loro posto! Chi batteva la solfa, sotto l’antico governo? Gli Uzeda, i ricchi e i nobili loro pari, con tutte le relative clientele: quelli stessi che la battevano adesso!

Per combattere queste idee che facevansi strada e che nocevano anche a lui, Giulente le attribuiva all’invidia degli inetti, alla mala fede dei nemici, segnatamente alla propaganda dei suoi antichi amici rivoluzionari. Il gran torto del duca era quello di sostenere la causa dell’ordine, della moderazione, della prudenza! Se, invece di appoggiare il governo, si fosse gettato tra gli esaltati della sinistra, gli avrebbero battuto le mani! Ma predicava ai turchi; per essere ascoltato, per riscuotere approvazioni ed incoraggiamenti, non gli restava altro che rivolgersi ai partigiani del duca. Questi erano sempre numerosi, ma soprattutto più autorevoli, più influenti della folla anonima degli accusatori, tra la quale gli elettori si contavano sulla punta delle dita. Fedeli, anche; e sordi a quelle accuse, e tanto più ligi al deputato quanto che la sua caduta li avrebbe rovinati… Ora, in queste condizioni dell’opinione pubblica, il pasticcio del nipote dava molta noia a don Gaspare. Non già che gl’importasse del pericolo a cui il giovanotto era esposto: egli non provava le tenerezze di donna Ferdinanda o l’interesse degli altri parenti per l’erede del principato; né che temesse veramente di rimaner nella tromba a un prossimo scioglimento della Camera, di non poter continuare a spadroneggiare in paese; ma non voleva esser discusso, presumeva serbare intatto il prestigio dei primi tempi; e giusto per questo la sventataggine di Consalvo lo metteva in un bell’impiccio: poiché, dando mano ad un sopruso, perseguitando i parenti della ragazza rapita, avrebbe sollevato più forti clamori contro se stesso; mentre la rinunzia a difendere il nipote sarebbe stata attribuita appunto alla paura di attirarsi nuove opposizioni. Dopo avere esitato un poco fra i due partiti, facendo sentire a Consalvo il peso del proprio sdegno, ma difendendolo dinanzi agli estranei, egli si apprese al più audace. Il più facinoroso fratello della pettinatrice fu chiamato un giorno da un ispettore di polizia, il quale gli consigliò pel suo meglio di desistere dalle bravate, altrimenti lo avrebbero denunziato per l’ammonizione; nello stesso tempo i testimoni del ratto voltarono casacca, dichiararono invece che la giovane era andata liberamente alla villa Uzeda; e si trovarono poi due contadini che dissero di avercela veduta altre volte, e parecchi altri i quali affermarono che in paese si diceva non esser quella la prima scappata della ragazza. I parenti gridavano vendetta, ma i vicini li persuadevano a desistere, ad accomodarsi con le buone; il principino, quantunque le migliori testimonianze lo sollevassero da ogni responsabilità, pure, per evitar altre noie era pronto a sborsare tremila lire per la bottega di modista.

 

Ora un bel giorno, mentre s’aspettava da un momento all’altro la notizia che l’imbroglio, un po’ con le minacce, un po’ con le promesse era accomodato e che il giovanotto non correva più alcun pericolo, il principe, che non aveva ancora mosso un solo rimprovero al figliuolo entrò nella camera di quest’ultimo rosso in viso come un pomodoro spiegazzando un foglio di carta: «A te!… Che significa questa lettera?»

Si riferiva a un debito di seimila lire che Consalvo aveva garentito con una cambiale rinnovata parecchie volte di quattro in quattro mesi; il creditore, volendo esser soddisfatto e profittando della clausura del giovanotto, scriveva al padre avvertendolo della scadenza e invitandolo al pagamento.

Consalvo, nel primo momento, rimase; ma poiché suo padre, animato da quel silenzio, chiedeva spiegazioni gridando più forte, egli rispose freddo e calmo:

«Non c’è bisogno d’alzar la voce. Che cosa le hanno scritto?»

«Sai leggere, sì o no?» esclamò il padre, mettendogli il foglio sotto il naso.

Ma il principino si trasse vivamente indietro, come se fosse minacciato da un contatto impuro. Durante i lunghi giorni che aveva passati sopra una poltrona, tenendo il braccio appeso al collo, nell’inerzia forzata, con l’impossibilità di servirsi della mano destra, rabbrividendo alla vista del sangue che ancora trapelava dalla ferita e macchiava la fasciatura, a poco a poco s’era svegliato in lui ed era cresciuto e s’era fatto irresistibile lo stesso senso di ribrezzo che era stato il tormento di sua madre, la stessa repulsione per tutti i toccamenti, lo stesso schifo per le cose che gli altri avevano maneggiate, la stessa paura dei sudiciumi contagiosi. Come suo padre più gli s’avvicinava porgendo la lettera, più egli si scostava, con le mani dietro la schiena, per evitare di prenderla.

«Va bene… va bene…» diceva, schermendosi, e guardando di sbieco i caratteri; «ho visto… è don Antonio Sciacca.»

«Ah, don Antonio?» gridò il principe. «Dunque è vero? Non ti dài neppur la pena di fingere?… Ed hai il coraggio…»

Consalvo piantò a un tratto gli occhi negli occhi del padre, guardandolo fisso, con un’espressione dura, come di sfida, e lasciato improvvisamente il lei:

«Che cosa volete?…» gli disse. «Avevo bisogno di danari… Me ne date tanti!… Li ho presi: voi che ne avete li pagherete…»

Il principe pareva sul punto di cader fulminato. Rivolgendo al figliuolo uno sguardo non meno fisso né meno duro:

«Pagherò un cavolo… pagherò!…» articolava. «I miei quattrini?… Ti lascerò condannare e legare, bestione! Capisci, bestione?»

Più freddo di prima, Consalvo rispose:

«Va benissimo. Dunque non mi seccate…»

«Ah, ti secco?… Ti secco?…»

E di repente, come uno che riesce a vomitare dopo vani conati, cominciò a sfogarsi. Gonfiava da due anni, per due lunghi anni aveva consentito tutte le libertà al figliuolo; durante tutto quel tempo aveva compresso, soffocato, vinto l’imperioso bisogno che era in lui di comandare, di veder tutti piegare dinanzi alla propria volontà di capo della casa, di padrone, di arbitro assoluto del destino della famiglia; egli che aveva martoriato tutti i suoi, fatto di loro ciò che gli era piaciuto, s’era piegato a lasciar la briglia sul collo al figliuolo, a colui sul quale più legittimamente avrebbe potuto esercitare la propria potestà. Per due anni, fingendo la tolleranza, l’indulgenza, l’affezione, s’era arrovellato sordamente, covando l’antipatia e l’avversione contro Consalvo, ricambiando l’odio che si sentiva portato; adesso finalmente scoppiava. Finché s’era trattato della mala vita del giovane, della sua freddezza verso la madrigna, egli era riuscito a frenarsi; ora invece Consalvo lo feriva nel sentimento più forte di tutti gli altri, attentava non più alla sua autorità morale ma alla sua borsa. Il principe aveva lottato tutta la vita, fin dall’età della ragione, per accumulare nelle proprie mani quanto più denaro gli era stato possibile, per toglierlo alla madre, ai fratelli, alle sorelle, alla moglie; meglio che tutti gli altri Uzeda, egli era il rappresentante degli ingordi spagnuoli unicamente intenti ad arricchirsi, incapaci di comprendere una potenza, un valore, una virtù più grande di quella dei quattrini; e adesso che era riuscito nel proprio intento, che vedeva arrivato il tempo di godere serenamente il frutto delle lunghe e pazienti fatiche, ecco suo figlio cominciare a disporre di quella sostanza come di cosa propria! Se Consalvo gli avesse chiesto le seimila lire, egli le avrebbe date; ma l’idea del debito contratto, della cambiale firmata, degli interessi rilasciati anticipatamente agli usurai produceva una rivoluzione nella testa del padre, gli faceva vedere irreparabilmente pericolante la propria ricchezza, giacché quella cambiale non doveva esser sola, giacché la naturale inclinazione del figlio allo sperpero gli riusciva evidente, giacché quello sciagurato osava parlare alteramente, quasi non avesse fatto se non esercitare un diritto! E non voleva esser seccato per giunta! E rispondeva con quel tono a suo padre!

«Ah, ti farò veder io se ti secco! Come t’accomoderò!… Qui il padrone sono io: càcciati bene questa idea nel cervellaccio pazzo! Qui s’ha da far sempre, unicamente, in tutto e per tutto, la mia volontà! Perché sono stato troppo buono finora?… Ti farò veder io, pezzo d’imbecille!… E la gente, i miei parenti, tutto il paese che mi rinfaccia ad una voce la vitaccia di quest’animale! la vita delle taverne e dei lupanari!… Credi forse che non sappia le tue sporche prodezze?… Come non arrossisci dalla vergogna? Come non vai a nasconderti lontano dalle persone a modo? La dignità del tuo nome calpestata in compagnia dei più schifosi bagordieri! E non parlo dei denari scialacquati, buttati via come fossero sassi! Chi spende per capricci, per divertimenti pazzi quanto questa bestia?… E non basta lasciarlo fare, non dirgli nulla, metter mano tutti i giorni al portafogli!… E ardisce lagnarsi che non ha abbastanza! E invece di scusarsi, di chiedere perdono, vuol rifatto il resto! Oh, con chi credi di trattare, imbecille?… Io non pagherò un soldo! Ed è tempo d’intendersi, sai! Giacché ci siamo, una volta per tutte!… Qui bisogna mutar registro!… Fin a quando starai in casa mia, hai da fare quel che piace a me, comportarti come tra la gente civile!… Questa non è una locanda, da venirci solo per mangiare e dormire! Io non ti posso imporre l’affezione, e non m’importa che me ne voglia ma esigo il rispetto che m’è dovuto; il rispetto che devi a tua madre…»