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Il domani mattina andarono lassù a trovarli, uno dopo l’altro, i Giulente marito e moglie, don Lorenzo e il duca, la principessa e perfino Chiara, fresca come una rosa; i dolori erano svaniti, ella aveva voluto a forza salire dalla sorella. Gli sposi non aspettavano più nessuno, quando, nel pomeriggio: drlin, drlin, un tintinnio di sonagliere, e la carrozza di donna Ferdinanda, tutta impolverata, si fermò dinanzi al cancello del villino. La zitellona, come se li avesse lasciati la sera precedente, come se fossero maritati da dieci anni, diede la mano da baciare alla nipote, e appena sedutasi disse a Benedetto:

«Bell’affare m’hai proposto! Gli altri creditori si oppongono alla cessione dell’ipoteca!»

Benedetto, dallo sbalordimento, non seppe lì per lì che rispondere; ma Lucrezia si voltò a lui dicendo:

«Non c’è modo di accordarli?»

«I creditori?… Sicuro… si possono accordare…» E frenando a stento un sorriso, esclamò: «Vostra Eccellenza non se ne inquieti. Il credito di Vostra Eccellenza era privilegiato. Li faremo stare a dovere, non dubiti!»

Il domani, donna Ferdinanda tornò col suo patrocinatore, perché Benedetto gli spiegasse bene il da fare; e tornò ancora il giorno appresso, e poi quell’altro, finché, per farla contenta, egli stesso riscese con la moglie in città a dipanare in persona la matassa. Dovevano passare un mesetto al Belvedere, e ci stettero così una settimana appena. Egli non se ne lagnava, contento della pace fatta con la zia, la quale, se li aveva cercati ogni giorno in campagna, venne mattina e sera a trovarli in città. Arrivava per tempo, quando i Giulente, padre e madre, non erano ancora passati dalla nuora, la quale restava a letto fino a tardi. Benedetto, in piedi col sole, dava gli ordini alle persone di servizio per la colazione e il desinare, curava che la moglie, levandosi, trovasse la casa ravviata, e tutto in ordine; e donna Ferdinanda, dopo aver discorso del proprio credito, cominciava a fare le sue osservazioni sulle faccende dei nipoti: se desinavano troppo tardi per seguire la moda italiana portata da quella bestia del duca; se il venerdì comperavano il pesce troppo caro, quando avrebbero potuto contentarsi, come lei, del baccalà; se davano alla cameriera tutto il trattamento invece della sola minestra come usava lei stessa in casa propria. E a poco a poco ficcava il naso in tutte le cose più minute, più intime: rivedeva i loro conti, esaminava la nota della lavandaia, criticava la compera degli strofinacci, dettava sentenze di economia domestica, biasimava il largo spendere di Benedetto dopo essersi opposta al matrimonio perché i Giulente erano «pezzenti». Benedetto non si stancava di quella vigilanza curiosa e minuziosa, in grazia della benevolenza di cui gli pareva prova; anzi, per ingraziarsela meglio, invitava la zia una volta la settimana a desinare e un’altra a colazione; ma la zitellona, che non si faceva molto pregare e che sfruttava in ogni modo i nipoti, esercitava con sempre maggiore autorità la sua critica, voleva essere ascoltata in tutto e per tutto; non potendo prendersela con Benedetto, il quale le stava dinanzi come un servitore, punzecchiava la nipote perché si levava tardi, perché fino a mezzogiorno restava discinta, coi capelli sulle spalle e i piedi nelle pantofole; tanto che finalmente questa disse a suo marito:

«Mi comincia a seccare, sai!»

Allora, per farle piacere, non importandole il broncio della zia, egli diradò gli inviti; ma quando credeva di mettersi a tavola solo con sua moglie, vedeva spuntare la zitellona, che Lucrezia aveva chiamata. Mutava facilmente opinione, Lucrezia, da un momento all’altro; e tutti la secondavano, non solo suo marito, ma anche il suocero e la suocera: la covavano con gli occhi come una cosa preziosa, la contentavano a un cenno, la servivano all’occorrenza. Così ella si alzava ogni giorno un poco più tardi, restava un paio d’ore senza far nulla, senza neppure lavarsi; vestita finalmente, se ne andava talvolta dalla sorella Chiara, che non era ancora partorita, avendo sbagliato i conti d’un mese; ma più spesso al palazzo, dove aveva giurato di non metter più piede, ma restava invece tanto che spesso suo marito doveva passare a rilevarla all’ora del desinare. Ci tornava anche la sera per prender parte alla solita conversazione; talché, tutto sommato, e tolte le ore del sonno, ella stava più nella casa paterna che nella maritale. I Giulente, del resto, giudicavano naturale che ella cercasse dei suoi parenti, né Benedetto pensava a rammentarle gli antichi propositi; quando, un bel giorno, offertosi come al solito di accompagnarla al palazzo, si udì rispondere: «M’hanno da tagliare tutt’e due le mani, se vado più in quella casa!»

«Che è stato? Che t’hanno fatto?…»

«Che m’hanno fatto? Leggi!»

Il principe aveva ritardato di settimana in settimana il pagamento delle ultime tremila onze; adesso finalmente mandava, per mezzo del signor Marco, in piego suggellato diretto a Benedetto, un nuovo conto. Lucrezia l’aveva aperto; c’era un passivo, dove figuravano le spese della festa di nozze: un totale di centoventicinque onze. Notati gli spumoni, i dolci, i pacchi di candele, l’olio delle lampade Carcel; ad ogni persona di servizio un’onza di regalo; dieci onze di fiori, dodici tarì di carrozze pagate a Baldassarre e persino quindici tarì di piatti rotti. Quando Giulente lesse quella nota, si mise a ridere di cuore, tanto gli parve buffa la grettezza spinta a tal segno; ma Lucrezia era furibonda contro il fratello.

«Che trovi da ridere? È una schifezza senza esempio!… Per questo ordinò le cose largamente!… Ma trent’onze di dolci, chi li ha mangiati? Cento rotoli di roba? E quelle quattro rose che mandò a cogliere al Belvedere? E i piatti rotti?…»

Quantunque suo marito cercasse di calmarla, dimostrandole che in fin dei conti il principe non era obbligato a spendere del proprio, ella non intendeva ragione, spiattellava il resto, ciò che prima aveva negato a se stessa:

«Non era obbligato? E il frutto della mia dote che s’è pappato per sei anni? misurandomi il pane? senza ch’io fossi padrona di comperarmi uno spillo?… E la transazione a cui m’obbligò, prendendomi per il collo, per consentire al nostro matrimonio? E Ferdinando spogliato con me?… Se lo guardo più in faccia, non sono più io!…»

Non andò più infatti al palazzo; ma il principe, da canto suo, non venne più da lei; alla moglie, che voleva far qualche visita alla cognata, ordinò rigorosamente di astenersene. La cugina Graziella, che a stento era stata a trovare una volta gli sposi, seguì l’esempio del capo della casa; talché Lucrezia cominciò a dire il fatto suo anche a quest’altra pettegola:

«Non vuol venire a casa mia? L’onore sarebbe stato tutto suo! Guardate un po’ questa boriosa che mia madre non fece valere un fico secco, darsi adesso il tono di non so chi! Credono di farmi dispiacere non venendo a casa mia? Non sanno che non cerco di meglio? Che non voglio veder più nessuno?»

Don Blasco, da canto suo, non aveva messo piede neppure una sola volta dagli sposi; e Lucrezia, dichiarandosene contenta, diceva anche tutte le pazzie e le porcherie del monaco. Ella l’aveva anche con la sorella Chiara, senza che questa le avesse fatto nulla, e la derideva per l’eterna gravidanza che non veniva a fine, quantunque giunta al decimo mese. Se la prendeva insomma con tutti, e alla contessa Matilde che la veniva a trovare come prima:

«Dillo tu,» diceva, «che razza di gente! Quante te n’han fatto vedere, ah? Quel birbante di tuo marito? Tutti quegli altri che gli hanno tenuto il sacco, quando egli andava dietro a quella?…»

Impallidendo, poi arrossendo a quei discorsi, Matilde tentava nondimeno di metter buone parole; ma l’altra rincarava:

«E li difendi, anche? Lasciali andare!… Tutti di una pasta!… Chi sa quante ne vedrai ancora, povera disgraziata!… Per me, ringrazio Dio d’essere uscita da quella galera!… Credono che io mi debba rinchinare?… M’importa assai di loro e delle loro visite!…»

Ora un giorno, rincasando, Benedetto, che per secondare la moglie, non già per sentimento proprio, aveva chinato il capo a quelle sfuriate, la trovò seduta accanto a don Blasco, al quale serviva biscotti e rosolio… Il monaco, non vedendo più Lucrezia al palazzo, saputo della rottura tra fratello e sorella, era apparso come una malombra dinanzi alla nipote. E Lucrezia, che aveva gettato fuoco e fiamme, s’era subito alzata per baciargli la mano: «Come sta Vostra Eccellenza?… Mio marito è andato fuori… Se Vostra Eccellenza si ferma un poco, non tarderà a venire…» E mentre lo aspettavano, il monaco s’era fatto raccontare tutto l’accaduto. Agli sfoghi di lei contro Giacomo e la cugina, egli pareva ingrassare nel seggiolone; ma non esprimeva il proprio parere, non si schierava né da una parte né dall’altra; scrollava il capo soltanto, per dar la corda alla narratrice. Arrivato Benedetto, che non credeva ai propri occhi, il monaco si lasciò baciar la mano dal nuovo nipote, chiacchierò di tutto un poco, mangiò un altro biscotto, ci bevve su un altro bicchierino, e andò via accompagnato dagli sposi fino al pianerottolo. Da quel giorno, Benedetto non se lo potè più levar di torno. Veniva continuamente, a ore diverse, quando meno se l’aspettavano; una strappata di campanello lo annunziava, brusca, forte, padronale; e una volta entrato, cominciava a girondolare come un trottolone, parlando di centomila cose, guardando in tutti gli angoli, frugando su tutti i mobili, leggendo tutte le carte, dicendo la sua sulle faccende dei nipoti peggio che donna Ferdinanda, ma andando via appena spuntava costei. Benedetto non era più padrone di casa propria, giacché nulla sfuggiva alla doppia critica della zitellona e del monaco; ma egli la soffriva allegramente, contento di vedersi oramai trattato da tutti gli Uzeda, solo dolente della freddezza sorta col principe per causa non propria. Ma ciò che faceva sua moglie era per lui sempre ben fatto, ed ella, che aveva preso al suo servizio Vanna, dalla quale era informata di tutto ciò che avveniva al palazzo, sfogava con lo zio Blasco contro il fratello, lo accusava di averla rubata, di aver rubato Chiara, di voler rubare adesso Raimondo:

 

«Lo spinge lui contro la moglie! Dicono che gli ha detto: “Che ci stai a fare qui?” Per metter legna sul fuoco! Deve avere il suo piano! Non è tipo da far nulla per nulla! E Raimondo parte con Matilde, per Milazzo, dice. Ma è troppo stupida, insomma, mia cognata! Io ho cercato di aprirle gli occhi perché mi fa pena. La cosa non finirà bene!… Non si sono consigliati con Benedetto sullo scioglimento del matrimonio?… Io gli ho detto di non mescolarsi in questi pasticci!…»

Ella non diceva che Benedetto, mandato a chiamare da donna Ferdinanda, in casa della quale Raimondo lo aspettava, lusingato da una confidenza delicatissima sopra un affare intimo, se aveva dapprima lottato con la propria coscienza, s’era a poco a poco lasciato vincere dall’onore che la zitellona gli faceva, mettendolo a parte d’un secreto di famiglia, sollecitando i consigli di un parente piuttosto che quelli d’un primo venuto. E questa idea aveva vinto i suoi scrupoli. Un estraneo, un azzeccagarbugli capace di tutto per amore di far quattrini, non sarebbe stato più da temere, non avrebbe consigliato di porre subito mano alla causa? Invece egli confidava di riuscire a metter pace fra marito e moglie; fino all’ultimo momento ce ne sarebbe stato il tempo. Poi, gli ostacoli enormi da superare finivano di rassicurarlo. Lo scioglimento d’un matrimonio era impresa difficilissima; ma donna Ferdinanda voleva scioglierne due: quello della Fersa e quello di Raimondo, e i motivi mancavano, mancavano perfino i pretesti, da una parte e dall’altra.

Che male commetteva egli dunque rienumerando i motivi necessari, dei quali il cognato gli aveva già chiesto una prima volta, e discutendo con la zitellona la via che si sarebbe dovuto tenere se qualcuno di quei motivi fosse realmente esistito? Non era una pura accademia, una specie di lezione di diritto canonico, come quella del suo antenato, che il cavaliere don Eugenio, Gentiluomo di Camera, aveva elogiato?… Nondimeno, una segreta soggezione lo impacciava dinanzi a Matilde, sentendosi già complice della trama ordita contro la poveretta. La contessa, però, mostravasi più serena e confidente che al tempo del suo arrivo in casa Uzeda; a poco a poco ella s’era lasciata vincere dalla speranza, vedendo che Raimondo non parlava più di tornare in Toscana, che le prometteva di condurla, subito dopo il parto di Chiara, a Milazzo per raggiungere le bambine e poi a Torino, dove il padre di lei, placatosi, li aspettava. Come suo padre aveva dimenticato i severi propositi contro Raimondo, anche Raimondo non poteva aver dimenticato l’amore di quell’altra?… Non finiva tutto, col tempo?…

E Chiara non partoriva. Il secondo nono mese stava per finire e il suo ventre non si sgonfiava. I dolori e le trafitture erano continui, oramai; ma, col coraggio dei maniaci, non ne diceva niente a nessuno, ostinata a voler sgravarsi senza aiuto di medici o di levatrici. Il guaio fu che, compiuto il decimo mese, ella non si liberava ancora. Certamente, aveva sbagliato il calcolo; ma, al marito, ai parenti che la esortavano a chiamare qualcuno:

«Non voglio nessuno!» rispondeva cocciuta, per partorire da sola.

«Questa è nuova!» gridava don Blasco, il quale voleva ficcare il naso anche nel ventre della nipote. «Una gravidanza di dieci mesi dove s’è vista? Meno male se durasse dodici, quanto l’asina che sei!»

Infatti, era cominciato l’undicesimo mese, secondo il primo calcolo. E una sera che ella non ne poteva più, che si sentiva morire e non riusciva a nascondere le proprie doglie, suo marito, spazientito per la prima volta dopo otto anni di matrimonio, gridò:

«Se qui non viene un dottore, mi prendo il cappello e me ne vado.»

Venne il dottor Lizio e si chiuse con la partoriente, mentre il marchese aspettava ansioso nel salotto, coi parenti. Udendo che il chirurgo schiudeva l’uscio e chiamava, corse a domandargli, trepidante:

«Dottore!… È sgravata?»

«Ma che sgravare e aggravare d’Egitto!» esclamò Lizio. «Vostra moglie ha una ciste all’ovaia grande come una casa. Un altro poco, ed era spacciata!…»

3

A San Nicola, dopo la sistemazione del governo italiano, si faceva la stessa vita di prima, come al tempo dei napolitani; anzi era questo uno degli argomenti sfoderati dai liberali contro i sorci, durante le discussioni politiche che s’impegnavano continuamente all’ombra dei chiostri.

«Avete visto? A darvi ascolto doveva succedere il finimondo, dovevano mandare all’aria il convento, e invece è sempre ritto…»

Pel momento i monaci seguitavano a far l’arte del Michelasso. Il principino, crescendo, indiavolava. Prepotente coi fratelli, incuteva adesso un vero terrore ai camerieri, dai quali pretendeva le cose più proibite: coltelli arrotati per lavorar canne delle quali faceva, cerchiandole di fil di ferro, schioppi e pistole; polvere da sparo per caricare queste armi che gli potevano scoppiare, Dio liberi, tra le mani e accecarlo di tutt’e due gli occhi; razzi e tric-trac e altri fuochi artifiziati per cavarne la polvere, oppure zolfo, salnitro e carbone per farla da sé. Aveva una inclinazione istintiva e invincibile per la caccia: nel giardino, durante la ricreazione, non potendo far altro, tirava sassate agli uccelli, a costo di spaccar la testa a qualche compagno, o s’arrampicava sui muri per distruggere i nidi dei passeri a rischio di fiaccarsi il collo egli stesso. E quando i camerieri non lo contentavano, non gli procuravano le reti, il vischio, la polvere, li strapazzava, li denunziava al maestro per colpe inventate di pianta, li metteva a più dure prove buttando all’aria ogni cosa nella propria camera dopo che essi l’avevano rifatta… La smania di fumare non gli era neppure passata. Attribuendo alla cattiva preparazione del tabacco l’ubriacatura presa al tempo della rivoluzione, volle fumare sigari per davvero, e prese un’ubriacatura più terribile della prima. Scoperto anche questa volta, il maestro si decise a dargli un gran castigo, vietandogli di uscire per una settimana; ma poi la settimana fu ridotta a tre giorni, grazie all’avvicinarsi del Natale.

Ogni anno, per questa ricorrenza, ciascuno dei novizi doveva recitare una predica, e riceveva in premio un’onza di quattrini, quasi tredici lire della nuova moneta, più una scatola di cioccolata e due galletti vivi. La predica di Natale toccava quell’anno ‘61 a Consalvo Uzeda: l’aveva scritta il Padre bibliotecario, che era letterato, perciò invece che nelle poche paginette degli altri anni, consisteva in un bel quadernetto. Egli che aveva una memoria di ferro e una faccia tosta a tutta prova aspettava la cerimonia con una tranquillità e una sicurezza ignote ai compagni, ai quali i regali costavano quindici giorni d’ansia e uno di vera paura. Il giorno della funzione, il Capitolo dove i monaci avevano già preso posto nei loro stalli fu invaso dalla consueta folla dei parenti maschi: le donne, per via della clausura, restavano accanto, nella sacrestia, della quale lasciavansi spalancate le porte. Tutti esclamarono piano: «Che bel ragazzo! Com’è franco e sicuro!» quando il principino, vestito della candida cotta piegolinata, salì sul pulpito, guardò tranquillamente la folla degli spettatori e spinse uno sguardo alla sacrestia rigirandosi tra le mani il rotoletto del manoscritto e tossicchiando un poco, prima di cominciare. Sotto lo stallo dell’Abate, in mezzo al principe, al duca d’Oragua, a Benedetto Giulente, don Eugenio diceva: «Guardate che padronanza! Se non pare un predicatore consumato!» Ma la stupefazione crebbe a dismisura quando il ragazzo, aperto il fascicolo e datavi un’occhiata, lo abbassò, recitando a memoria: «Reverendi Padri e fratelli dilettissimi, era una notte del più rigido verno, allorquando in una stalla di Nazaret…» e tirando poi via sino in fondo senza guardare neppure una volta lo scartafaccio, gestendo, facendo pause, cambiando il tono della voce come un oratore provetto, come un vecchio attore sul palcoscenico. Finito che ebbe, risceso che fu, per miracolo non lo soffocarono dagli abbracci, dai baci; la principessa aveva le lacrime agli occhi, donna Ferdinanda anche lei era commossa; ma, quantunque muta, l’ammirazione del deputato, al quale la sola idea della folla serrava la gola e annebbiava la vista, non era la meno profonda. «Che presenza di spirito! Che franchezza!…» e tutte le signore lo attiravano, l’abbracciavano, lo baciavano in viso: egli lasciava fare, restituiva i baci sulle guance fresche e profumate, torceva il muso dinanzi alle flosce e grinzose; e oltre ai regali del convento intascava le lire che gli davano gli zii. Il più contento, con tutto questo, era fra’ Carmelo: gli pareva d’essere l’autore di quel trionfo, d’aver diritto ad una parte degli applausi, delle congratulazioni, dei baci delle signore. Non aveva covato con gli occhi quel ragazzo nei cinque anni del noviziato? Non aveva vantato il suo ingegno, predetto la sua riuscita? I maestri si lagnavano perché non amava lo studio: doveva dunque fare il medico o l’avvocato o il teologo? Ai Benedettini ci stava per ricevere l’educazione conveniente alla sua nascita; poi sarebbe andato a casa sua a fare il principe di Francalanza!

E questo era il giorno che Consalvo aspettava; per l’impazienza di non vederlo arrivare, per farsi mandar via, egli sfrenavasi sempre più, metteva con le spalle al muro non più i fratelli e i camerieri, ma lo stesso maestro. Durante la rivoluzione e subito dopo, i Tignosi avevano tolto dal convento Michelino, i Cùrcuma Gasparino, i Cugnò Luigi; né altri novizi erano entrati, fuorché Camillo Giulente, giacché dicevasi che il governo avrebbe soppresso i conventi. Restavano soltanto coloro che le famiglie destinavano a professarsi, Giovannino Radalì, fra gli altri, il «figlio del pazzo». Morto suo padre, la duchessa, per amore del primogenito, destinava il secondo a farsi monaco. Ma Consalvo, che non doveva professarsi, voleva andar via, al più presto, subito; e invece suo padre, ogni volta che egli gli domandava: «Quando tornerò a casa?» rispondeva col solito suo fare secco e freddo che non ammetteva replica: «Ho da pensarci io!» E non ci pensava mai, e il ragazzo sentiva crescere l’avversione che quel padre rigido, del quale non rammentava una buona parola, gli aveva ispirata. Quando andava a casa in permesso, egli stava un momento con la mamma, poi se ne scendeva giù nella corte, passava in rivista i cavalli e le carrozze, domandava il nome di tutti gli arnesi delle scuderie; e la tonaca gli pesava, perché non gli permetteva di salire a cassetta e d’imparare a guidare. Aveva tempo di spassarsi, gli diceva Orazio, il nuovo cocchiere, poiché Pasqualino era partito per Firenze al servizio dello zio Raimondo; ma egli voleva spassarsi subito, sottrarsi alla tutela dei monaci, fare quel che gli piaceva. E all’idea di dover tornare nella prigione del convento, invidiava perfino le persone di servizio, il figlio di donna Vanna, Salvatore, che era entrato in casa Uzeda come mozzo di stalla, e passava tutto il santo giorno a cassetta, scarrozzando per la città. Consalvo lo invidiava e lo ammirava per le tante cose che sapeva, per le male parole che diceva liberamente; e fra’ Carmelo, sonata l’ora di ricondurlo al convento, doveva sgolarsi un bel pezzo prima di stanarlo dalla stalla o dalla scuderia.

«Che hai fatto?» gli domandavano la mamma e la zia.

«Nulla,» rispondeva, un po’ rosso in viso.

Era stato ad ascoltare i discorsi di Salvatore, che gli narrava le gesta di tanti Padri Benedettini:

«La notte se n’escono per andare a trovar le amiche, e certe volte le conducono con loro, nello stesso convento, avvolte nei ferraioli: il portinaio finge di capire che son uomini!… Vostra Eccellenza che c’è dentro non le ha mai viste?…»

Non aveva visto nulla, lui; e tutte quelle cose apprese in una volta lo stupivano e lo turbavano.

«Ma non è peccato?…»

«Eh!…» faceva il famiglio. «Se avessero cominciato essi! Hanno fatto sempre così, i monaci! I fratelli non sono quasi tutti figli dei vecchi Padri?»

«Anche fra’ Carmelo?»

«Fra’ Carmelo?… Fra’ Carmelo è un’altra cosa… È bastardo del bisnonno di Vostra Eccellenza, fratello spurio di don Blasco…»

«Perciò mio zio?»

«E Baldassarre anche lui… fratello bastardo del signor principe… Si sono spassati i signori Uzeda!… Poi, quando sarà grande, si divertirà anche Vostra Eccellenza!…»

Ah, come aspettava di crescere! Con quanta impazienza, con qual rancore verso il padre vedeva scorrere i giorni, le settimane, i mesi e gli anni, in quella prigione! Con qual animo udiva adesso le prediche severe dei monaci, dopo aver saputo la loro vita! Spesso discorreva di queste cose secrete con Giovannino, gli diceva quel che avrebbe fatto appena fuori del convento; e Giovannino stava a sentire con aria stralunata, quasi non capisse. Era così quel ragazzo, alle volte furioso come un diavolo, alle volte inerte come uno scemo. Voleva anche lui andar via dal convento, e dava, a giorni, in ismanie terribili; ma poi si persuadeva dei ragionamenti della duchessa sua madre, che i quattrini di casa erano tutti del fratello Michele, che a San Nicola sarebbe stato da signore, fra tanti altri signori, e si chetava, non pensava più a scapparsene, non invidiava la futura libertà di Consalvo.

 

Finita l’agitazione politica, era venuta meno una gran causa di risse al Noviziato e tra i Padri; ma questi avevano trovato un’altra ragione di battagliare. Le voci relative alla prossima soppressione dei conventi erano state confermate da Roma; non poteva passar molto che il governo degli usurpatori avrebbe messo le mani sui beni della Chiesa. Don Blasco s’era nettata la bocca contro i liberali, i fedifraghi, nemici di Dio e di loro stessi, che non avevano voluto dargli retta. Adesso però, più che gridare, bisognava prendere un partito in previsione di quell’avvenimento. A San Nicola s’era sempre speso allegramente tutta la rendita del convento, nella certezza che la cuccagna sarebbe durata sino alla fine dei secoli; ma col mondo sottosopra, col pericolo che il governo abolisse dabbero le corporazioni religiose, non era più conveniente moderare le spese, perché il più corto non rimanesse poi da piede? L’Abate, come sempre, aveva preso consiglio prima di tutto dal Priore. Padre don Lodovico, modestamente, non aveva voluto pronunziarsi: «Che posso dire a Vostra Paternità? L’avvenire è nelle mani di Dio. Dalla nequizia dei tempi c’è tutto da aspettarsi. I nemici della Chiesa son capaci di questo e d’altro. Non mi stupirei se ricominciassero le persecuzioni dell’infernale Ottantanove.» Egli era sincero nel suo livore contro il nuovo ordine di cose, che da principio aveva appoggiato per politica, per tenersi bene con la nuova potestà temporale. Ma la soppressione dei conventi distruggeva tutti i suoi sogni di rivincita, di predominio, d’onori. Che cosa gl’importava ora mai del bilancio di San Nicola, mentre pericolava tutto il proprio avvenire, il frutto di quindici anni di politica, mentre egli doveva pensare a una nuova via da battere, a un altro scopo verso il quale dirigere la propria attività? E quel poveromo dell’Abate insisteva per avere la sua opinione sulle miserie della spesa quotidiana! «Dimmi tu come debbo regolarmi! Che cosa faresti al mio posto?…» Un momento, don Lodovico provò la tentazione di levarselo dai piedi; ma, chinato il capo, con maggiore umiltà di prima, rispose: «Vostra Paternità è troppo buona! Le economie mi sembrano sempre lodevoli. Se il Signore non permetterà che i suoi servi siano messi alla prova, avremo qualche cosa di più da destinare alle opere buone…» Così l’Abate s’era pronunziato pel risparmio, d’accordo col Capitolo; ma i monaci non furono tutti d’un sentimento. Tra quelli che non credevano possibile la soppressione, tra gli altri che temevano di dover rinunziare al lusso di cui avevano sempre goduto, il partito delle economie trovava molti oppositori. In mezzo ai due campi don Blasco non voleva né tenere né scorticare, scaraventandosi a un tempo contro gli uni e gli altri. Combattere il sistema delle economie con la speranza che il governo non commetterebbe la spogliazione, egli oramai non poteva più, se questa spogliazione aveva prevista e rinfacciata ai traditori liberali; e del resto le economie destinate ad essere spartite tra i monaci in caso di scioglimento erano nel suo modo di vedere, poiché egli avrebbe avuto la propria parte, uscendo dal convento; però non voleva rinunziare allo scialo cui era avvezzo, e poi lo stesso fatto che questo partito era capitanato dall’Abate e dal nipote Priore e da tutti quelli del Capitolo faceva che egli si scagliasse contro di loro, chiamandoli «lerci straccioni», gridando: «Vadano a fare i locandieri o i bottegai! Si mettano a vender l’olio, il vino e il caciocavallo! A questo son buoni! Per questo mestiere sono nati!…» Udendo dall’altro canto i patriotti cullarsi nella certezza che il governo, in ogni caso, avrebbe pensato a loro, s’evacuava: «il governo vi butterà fuori a pedate e vi porgerà il sedere da baciare! Giuda vendé Cristo, ma n’ebbe almeno trenta denari. A voialtri toccheranno calci nel preterito per giunta!…»

In fondo, all’idea della spartizione dei quattrini, di possedere finalmente qualcosa di suo, era per le economie, pure combattendole. Del resto a San Nicola la spesa era grande non tanto per il valore delle cose acquistate, quanto pel modo regale di sperperare i quattrini, di compensare il più piccolo lavoro, di far godere ai primi venuti il ben di Dio accatastato nei sotterranei del convento. Con un certo ordine, lasciando che i cuochi rubassero un po’ meno di prima, che i fratelli destinati al governo dei feudi s’arricchissero in un tempo un poco più lungo del consueto, c’era da riporre, ogni anno, una somma che avrebbe fatto l’agiatezza di parecchie famiglie. Ma le case regalate ai protetti dei monaci, per esempio, non bisognava toccarle: don Blasco avrebbe voluto veder proprio questo, che avessero tolta la bottega e il quartierino alla Sigaraia! E né lui né gli altri volevano rinunziare ai loro diritti: spesato ed alloggiato, ciascun Padre aveva tre rotoli d’olio al mese, una soma di carbone, una salma di vino, tutta roba che andava a finire dalle amiche. Ora i risparmi stavano bene; ma ciascuno pretendeva il suo.

L’Abate, o di buona o di mala voglia, doveva lasciarli fare. Egli del resto chiudeva adesso un occhio, perché aveva da propiziarseli. Camillo Giulente, compiti vent’anni ed espressa la ferma decisione di pronunziare i voti, era passato al Noviziato formale. C’era stato bisogno di una votazione, per questo, e l’opposizione contro l’intruso, scatenatasi più violenta, aveva gridato e minacciato alto per impedire la sanzione dello scandalo. Ma l’Abate aveva insistito personalmente presso tutti i Padri, raccomandando quel ragazzo, facendo rilevare le sue eccellenti qualità, il profitto ricavato negli studi, la sua triste situazione di orfano povero. Ai capoccia aveva fatto parlare dal Vescovo e scrivere dai parenti, dalle persone che potevano esercitare qualche influenza sull’animo loro: così qualcuno s’era piegato, altri aveva dato una promessa in aria, e insomma nonostante le grida e i complotti, Giulente era stato ammesso, ma per pochi voti. La notizia aveva fatto chiasso: i nobili improvvisati, di fresca data, se ne erano rallegrati come di una fortuna loro propria, riconoscendo l’influsso dei nuovi tempi, l’azione spregiudicata dei Padri liberali; ma, tra i puri, lo scandalo durava ancora.

Adesso, passato l’anno di prova, innanzi che il novizio potesse pronunziare i voti, bisognava che il Capitolo rinnovasse lo scrutinio. L’Abate, quantunque sicuro del fatto suo, pure trattava tutti con le molle d’oro, s’affidava a don Lodovico, gli esponeva le nuove ragioni che dovevano indurre i monaci a dire di sì. Dopo un primo voto favorevole era mai possibile darne uno contrario, se durante tutto questo tempo il giovanotto era stato il vivente esempio del rispetto, dell’umiltà, dello zelo religioso? Del resto, se quel che si temeva dovesse realmente accadere, se il governo avesse soppresso i conventi, che fastidio poteva dare il nuovo monaco agli antichi? Era bene, anzi, nelle tristizie dei tempi, far vedere ai persecutori della Chiesa che lo stato monastico rispondeva a un vero bisogno sociale, se, col pericolo di non goderne più i vantaggi, i giovani chiedevano egualmente di sopportarne i pesi…