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I Vicere

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E l’Abate, assicurato da don Lodovico che tutto sarebbe andato a seconda, dormiva tra due guanciali. Arrivato il giorno della votazione e posta ai Padri la quistione se volevano fra loro il Giulente, trenta sopra trentadue votanti risposero no, e due soli consentirono.

«Per una volta che si ragiona!» esclamò don Blasco quasi sotto il naso di Sua Paternità.

Il complotto era stato preparato sottomano da un pezzo. Alla prima votazione una metà dei votanti s’eran lasciati piegare sapendo bene che quel voto non pregiudicava nulla, che bisognava poi tornar da capo; ma dovendo ora dir sul serio, nessuno aveva più esitato: borbonici e liberali, fautori e avversari dell’Abate, il partito delle economie e quello dello scialo, s’erano tutti accordati nell’opporsi all’ammissione tra i discendenti dei conquistatori del regno e dei Viceré di un pronipote di mastri notari come Giulente. Non importava loro della prossima o lontana fine della cuccagna, né dell’esempio da dare nell’interesse della religione; c’era innanzi tutto il principio di tener alto, «il bestiame da non confondere», come diceva don Blasco; se il giovane era orfano e povero, gli si sarebbe dato da dormire e da mangiare, come a uno di quei tanti parassiti che vivevano sul convento; ma permettere che rivestisse la nobile tonaca benedettina? Che gli si dicesse Vostra Paternità? Che sedesse alla loro mensa?…

E per tutta la clientela del convento corse un lungo sussurro di approvazione: così andava fatto, sin dal principio! Era una bella lezione data all’Abate!… Il giovanotto, dal dispiacere, dalla vergogna, restò un mese senza farsi vedere. Quando riapparve, pallido e con gli occhi rossi, non si seppe che cosa farne. Se i Padri non l’avevano voluto, non era più possibile rimandarlo tra i novizi, alla sua età e dopo quello scandalo, specialmente, che attirava sul povero diavolo le beffe e gli insulti del principino e dei suoi compagni. Così l’Abate dovette assegnargli una camera fuori mano, in fondo a un corridoio deserto; e Giulente, lasciato l’abito di San Benedetto per l’umile veste del prete, se ne stava tutto il giorno a studiare sui libri che il suo protettore gli faceva mandare dalla biblioteca. Al refettorio, né i Padri né i novizi volendolo con loro, egli mangiava alla seconda tavola, in compagnia dei fratelli di servizio… Don Lodovico esprimeva il proprio dolore all’Abate per questa persecuzione. Egli si era guardato bene dal far la propaganda della quale Sua Paternità l’aveva pregato, prima di tutto perché il suo proposito di neutralità glielo vietava, poi perché neppur lui voleva Giulente al convento. Nondimeno era stato il solo a votare il sì, per dimostrare al superiore la propria fedeltà, sicuro frattanto dell’unanime opposizione dei monaci. Dopo l’esito dello scrutinio, gettava la colpa sulla doppiezza dei Padri, che dopo tante promesse, all’ultimo momento, per uno «stupido» pregiudizio, s’eran disdetti… E così la baracca andava avanti, col solito armeggio dei partiti, con le solite discussioni più o meno burrascose, quando un bel giorno tutta la frateria fu messa a rumore da un avvenimento straordinario, come al tempo della rivoluzione.

Garibaldi era già in Sicilia a far gente, non si sapeva perché o, meglio, si sapeva benissimo: per andar contro il Papa. Al suo avanzarsi un mal represso fremito si levava tutt’intorno, per le città e le campagne, mentre le autorità si barcamenavano non sapendo a qual santo votarsi, e un po’ fingevano d’osteggiarlo, un po’ gli cedevano il passo. Quando egli si presentò dinanzi a Catania, la guarnigione che doveva arrestarlo aveva già sgomberato la città, e il prefetto scese al porto per imbarcarsi sopra un legno di guerra. E il Generale entrò coi suoi volontari tra due siepi vive di popolazione che applaudiva e gridava freneticamente, in mezzo a un delirio d’entusiasmo dinanzi al quale le stesse dimostrazioni del Sessanta parevano tiepide e scolorite. Da un balcone del circolo degli operai, dominando il corso gonfio di popolo come una fiumana, egli spiegava lo scopo della nuova impresa, gettava con la voce dolce il grido della nuova guerra: «O Roma, o morte!…» Poi, dove andò egli a porre il suo quartier generale? A San Nicola!

Le grida, il trambusto che ci furono lassù tra i monaci si lasciarono anch’essi molto indietro le dimostrazioni del Quarantotto e del Sessanta. Don Blasco divenne un energumeno; disse cose dei «piemontesi» che non fucilavano Garibaldi e di Garibaldi che non spazzava via i «piemontesi», da far turare le orecchie a un saracino. E la sua più viva speranza, la fede che lo sorreggeva, era quest’ultima: che i due partiti si sterminassero reciprocamente, che i briganti della Basilicata dessero l’ultimo crollo alla baracca, che succedesse così un cataclisma, il diluvio universale non più d’acqua ma di ferro e di fuoco perché il mondo risorgesse purificato dalle proprie ceneri. E i monaci liberaloni, «quei pezzi di scannapagnotte», osavano ancora batter le mani mentre la rivoluzione ordiva la finale rovina dell’ultimo rappresentante delle legittimità, del più augusto, del più sacro: il Santo Padre! Battevano le mani come gli arruffoni, come gli affamati in busca di un’offa, come i galeotti evasi di cui si componevano le nuove bande! E dimenavano i fianchi ingrassati a spese di San Nicola, e si fregavano le mani che la beata cuccagna permetteva loro di mantener bianche e lisce come quelle delle dame!

«Manetta di mangia a ufo che siete, avete forse vinto un terno al lotto? Non capite che più presto l’eresia trionferà, più presto vi butteranno in mezzo a una strada? Di che vi rallegrate, traditori più di Giuda? Non volete capire che avete tutto da perdere e niente da guadagnare?»

«E con questo?»

«Come con questo?»

«Ci piglieremo anche noi un po’ di libertà…»

Quando gli dettero quella risposta, il monaco impallidì poi tutto il sangue gli montò alla testa e gli occhi parvero sul punto di schizzare dalle orbite.

«Ah, sì; ve ne manca?» articolava. «Vi manca la libertà…? Siete chiusi in fondo a un carcere, poveri disgraziati?… Che libertà vi manca, d’ubriacarvi come tanti otri? di crepare dalla sazietà? di mantenere le vostre ciarpe?… Non lo sapete, no, come vi chiama la gente?…» E spiattellò loro in faccia l’epiteto popolare col quale erano designati da tutta la città: «Porci di Cristo!…»

In mezzo al baccano delle discussioni che minacciavano di finire a cinghiate, il povero Abate pareva un pulcino nella stoppa, non sapendo come fare, non volendo dar mano ad affrettar lo scempio dei buoni princìpi, ma non potendosi opporre alla venuta dei garibaldini. Pertanto s’afferrava al Priore, si metteva nelle sue mani, non lo lasciava più. Don Lodovico, lagnandosi delle tristizie dei tempi, invocando dal Signore la cessazione di quelle dure prove, prese le redini del convento e preparò il ricevimento di Garibaldi: ordinò che dessero aria al quartiere reale, che approntassero pagliericci e foraggi, che vuotassero le cantine e i riposti. Quando arrivò il Generale, gli andò incontro fino a piè dello scalone, accompagnò ai loro alloggi gli aiutanti e presiedé il pranzo delle camicie rosse, scusando l’Abate che una piccola indisposizione costringeva a letto.

Don Blasco, giallo come un limone, non potendo più gridare all’arrivo dei garibaldini, s’era tappato una seconda volta al Noviziato. Quasi tutti i ragazzi non c’erano più, ripresi dalle rispettive famiglie, che per paura dei torbidi si mettevano in salvo. Solo il principino, Giovannino Radalì e due o tre altri erano rimasti, mentre gli Uzeda erano scappati al Belvedere, tranne Ferdinando, chiuso come sempre alle Ghiande, e Lucrezia con Benedetto, il quale riprendeva il suo posto di combattimento in quei giorni agitati, tra le poche autorità e i rari notabili rimasti. Egli si sarebbe anzi arrolato, per far la nuova campagna con gli antichi commilitoni, senza il dovere di non abbandonar la moglie. Salito su al convento, il domani dell’arrivo di Garibaldi, andò ad ossequiare il Generale, che lo riconobbe subito, gli strinse la mano, e lo intrattenne un pezzo nonostante l’andirivieni delle commissioni, delle rappresentanze di ogni genere accorrenti incontro all’antico Dittatore. La incertezza e l’inquietudine, le speranze e i timori intorno a quel che sarebbe seguito erano universali. Quali disegni aveva Garibaldi? Quali ordini i rappresentanti dell’autorità? il conflitto, se mai, sarebbe scoppiato a Catania? Che cosa avrebbe fatto la Guardia nazionale?… Non si sapeva nulla; certuni dicevano che il governo fosse secretamente d’accordo con Garibaldi, che facesse finta d’osteggiarlo per l’occhio dei potentati. Benedetto, ripresa la pubblicazione dell’Italia risorta, sosteneva questa opinione, e il silenzio del duca d’Oragua, al quale aveva scritto lettere su lettere pregandolo di tornare in Sicilia, poiché la presenza di lui poteva divenire necessaria, lo induceva a confermarvisi. Aveva pertanto assicurato al Dittatore l’unanime consenso di tutto il paese. Congedandosi e sul punto di riscendere in città, si udì chiamare:

«Eccellenza!… Eccellenza!…» Era fra’ Carmelo che gli veniva dietro. All’orecchio, e con aria di mistero, quando l’ebbe raggiunto: «Suo zio don Blasco,» gli disse, «ha da parlarle…»

Rintanato nell’ultima stanza dell’ultimo corridoio del Noviziato, don Blasco volle sentire due volte la voce del nipote prima d’aprire. Serrato l’uscio sul muso del fratello:

«Sei dunque impazzito anche tu, pezzo di bestione?» disse a Benedetto.

Questi aveva appena domandato un perché timido e sommesso, che il monaco ricominciò, con nuova violenza:

«Come, perché? Hai il viso di domandarlo? Con la guerra civile che state per far scoppiare? La città bombardata? Le strade insanguinate? I galantuomini perseguitati?… E mi domandi perché?…»

«Non è colpa…»

«Non è colpa tua? Di chi, dunque? Mia, forse? Sicuro! Li ho scatenati io in persona! Conosco il solito giuoco! Gl’istigatori sono i galantuomini colpevoli di non transigere con la propria coscienza! Mi meraviglio che non son venuti ad arrestarmi!… Vengano, vengano pure!…» e pareva un leone, con gli occhi sfavillanti.

 

«Vostra Eccellenza si calmi…» balbettava Giulente.

«Ho da calmarmi, anche? Mentre il mio paese è minacciato dell’ultima rovina? Quando vedo una bestia della tua cubatura batter le mani con gli altri, invece di evitare quest’inferno?…»

«Ma in qual modo?»

«In qual modo? Facendoli andar via! Si scannino in campagna, sul mare, dove piace loro, non dentro una città come la nostra, dove i danni sarebbero incalcolabili, dove ne andrebber di mezzo le donne, i vecchi, i bambini, i galant… Vadano via a scannarsi dove gli piace; il mondo è grande!… Ecco in qual modo!…»

Giulente rimaneva perplesso, non osando contraddire allo zio, ma non volendo neppure disdirsi dopo mezz’ora.

«Ma come fare? Tutto il paese è pel Generale…»

«Tutto il paese? Prima di tutto, sei una bestia! Quale paese? I pazzi come te? E poi, quand’anche, ragione di più! Se il paese è per lui, se c’è entrato da trionfatore, che resta a farci? Fosse una piazzaforte, capirei; ma una città aperta ai quattro venti? Se ha da attaccar battaglia, vada altrove! Si porti chi vuole e ciò che vuole, e buon viaggio!…»

Il monaco, a poco a poco, s’era venuto placando, e aveva detto le ultime parole quasi col tono di ogni altro cristiano; ma appena Benedetto osservò:

«E chi lo persuaderà?»

«Ah, sangue di Maometto!» riprese col vocione di prima e un gesto furioso. «Parlo con una bestia o con un essere ragionevole? Chi l’ha da persuadere? Voialtri che gli state attorno! C’è una Guardia nazionale? C’è un’autorità qualunque? Tu, che cavolo sei? Capitano, buon cittadino, il diavolo che ti porta via? Tocca a voialtri parlar chiaro e tondo, dopo che i tuoi conigli piemontesi se la sono battuta, lasciandoci nel ballo! O credi forse che voglia impicciarmi con cotesti assassini, briganti, galeotti, ru…»

Al rumore di un passo risonante pel corridoio, don Blasco ammutolì come per incanto. Si gargarizzò quasi la gola gli prudesse, fece due passi per la camera, si fermò un momento a tender l’orecchio; poi, cessato il rumore, dichiarò:

«Se vuoi capirla, tanto meglio; se no, mettiti bene in testa che a me, come a me, importa un solennissimo cavolo di te, di Garibaldi, di Vittorio Emanuele, e di quanti siete…»

Giulente tornò a casa sua impensierito ed inquieto. Appena entrato in camera di sua moglie, vide Lucrezia seduta in un angolo, con gli sguardi a terra e gli occhi rossi.

«Che hai?… Che è stato?…»

«Nulla. Non ho nulla.»

«Ma tu hai pianto, Lucrezia! Parla! Dimmi che cos’hai!…»

Ella negava, senza guardarlo in faccia, con la bocca ostinatamente cucita, e se non era Vanna che sopravveniva, Benedetto non sarebbe riuscito a saper niente.

«La padrona non vuol restare in città,» dichiarò la cameriera. «Tutti i suoi parenti se ne sono andati, anche la povera gente si mette al sicuro, e lei sola ha da restare al pericolo?»

«Che pericolo?… Lucrezia, è per questo? Ma se non c’è pericolo di niente? Che temi? Non sono qua io? A me non faranno nulla, in nessun caso! Se ci fosse un pericolo anche lontano, ti lascerei qui? Andremo via se le cose si guastano; ho bisogno di promettertelo?…»

Dopo che ebbe parlato un quarto d’ora, ella articolò:

«Voglio andarmene dai miei parenti.»

«Ma santo Dio, perché? Stamattina eri così tranquilla! Che cosa è mai successo?»

Era successo questo: che la moglie di Orazio, il cocchiere del principe, aveva fatto una visita all’antica padroncina per annunziarle, col fiato ai denti, che scappava anche lei al Belvedere. «Eccellenza, qui non si può più stare. Oggi non sa che cosa è successo? I soldati piemontesi rimasti all’infermeria se ne andavano a raggiungere la truppa. Al Fortino, i garibaldini li vogliono fare prigionieri. Allora, Gesù e Maria, il tenente ordina baionetta in canna! E io che passavo con le creature!… Dallo spavento sto ancora tremando! Ho fatto un fagotto di quei quattro cenci, e stasera me ne vado…» Allora, se la moglie del cocchiere andava via, lei, la sorella del principe era da meno della moglie del cocchiere?… Quest’idea non era sorta improvvisamente nella sua testa. Lottando per sposare Giulente, ella aveva giurato di non aver più che fare con gli Uzeda; tutte le ragioni da loro addotte per denigrare Benedetto e la famiglia di lui l’avevano invece sempre più confermata nel suo proposito. Ma, trionfando delle opposizioni, ella aveva cominciato a rimuginare, nelle lunghe ore d’ozio e d’inerzia, gli antichi argomenti della zia Ferdinanda, di Giacomo, del confessore; la persuasione d’essere discesa, sposando Benedetto, aveva cozzato un pezzo con l’ostinazione antica; in rotta col fratello, il cruccio di non poter più entrare nella casa dei Viceré, di sentirsi quasi posta al bando dai parenti, l’aveva occupata a poco a poco, mentre ella continuava a prendersela con loro. Al principio delle inquietudini pubbliche, la fuga generale dei nobili e dei ricchi aveva colmato la misura, ed ora ella dimenticava ciò che aveva detto contro Giacomo, la freddezza sorta tra loro due, il fermo proposito di non piegarsi: voleva andare al Belvedere, se perfino la moglie del cocchiere c’era andata…

Giulente stava ancora cercando di persuaderla, quando arrivò la posta; in mezzo ai giornali c’era finalmente una lettera del duca. Il duca diceva di non aver più ricevuto sue lettere, in quei momenti di agitazione, che gliele facevano aspettare con impazienza. Le notizie di Sicilia gli avevano messo la febbre addosso, tanto che egli voleva subito far le valige; ma disgraziatamente era impedito da molte e gravi faccende, «tutte d’interesse del collegio e del paese». Del resto, se voleva trovarsi fra i propri concittadini, ciò era per avvertirli di non lasciarsi trascinare da Garibaldi. «Lo dico dunque a te che puoi farlo capire alle teste riscaldate, dove più insistente si cammina a nome del principio utopista, si corre sicuro al naufragio. Altronde il governo è deciso opporsi in tutti modi a simile aberrato. Ed io credo che fa benissimo anzi che ha perduto troppo tempo. Garibaldi dev’essere arrestato a forza; non si può permettere che una nazione di ventisette milioni sia messa in orgasmo da un uomo che ha meriti distinti, ma pare aver giurato di farli dimenticare con una condotta che…» e qui due facciate contro Garibaldi. «Perché poi, voltiamo la pagina, neppure il governo è libero, e non bisogna lusingarsi col non intervento; c’è la Francia che fa un caso del diavolo, Napoleone ha detto… l’Austria aspetta un pretesto… tutta l’Europa invigila…» e un altro foglietto di gravi considerazioni sulla politica internazionale. «Quindi ti raccomando di far comprendere queste verità agli amici, ed anche, anzi soprattutto, agli avversari. Bisogna evitare un serio disastro al nostro paese, e tutti bisognano persuadersi del pericolo della situazione. Pregoti di parlare e occorrendo scrivere in questo senso; anzi sono sicuro che nella tua accortezza ti sarai già messo all’attuazione.»

Per la terza volta in tre ore, qualcuno dei suoi parenti lo spingeva così nella via da cui egli ripugnava. Il duca scriveva, escandescenze a parte, come don Blasco parlava; il monaco borbonico era, in fondo, d’accordo col deputato liberale; e sua moglie, chiusa in camera, gli teneva il broncio, complottava con la cameriera per indurlo ad abbandonare il suo posto.

La sera, ad una tempestosa riunione del Circolo Nazionale, dove il partito garibaldino e il governativo erano venuti quasi alle mani, egli s’alzò per parlare. Nell’imbarazzo da cui era vinto, l’argomento suggerito da don Blasco gli parve il più opportuno. Nessuno poteva mettere in dubbio, disse, la sua devozione al Generale, né la coscienza gli permetteva di dare ragione a quelli che volevano schierarsi contro il liberatore della Sicilia; ma bisognava piuttosto dimostrargli, col dovuto rispetto, il pericolo a cui era esposta la città. Delle due l’una: o agiva d’accordo col governo, e allora non aveva nessun interesse di restare a Catania; o il governo gli si opponeva, e allora bisognava chiedere al suo cuore di evitare gli orrori della guerra civile ad una città popolosa e fiorente. E questo era proprio il caso, poiché il governo aveva deciso di opporglisi… Quel discorso scandalizzò i suoi antichi amici; ma, prendendoli a parte uno dopo l’altro quando l’assemblea fu sciolta senza nulla deliberare, egli li esortò a piegarsi, esponendo la verità nuda e cruda, le notizie dategli dal duca. «Perché non viene egli stesso, allora?» domandavano. «Che cosa sta a fare a Torino, mentre qui si balla?» Ed egli lo giustificava, annunziando che si sarebbe messo in viaggio al più presto possibile, ma che intanto bisognava mandare una commissione al Generale per indurlo a sgomberare…

La sua propaganda ottenne l’effetto desiderato. Sul partito ostile a Garibaldi s’erano accumulati molti sospetti, poiché i borbonici, i paurosi senza nessuna fede erano con esso; ora che un liberale provato consigliava non la resistenza, ma la rispettosa esposizione del pericolo, questo consiglio si faceva strada. Benedetto non ebbe tuttavia il coraggio di andare in persona dal Generale ad esporgli la sua nuova opinione; lasciò che andassero gli altri. Costretto a condurre sua moglie al Belvedere, se ne tornò solo in città, aspettando gli avvenimenti, scrivendo e telegrafando al duca per invitarlo a venire. Passarono alcuni giorni senza che la situazione mutasse. Garibaldi, dall’alto della cupola di San Nicola, scrutava spesso la linea dell’orizzonte, col cannocchiale spianato; o, curvo sulle carte, studiava i suoi piani, o riceveva la gente e le commissioni che venivano a trovarlo. Finalmente s’imbarcò con tutti i volontari, non si sapeva dove diretto, se in Grecia o in Albania; ma dopo la partenza, un lievito di scontento restò nella città, una sorda agitazione che le persone influenti e la stessa Guardia nazionale non riuscivano a sedare. Il movimento era adesso contro i signori, contro i ricchi; Giulente aveva arringato i tumultuanti, ma nessuno lo ascoltava più; e il duca gli scriveva ancora che non poteva venire, che stava poco bene, che i grandi calori gli avevano rovinato lo stomaco…

Un pomeriggio che don Blasco aveva arrischiato, per la prima volta, una visita alla Sigaraia, dove, ridiventato un energumeno, augurava il reciproco sterminio dei garibaldini e dei piemontesi, arrivò Garino, giallo come un morto:

«La rivoluzione!… La rivoluzione!… Bruciano il Casino dei Nobili…»

Infatti la dimostrazione era diventata sommossa, le fiamme consumavano il circolo dell’aristocrazia. Il monaco, manco a dirlo, tornò a sbarrarsi al convento, e non lo lasciò più se non quando la truppa regolare rioccupò la città. Ma l’eccitazione degli animi prodotta dall’avvenimento d’Aspromonte, le paure, i pericoli non parevano cessati, e il principe non si moveva dal Belvedere, e Giulente tornava a pregare il duca di farsi vivo, di venire a metter la pace nel paese. Il duca non venne; rispose ancora che i medici gli avevano vietato di tornare in Sicilia. «Sono disperato, non posso trovarmi fra voi come dovrei e vorrei, non solamente per tutto ciò che mi dici di Catania, ma anche per ciò che è avvenuto a Firenze…»

Benedetto non sapeva a che cosa alludesse; lì per lì non pensò neppure che Raimondo era in Toscana. Seppe qualche giorno dopo di che si trattava, quando arrivarono, insieme, il conte e donna Isabella Fersa, e scesero all’albergo, sempre insieme, come fossero marito e moglie.