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«E Ferdinando?» domandò Chiara

«Non è venuto?… Ah!» Egli si battè a un tratto la fronte. «Dovevo passar io ad avvertirlo!… Me ne sono scordato!… Baldassarre!… Baldassarre!…»

Ma, sul più bello, don Blasco, il quale aveva tenuto d’occhio la valigia quasi ci fosse dentro roba di contrabbando, lo tirò per la manica, domandando: «E il testamento?»

Il principe, con un altro tono di voce, non più dolente, ma premuroso, pieno di scrupoli:

«Il signor Marco qui presente» rispose, «m’ha comunicato che le ultime volontà di nostra madre sono depositate presso il notaio Rubino. Noi aspetteremo, se credete, l’arrivo di Raimondo e dello zio duca… Frattanto, abbiamo suggellato tutto quel che s’è trovato, per renderne stretto conto, a suo tempo, a chi di ragione… Il signor Marco possiede però un documento che riguarda i funerali… Credo che di questo si debba dar subito lettura…»

E il signor Marco, tratto di tasca un foglio, lesse in mezzo a un profondo silenzio:

«In questo giorno, 19 maggio 1855, trovandomi sana di mente e non di corpo, io sottoscritta, Teresa Uzeda principessa di Francalanza, raccomando l’anima a Dio e dispongo quanto appresso. Il giorno che piacerà al Signore chiamarmi con sé, ordino che il mio corpo sia affidato ai Reverendi Padri Cappuccini affinché sia da essi imbalsamato e nella necropoli del loro cenobio custodito. Voglio che il funerale sia celebrato, con quel decoro che compete alla famiglia, nella chiesa dei detti Padri in segno della mia devozione alla Beata Ximena, nostra gloriosa parente, la cui salma nella loro chiesa si venera. Durante il funerale e dopo che il mio corpo sarà imbalsamato, voglio, ordino e comando che esso sia vestito della tonaca delle Religiose di San Placido, e che alla cintura mi sia messa la corona del Santissimo Rosario donatami dalla mia diletta figlia Suor Maria Crocifissa il giorno della sua monacazione, e che sul petto mi sia posto il crocifisso d’avorio, memoria del mio amato consorte principe Consalvo di Francalanza. In segno di particolare penitenza ed umiltà, espressamente impongo che il mio capo sia appoggiato sopra una semplice e nuda tegola: così voglio e non altrimenti. Per la necropoli dei Cappuccini ordino che si costruisca una cassa a cristalli, dentro alla quale sarà posto il mio corpo nel modo di cui sopra; essa avrà una serratura con tre chiavi delle quali una rimarrà a mio figlio Raimondo conte di Lumera, la seconda, in segno di speciale benevolenza pei servigi prestatimi, al signor Marco Roscitano, mio procuratore e amministratore generale, e la terza al reverendo Padre Guardiano di esso cenobio dei Cappuccini. Nel caso però che il detto signor Roscitano dovesse lasciare l’amministrazione della mia casa, ordino che la chiave passi all’altro mio figlio Lodovico, Priore nel monastero di San Nicola dell’Arena. Questa è la mia volontà e non altra.

Teresa Uzeda»

Il signor Marco, che s’era rispettosamente inchinato al passaggio relativo alla sua persona, abbassò il foglio; il principe disse guardando in giro gli astanti:

«Le volontà di nostra madre sono leggi per noi. Sarà fatto secondo ha prescritto.»

«In tutto e per tutto…» confermò il Priore, chinando il capo.

Don Blasco, che soffiava come un mantice, non aspettò neppure che l’adunanza si sciogliesse. Afferrato il marchese per un bottone del soprabito, esclamò:

«Sempre pulcinellate?… Fin all’ultimo?… Per far ridere la gente?…»

E il signor Marco era appena salito al primo piano, nelle stanze dell’amministrazione contigue al suo quartierino, per dare ai dipendenti gli ordini opportuni, che le persone venute a cercarlo si presentarono a lui. Il ceraiolo di San Francesco veniva a offrire cera di prima qualità, lavorata all’uso di Venezia, a sei tarì; il maestro Mascione portava una lettera dell’avvocato Spedalotti, il quale pregava il signor Marco di far eseguire la messa di requiem del giovane compositore; Brusa, il pittore, sollecitava l’appalto della decorazione pel funerale solenne della principessa…

«Come sapete che ci sarà un funerale solenne?»

«Per una signora come la principessa!»

«Ripassate domani…»

E Baldassarre chiamava:

«Signor Marco! Signor Marco!… Il principe!…»

Ma nuovi postulanti sopravvenivano. Nessuno l’aveva ancor detto, ma si sapeva che la principessa di Francalanza non poteva andare all’altro mondo senza una gran cerimonia, senza un gran scialacquo di quattrini, e ognuno sperava di guadagnarne. Raciti, il primo violino del Comunale, voleva offrire la messa funebre di suo figlio; saputo che Mascione aveva ottenuto una lettera di Spedalotti, era corso a sollecitare la raccomandazione più valevole del barone Vita; Santo Ferro, che aveva la manutenzione del giardino pubblico, sperava gli commettessero la camera ardente, e poiché Baldassarre, dal cortile, tornava a chiamare:

«Signor Marco! Signor Marco!… Il principe!…» il signor Marco si sbarazzò bruscamente dei postulanti:

«Ma andate al diavolo!… Ho altro da fare, adesso!»

Un formicaio, la chiesa dei Cappuccini nella mattina del sabato, che neppure il Giovedì Santo tanta gente traeva a visitarvi il Sepolcro. Tutta la notte era venuto dalla chiesa un frastuono di martelli, d’asce e di seghe, e le finestre erano state abbrunate fin dal giorno precedente. A buon’ora, dinanzi alla folla curiosa che gremiva la terrazza e le scalinate, avevano inchiodato sulla porta maggiore il drappellone di velluto nero con frange d’argento, sul quale leggevasi a caratteri d’oro:

PER L’ANIMA

DI

DONNA TERESA UZEDA E RISÀ

PRINCIPESSA DI FRANCALANZA

ESEQUIE

Verso sedici ore, don Carlo Canalà, col naso in aria, sotto la porta spiegava al principe di Roccasciano, tra le gomitate di quelli che entravano continuamente:

«Veda: all’esterno non giudicai conveniente… dilungarmi del soverchio.. Massima semplicità: per l’anima… esequie… Penso che nella sua concisione… per avventura…»

Ma gli urti, le pestate di piedi, le esclamazioni dei curiosi non gli consentivano di filare il discorso; la gente sbucava a torrenti da tutte le parti, sospingevasi in chiesa, calpestava i mendicanti venuti a mettersi accosto alle porte ed ai cancelli per far baiocchi.

«Sol esso il nome… onde i concetti, per avventura…»

Alla fine, don Cono si decise anch’egli ad entrare; ma, separato dal compagno, fu travolto, come un chicco di caffè nel macinino, dal turbine umano che per il troppo angusto passaggio s’ingolfava nella chiesa.

Essa era buia, pei veli delle finestre, pei manti neri che rivestivano le pareti e pendevano dalle arcate delle cappelle e si stendevano lungo il cornicione. Sopra una piattaforma alta sei o sette gradini dal pavimento e girata da una triplice fila di ceri, sorgeva il catafalco: una piramide tronca le cui quattro facce, tappezzate d’ellera e di mortella, portavano nel mezzo, disegnati a fiori freschi, quattro grandi scudi della casa di Francalanza. Al sommo della piramide, due angeli d’argento inginocchiati da una sola gamba aspettavano di reggere il feretro. Ad ogni angolo inferiore del catafalco, su tripodi d’argento, erano confitte quattro torce grosse quanto le stanghe, con uno scudo di cartone legato a mezz’asta; sei valletti con le livree del secolo XVIII, rosse, nere e dorate, impalati come statue, con le facce rase di fresco, reggevano ciascuno una delle antiche bandiere d’alleanza; dopo i valletti dodici prefiche, vestite di neri manti, coi capelli scarmigliati, stavano tutt’intorno al catafalco coi fazzoletti in mano, per asciugarsi le lacrime. Ma bisognava lavorar di gomiti, camminare sui piedi dei vicini, lasciarsi ammaccare le costole e pestare i calli e sudare una camicia prima d’arrivare a quell’apparato, intorno al quale una folla d’operai, di servi, di donnicciuole stava estatica ad ammirare, in attesa del corteo, il finto marmo della piattaforma, le urne di cartone scaglionate sui gradini, le lacrime di carta argentata gocciolanti dai veli neri: «Una galanteria!… Una cosa mai vista!… Per questo sono signoroni!… Lasciate fare a loro!… E dodici piangenti!… Neanche pel funerale del papa!… Ma il cadavere è già posto al colatoio per l’imbalsamazione.» E Vito Rosa, il barbiere del principe, spiegava: «Appena sceso dal Belvedere fu portato a palazzo e gli fecero girare gli appartamenti per l’ultima volta, come usano… Il cataletto era portato a spalla, senza stanghe… e tutta la parentela dietro, la servitù con le torce accese, come una processione!…» Le comari esclamavano: «E una tegola sotto il capo!… Che gli mancavano forse cuscini di velluto?… Anzi, questo è per maggior penitenza, con la tonaca di San Placido: non capite?»

Ma la gente incalzava alle spalle e i discorsi s’interrompevano, i primi arrivati dovevano cedere il posto, se ne andavano sotto il palco dell’orchestra, eretto a ridosso dell’organo, con quattro ordini di panche e i manichi dei contrabbassi che spuntavano dal più alto, ma ancora vuoto; o giravano dalla parte opposta, verso la cappella della Beata Uzeda, tutta splendente di lampade votive; e si fermavano, una volta fuor della ressa, a guardare l’altare scavato dove si vedeva, attraverso un vetro, la cassa antica rivestita di cuoio, che racchiudeva il corpo della santa donna; poi tentavano tornare verso il centro della chiesa per leggere le iscrizioni attaccate agli altri altari; ma la folla era adesso compatta come un muro. Don Cono Canalà, data un’occhiata all’apparato, aveva tentato tre o quattro volte, per conto suo, d’avvicinarsi a qualcuno degli epitaffi, ma non era riuscito a spingersi tanto innanzi da leggerli; e col capo rovesciato, il cappello ammaccato dai continui urtoni, i piedi pestati, la camicia in sudore, tangheggiava come una barca in mezzo alla tempesta. Con belle maniere, dicendo: «Di grazia!… La prego!… Mi scusi!…» arrivò finalmente a tiro della prima tabella, dove leggevasi:

SOTTO MULIEBRI SPOGLIE

 

CUORE GAGLIARDO PIETOSO

ANIMO ELETTO MUNIFICO

SPIRITO SVEGLIATO FECONDO

ONNINAMENTE DEGNA

DELLA MAGNANIMA STIRPE

CHE LA FE’ SUA

«Onninamente?....» disse il barone Carcaretta che si trovava a fianco di don Cono. «Che cosa significa?»

«Importa interamente, o vogliam dire del tutto… Onninamente degna della stirpe… Come le piace questo concetto?…»

«Eh, va bene; ma non capisco perché si divertano a pescar le parole difficili!»

«Veda…» spiegò allora don Cono, insinuante: «lo stile epigrafico tiene al sommo grado del nobile e del sostenuto… Io non potevo adoprare…»

«Ah, l’avete scritta voi?»

«Sissignore… ma non solo, veramente: di unita col cavaliere don Eugenio… Io ho curato sovra tutto la forma… Bramerei vedere le altre: temo non abbian preso un qualche abbaglio, in copiando…»

Ma la chiesa era talmente gremita che potevano appena fare due passi ogni quarto d’ora; e tutt’intorno la gente che non riusciva ad andare né avanti né indietro né a veder altro fuorché la cima della piramide, ingannava l’impazienza dell’attesa chiacchierando, dicendo vita, morte e miracoli della principessa: «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro…» «I suoi figli: quali?…» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!… Se campava ancora ci avrebbe messo anche l’altra!… Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!… Tutto per amor d’un solo, del contino Raimondo…» «Ma il padre?…» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!…»

Però tutti riconoscevano che, se non fosse stata lei, a quell’ora non avrebbero avuto più niente. Ignorante, sì; ma accorta, calcolatrice!

«È vero che non sapeva leggere né scrivere?»

«Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!»

Frattanto don Cono avvicinavasi, a passo di formica, alla seconda iscrizione:

ORBATA

DEL TUO FIDO CONSORTE

NEL MORTALE VIAGGIO

VECE FACESTI

AL TUOI FIGLI

DEL PADRE LORO.

Prima ancora di scorgere i caratteri, don Cono che la sapeva a memoria, recitò l’epigrafe al barone, fermandosi un poco a ciascuna parola, più a lungo ad ogni capoverso, gestendo con la mano come se spruzzasse acqua benedetta, per sottolineare i passaggi salienti:

«Ignoro se approvate questo concetto: orbata… vece facesti…»

Ma nuove ondate della folla lo divisero la seconda volta dal compagno. Veniva ora dalla terrazza e dalle scalinate un vasto sussurro, perché i rintocchi del mortorio annunziavano finalmente la partenza del corteo dal palazzo.

Intorno alla casa Francalanza c’era sempre una fiera, per le tante carrozze aspettanti, pel tanto popolo fremente d’impazienza. Dal portone socchiuso vedevasi un’altra folla ragunata nei due cortili, uno sciame di servi con le livree nere che andavano e venivano, il maestro di casa senza cappello che s’affannava a dar ordini, la carrozza di gala a quattro cavalli che sarebbe servita da carro funebre. Quando finalmente le due pesanti imposte girarono sui cardini, tutte le teste si voltarono, tutte le persone s’alzarono sulle punte dei piedi. Veniva innanzi la fila dei frati Cappuccini con la croce, poi la carrozza funebre, dentro alla quale si vedeva il feretro di velluto rosso, fiancheggiata da tutta la servitù con le torce in mano; poi l’Ospizio Uzeda dei vecchi indigenti, tutti a testa nuda; poi le ragazze dell’Orfanotrofio coi veli azzurri pendenti fino a terra; poi tutte le carrozze di famiglia: altri due tiri a quattro, cinque tiri a due, e poi ancora un altro gruppo di gente: una quarantina d’uomini, la più parte barbuti, con le giubbe di velluto nero, anch’essi coi ceri in mano.

«Chi sono?… Di dove spuntano?…»

Erano i zolfai delle miniere dell’Oleastro chiamati apposta da Caltanissetta per l’accompagnamento della padrona: quest’ultimo accessorio finiva di sbalordire tutti quanti: ancora non s’era vista una cosa simile!… Ma gli equipaggi che s’avanzavano da ogni parte per mettersi in fila sbaragliavano la calca: tiri a quattro che venivano a prendere i primi posti, tiri a due che rinculavano scalpitando tra un fitto schioccar di fruste; e i curiosi, a rischio di lasciarsi pestare sotto i piedi delle bestie, li venivano riconoscendo dagli stemmi degli sportelli e anche dai cocchieri:

«Il duca Radalì… il principe di Roccasciano… il barone Grazzeri… i Cùrcuma… i Costante… non manca nessuno!…»

Di repente tutti si volsero a un lontano vocìo:

«Che è?… Che cos’è stato?… La carrozza di Trigona!… Il cocchiere non vuole andare in coda, gli altri non cedono il posto… Ha ragione!… Questi sono soprusi!…»

Il cocchiere del marchese Trigona, appunto, quantunque guidasse un trespolo tirato da due ronzinanti, non voleva mettersi in coda dove c’erano le carrozze dei non nobili più belle della sua. E Baldassarre, tutto in sudore per la fatica sostenuta nell’ordinare il corteo, nel far rispettare le precedenze, s’avanzava per dar ragione al cocchiere, aprendosi a stento il varco tra la folla, allungando ceffoni ai monelli che gli si mettevano fra i piedi, ingiungendo: «Largo!… largo!…» mentre una buona metà dell’accompagnamento s’era avviata.

Il mortorio sonato da tutte le chiese della città chiamava gente da ogni parte sul suo passaggio; ma specialmente il campanone della cattedrale sospingeva a frotte i curiosi. Sonava a morto solo pei nobili e i dottori, e il suo nton nton grave e solenne costava quattr’onze di moneta; talché la gente, udendo la gran voce di bronzo, diceva: «Se n’è andato qualche pezzo grosso!»

E ancora buon numero di carrozze, dopo quella di Trigona, aspettavano d’incamminarsi, che già la testa del corteo fermavasi ai Cappuccini.

Impossibile portare in chiesa la bara dalle scale. Non già che pesasse molto, ché anzi era vuota; ma la ressa, sulle scale, cresceva, nessuno poteva andare né avanti né indietro, solo il cannone avrebbe potuto far luogo. Bisognò girare la situazione, aprire un varco fra la turma che gremiva la salita del Santo Carcere e di San Domenico e portare il feretro dal convento e dalla sacrestia: trascorse quasi un’ora prima che fosse posto sul catafalco.

I sonatori avevano già preso posto sul palco e sfoderato i loro strumenti, i frati accendevano con le canne lunghe i ceri dell’altar maggiore. E i curiosi stipati nella chiesa, continuando a parlar della morta, si rivolgevano insistentemente una domanda e si proponevano una quistione: «Chi sarà l’erede?..» Nobili e plebei, ricchi e poveri, tutti volevano sapere che direbbe il testamento, come se la morta avesse potuto lasciar qualcosa a tutti i suoi concittadini. Aspettavano, al palazzo, l’arrivo del contino da Firenze e del duca da Palermo per leggere le ultime volontà della principessa; e le opinioni, nel pubblico, erano diametralmente opposte: alcuni sostenevano che tutto sarebbe andato al contino; ma, quantunque la defunta odiasse il primogenito, era proprio possibile che lo diseredasse? «Nossignore: tutto andrà al primogenito: è vero che non lo poteva soffrire, ma è il capo della casa, l’erede del principato!…»

Un nuovo pigia pigia troncò di botto ogni discorso, infittì la folla in fondo alla chiesa: entravano le orfanelle del Sacro Cuore con le vesti verdi e gli scialletti bianchi; Baldassarre, tutto vestito di nero, le dirigeva verso l’altar maggiore, ingiungendo:

«Largo, largo, signori miei!…»

Un bambino, mezzo soffocato tra la calca, si mise a strillare; un mendicante, riuscito ad entrare, inciampò contro un gradino d’altare e cadde per terra.

BENEFICENTE

COI DERELITTI

L’OBOLO DELLA CARITÀ

TI FIA RESO

CENTUPLICATO

CON L’ESPIATORIE PRECI

Don Cono declamava, a bassa voce, l’altra iscrizione al canonico Sortini che aveva pescato tra la folla:

«Conciliar l’invenzione del concetto con la venustà della forma: difficoltà precipua dello stile epigrafico… L’obolo… centuplicato… non so se mi appongo…»

Adesso l’altar maggiore era tutto una fiamma, dai tanti ceri; il movimento dei frati e dei sagrestani cresceva; sul palco della musica accordavano gli strumenti, un clarino sospirava, gli archetti stridevano, un contrabbasso borbottava; e Baldassarre, aiutato dai camerieri di tutta la parentela, vestiti di nero anch’essi, faceva disporre due file di sedie pei vecchi e le orfanelle: le sedie, tenute alte sulla folla, parevano navigare sul mar delle teste, e poiché sempre nuova gente entrava a furia, la ressa era terribile. I fiati, l’odor di moccolaia, il caldo della giornata facevano della piccola chiesa una bolgia; alcune donne erano già svenute, in due o tre punti si litigava fra chi voleva spingersi avanti e chi non voleva tirarsi indietro; ma nessuno si decideva ad andarsene; e negli angoli, lungo i muri, avanti agli altari, i curiosi, gli scioperati rifacevano la storia della morta e della famiglia, ne commentavano le stravaganze:

«La cassa con tre chiavi!… Sarà tanto più difficile tornare a questo mondo!… E la tonaca e il rosario!… Tanta penitenza con un funerale da regina!»

A voce più bassa le male lingue aggiungevano:

«Dopo l’allegra vita!…»

Accanto alla pila dell’acqua santa, in mezzo a un crocchio di nobilastri invidiosi e a corto di quattrini, don Casimiro Scaglisi annunziava:

«E il principe? Non sapete che ha fatto il principe? Quand’ebbe la notizia della morte della madre, scappò al Belvedere senza far chiudere il portone, per avere il tempo d’arrivar solo alla villa, e senza avvertir Ferdinando alla Pietra dell’Ovo…»

Alcuni protestarono: don Casimiro confermò:

«Se ve lo dico io!… Per aver tempo di maneggiarsi, di far sparire carte e denari!»

Tutt’intorno scrollavano il capo: don Casimiro parlava così per astio, giacché fin a tre giorni addietro era stato lavapiatti di casa Francalanza, ma fin da quando la principessa era andata in campagna, il principe non l’aveva più ricevuto, credendolo iettatore.

«Del resto, scusate,» gli facevano osservare, «che bisogno aveva mai il principe d’allontanare Ferdinando?»

«Sissignori, fa la vita del Robinson Crusoe alla Pietra dell’Ovo, non s’occupa d’affari e in famiglia lo chiamano il Babbeo, col soprannome messogli da sua madre. Ma che vuol dire? Babbeo o no, il principe non voleva nessuno dei suoi tra i piedi!… Vi dico che lo so di sicuro!»

Un altro osservò:

«Non parlate male di Ferdinando; con le sue manìe non fa male a nessuno; è il migliore di tutta la casata.»

«Tanto che non parrebbe dello stesso seme…» rispose don Casimiro.

«Sst, sst! Siamo in chiesa,» gl’ingiunsero.

«Passa don Cono.»

Don Cono adesso traversava la chiesa per leggere l’iscrizione posta sulla pila dell’acqua benedetta; come fu giunto vicino al crocchio, lo fermarono:

«Don Cono!… Don Cono!… Voi che avete la vista lunga; come dice lassù?»

E don Cono compitò:

IN QUESTO TEMPIO

OVE IL FRALE SI ACCOGLIE

DELLA BEATA UZEDA

CORROBORATE

FIENO LE PRECI

DALL’INTERCESSORA PARENTE

«Bellissimo! Bravo!… Bene l’intercessora…» esclamarono in coro; ma un «sst» prolungato passò di repente di bocca in bocca: il maestro Mascione, appollaiato in cima al palco dell’orchestra, aveva picchiato tre colpi sul leggìo; e le conversazioni morirono, tutte le teste si volsero verso i sonatori.

In mezzo all’attenzione generale don Casimiro urtò a un tratto col gomito i vicini, esclamando piano:

«Guardate! Guardate!»

Entrava in quel punto, protetto contro la folla dal servitore, il vecchio don Alessandro Tagliavia: nonostante l’età, reggeva ancora diritta l’alta persona e dominava la folla con la bella testa bianca e rosea, dagli occhi chiari com’acqua marina e dai baffi bionditi dal tabacco. Non potendo avanzare, guardava da lontano il catafalco, il palco della musica, le tabelle degli epitaffi; e intanto, nel silenzio fattosi come per incanto, l’orchestra intonava il preludio: un lungo gemito, suoni rotti in cadenza come da brevi singulti si diffondevano per la chiesa, e le piangenti riprendevano a lacrimare, mentre i monaci, dinanzi all’altare, cominciavano le genuflessioni. Molti capi si chinarono, al sordo vocìo sottentrò un raccoglimento profondo.

«Guardate!…» ripeté don Casimiro, nel gruppo accanto alla pila. «È venuto a dirle l’ultimo addio!»

Tutti avevano gli occhi fissi sul vecchio: il lavapiatti a spasso continuò, interrompendosi quando l’orchestra taceva:

«Ed io che me lo rammento piangere come un bambino… come un disperato… quando la morta lo lasciò per Felice Cùrcuma… dopo quello che c’era stato fra loro!…Adesso lei è a marcire al colatoio… Lui camperà vent’anni ancora: una salute di ferro…» A voce più bassa, mentre le trombe tratto tratto squillavano e le voci cantavano Requiem aeternam dona eis, aggiunse: «Ed ha la sua brava ragazza, in una villetta al Borgo… Tutte le sere le passa con lei!…»

 

Il vecchio tentava ancora di avvicinarsi ad una iscrizione; ma poiché, principiata la messa, nessuno più si moveva, tornò indietro. Giunto sulla porta della chiesa, colpendogli l’aria fresca la fronte, si calcò il cappello sulla testa che non era ancor fuori.

«Sic transit gloria mundi!…»

Però, passato il primo effetto della musica, le conversazioni andavano qua e là riappiccandosi; e Raciti, il primo violino del Comunale, borbottava in mezzo agli sconosciuti: «Bell’apparato, non c’è che dire; bella funzione!… La quistione è di sapere chi pagherà!»

Era furente, dopo che il signor Marco aveva preferito la messa di Mascione a quella di suo figlio; ma si consolava sparlando della casata: non c’era l’eguale per la stitichezza nel pagare; e Titta Caruso, il bollettinaio del teatro, ne sapeva qualcosa, costretto com’era ogni anno a far cento volte le scale del palazzo prima di vedersi pagato l’appalto del palchetto: oggi non c’era il principe, domani non c’era la principessa, un’altra volta mancava il signor Marco, poi erano tutti in campagna…

«Mio figlio Salvatore non voleva offrir loro la sua messa? Meglio sonarla gratis per le anime del Purgatorio; almeno se ne guadagna altrettanta salute all’anima!»

E voltò le spalle, furioso, per andarsene, mentre intonavano il Tuba mirum rubato al Palestrina!… Come lui, erano venuti in chiesa quanti eran corsi nei primi momenti al palazzo per offrire i loro servigi; ma i rimasti a mani vuote tiravano adesso in ballo le storie d’avarizia e d’intima spilorceria di quella famiglia il cui lusso era solo apparente: la principessa, una volta, non aveva fatto citare dinanzi al giudice il suo calzolaio perché le restituisse il prezzo di un paio di scarpe non riuscite di suo gradimento? E in cucina, il cuoco non aveva l’ordine di scolar l’olio rimasto nella padella dopo la frittura per riconsegnarlo alla padrona?

«Più sono ricchi, cotesti porci, più sono spilorci!…»

Un «zitti!» imperioso troncò le chiacchiere: l’orchestra intonava il Che dirò io misero? e la gente che stava attenta alla musica non voleva esser disturbata. Ma dopo un momento le conversazioni si riannodarono. In certi crocchi di liberali, vantavano il patriottismo del duca Gaspare, sottovoce, però, e guardandosi intorno per paura che qualche spia non udisse.

«Un colpo al cerchio e un altro alla botte!» esclamava don Casimiro accanto alla pila. «In questa casa chi fa il rivoluzionario e chi il borbonico; così sono certi di trovarsi bene, qualunque cosa avvenga! La ragazza Lucrezia non fa la liberale per amore di quello sciocco di Benedetto Giulente?…»

Il barone Carcaretta, unitosi ai maldicenti, protestò:

«Non daranno mai un’Uzeda a un Giulente!»

E don Casimiro:

«Per questo io dico che il Giulente è uno sciocco…»

«Silenzio, eccoli lì.»

Il giovanotto infatti entrava in quel momento insieme con suo zio don Lorenzo, il celebre liberale lavapiatti del duca.

«E così?» domandò don Casimiro, «quando la farete questa rivoluzione?»

«Non lo diremmo a voi, in ogni caso», rispose Benedetto sorridendo. Allora l’altro si rivolse allo zio:

«E il vostro amico, il duca? Gli muore la cognata, i suoi nipoti l’aspettano, e non parte subito? Che sta macchinando?»

«A voi che importa?»

«A me? Un fico secco! Io non faccio il lavapiatti a nessuno!»

«I lavapiatti» rispose don Lorenzo, «dovete sapere che io li ho tenuti sempre in cucina…»

«Silenzio!… Siamo in chiesa.»

La preghiera ieratica diceva giustamente: «Serbami un posto nel gregge.» Ma don Casimiro non voleva riconoscere che il dispiacere di non goder più dell’intimità degli Uzeda lo animava contro di loro.

«Bestioni!» esclamò, quando i due Giulente si allontanarono. «Mi diranno poi come finirà loro, con quei birbanti!»

Il principe di Roccasciano, che aveva girato per la chiesa sballottato dalla folla, fu sospinto in mezzo al gruppo; tutta la sua persona, così piccola e magra che pareva fatta in economia, esprimeva uno straordinario stupore:

«Signori miei, che funerale! che spesa!… Ci saranno per lo meno cent’onze di cera! E l’apparato! La messa cantata! Io vi so dire che per la felice memoria di mio padre spesi sessantotto onze e tredici tarì, e che feci? Niente!… Qui vi dico che si sono spese cent’onze di sole torce…»

«Sst… il Lux aeterna.»

Ad ogni passaggio della messa operavasi un rimescolamento nella folla: alcuni tentavano uscire, la più parte mutavan di posto, giravano intorno al catafalco, andavano a leggere le iscrizioni. Restava a don Cono da verificar l’ultima; don Casimiro gli si pose alle costole, seguito da parecchi della comitiva.

AHI DURA MORTE

IL PIANTO

D’UNA ILLUSTRE PROSAPIA

D’UN POPOLO INTERO

A DISARMARE IL TUO BRACCIO

NON VALSE

«Benissimo!» fece don Casimiro. «La prosapia è illustre: discende difilato dall’anche d’Anchise. Il popolo piange: non vedete le lacrime?» e mostrava quelle d’argento che frangiavano l’addobbo funebre. «Piangono anche le ragazze dell’Orfanotrofio… pensando che andranno a finir cameriere dell’illustre principe…»

«Parmi sconvenga…» obiettò don Cono.

«E v’accerto io che sono tutti disperati per bene che si vogliono in casa. Poh! Non possono stare un giorno senza abbracciarsi e baciarsi…»

«Parmi sconvenga…»

«Prudenza, signori miei… siamo in chiesa!»

Giusto, la ripresa del Dies irae assordava tutti; i frati erano scesi verso il catafalco, benedicendo; la musica intonava il Libera me, riprendeva le frasi del principio, implorava il Requiem. «È finito?… Se Dio vuole!» E un rimescolamento generale: chi era rimasto lontano dal catafalco e dalle iscrizioni vi si dirigeva; molti che non reggevansi più in piedi dalla stanchezza, s’avvicinavano alle porte; ma lì la confusione e la ressa ricominciavano più grandi; perché tutta la gente rimasta fuori, credendo che, finita la messa, fosse agevole entrare, s’affollava tumultuosamente, cozzando contro quelli che volevano uscire, travolgendo gli storpi, i ciechi e i mutilati che arrischiavano nuovamente di tender la mano ai passanti. «Adagio!… I piedi!… Che maniera!» e dominando quel vocìo veniva dalla piazza un incessante scalpitar di cavalli: le carrozze del corteo funebre che sfilavano una dopo l’altra andandosene.

Il principe di Roccasciano, affacciato dalla terrazza, le veniva numerando:

«Sette tiri a quattro, sessantatrè carrozze padronali, dodici di rimessa» disse, quando passò l’ultima. E fece il conto: «A dodici tarì l’una, tolte quelle di famiglia, sono trentaquattr’onze!…»

Allora l’onda degli spettatori cominciò a disperdersi. I poveri rimasti accoccolati lungo i muri poterono finalmente trascinarsi ai loro posti; ma oramai non passava più nessuno.