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I Vicere

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«Nossignore!» rispose il duca, fermamente. «Il matrimonio si farà, ma prendo impegno che tu non sarai molestato.»

Già Padre Camillo aveva tenuto un simile discorso alla ragazza. Aveva cominciato a dirle che quell’unione era avversata da tutti, in famiglia, non perché presumevano che restasse zitella – quantunque!… benché!… – ma per la ragione che non era un partito conveniente. La considerazione della nascita aveva certo la sua importanza; non tanto per se stessa quanto per quella della educazione, dei principi morali e religiosi che implicava. Giulente era forse un buon giovane – non voleva infamarlo, senza conoscerlo – ma professava dottrine pericolose, parteggiava pei nemici dell’ordine sociale, del potere legittimo, della Santa Chiesa; e non si contentava di far ciò a parole, ma veniva agli atti. E una Uzeda, una nipote della Beata Ximena, una figlia del principe di Francalanza, avrebbe sposato costui? Come era possibile che s’intendessero? L’amore, l’accordo poteva regnare fra loro? E poi, lasciamo star questo, ma Giulente, benché facoltoso, l’avrebbe mantenuta con quel lusso al quale era stata avvezza? Aveva idee ed abitudini signorili?… Dunque, la famiglia non si opponeva per puro capriccio, ma per ragioni valide e gravi. Però, dice, ella stessa doveva esser miglior giudice di tutto questo: poteva forse sentirsi animata da tanto amore da andare incontro anche ai disagi materiali dell’esistenza, da sperare di poter convertire il giovane. Opera meritoria, zelo encomiabile; ma la quistione principale, unica, era che senza l’approvazione, il beneplacito, la benedizione di quelli che rappresentavano le felici memorie di suo padre e di sua madre non poteva sperar pace e prosperità.

Lucrezia non aveva risposto una sillaba.

«Che cosa vogliono,» disse, quando il confessore tacque, «per lasciarmelo sposare? Dicano ciò che vogliono; farò come vorranno.»

«Ne ero sicuro!» esclamò il Domenicano con accento di gioioso trionfo. «Ero certo che una buona ragazza come te non avrebbe risposto altrimenti. E il principe, che ti vuol bene, ti sosterrà! Mettetevi d’accordo, siate sempre uniti: questo è il vostro interesse reciproco e la consolazione di chi vi guarda di lassù.»

Così, quando il duca, che non aveva ancora parlato con la nipote della domanda di Giulente, gliela partecipò e le disse nel tempo stesso che Giacomo desiderava, prima che gli si desse una risposta, sistemare le quistioni d’interesse, Lucrezia si dichiarò pronta. Il principe, che aveva tenuto molte conferenze col signor Marco ed era stato molti giorni chiuso nello scrittoio, venne fuori a chiedere, anche a nome del fratello coerede, che fosse presa come base la divisione fatta dalla madre, dimostrandone con gran lusso di documenti e di cifre la giustezza; dimostrando altresì che la parte del padre non era mai esistita fuorché nella fantasia dello zio don Blasco. Esistevano però le cambiali che egli aveva pagato; sua sorella doveva dunque sostenere la sua parte in proporzione del legato: a conti fatti, non le toccavan più di ottomila onze. Lucrezia accettò questa somma. Il testamento materno prescriveva poi che il principe dovesse pagarle gli interessi al cinque per cento; ma nei cinque anni trascorsi dalla morte della madre non aveva egli mantenuto la sorella, di tutto punto, dandole casa, vitto, servizio, abiti, uso della carrozza, ecc., ecc.? Doveva egli sostenere del proprio queste spese? Se sua sorella fosse stata in bisogno, certo egli l’avrebbe raccolta in casa per l’affetto che le portava, ricordandosi che era dello stesso sangue. Ma ella aveva la sua roba: non era dunque giusto né ella stessa poteva accettare che per cinque anni il fratello l’avesse mantenuta. Rifatto il conto, gli interessi delle ottomila onze rappresentavano appunto le spese del mantenimento; dunque non le toccava altro che il capitale. Lucrezia disse ancora di sì. Tutto parve così stabilito, ma all’ultimo momento il principe mise allo zio duca una nuova condizione:

«Io voglio regolare anche la situazione degli altri legittimari. Avevano tutti ragione, o hanno torto tutti: non pare a Vostra Eccellenza logico e giusto? Giacché dobbiamo metter mano alla carta bollata, bisogna uscirne in una sola volta. Ne parli Vostra Eccellenza agli altri e li metta d’accordo.»

Chiara e il marchese non avevano le stesse ragioni per chinare il capo ai patti del principe, ma il momento era propizio per tentar d’indurre anche questi altri ad una transazione, giacché non vivevano se non dell’attesa del figlio, e la gioia di cui l’imminenza dell’avvenimento li colmava era tale che li disponeva a passar sopra ad ogni altro interesse. Perciò quando il duca riferì loro che Lucrezia si maritava ed aveva concluso la transazione, approvarono, giudicando soltanto che l’affare degli interessi trattenuti come compenso delle spese di mantenimento faceva poco onore al principe. Contenta lei, del resto, contenti tutti.

«Adesso dovete aggiustarvi anche voialtri!…» aggiunse il duca, col tono d’affettuosa imposizione consentitogli non tanto dalla qualità di zio, quanto dall’avere accettato di tenere al fonte battesimale il nascituro.

Il marchese, scambiata un’occhiata con la moglie, rispose:

«Se Vostra Eccellenza vuole così…»

«Il conto di Chiara è naturalmente lo stesso di quello di Lucrezia; ma per lei non c’è la quistione degli interessi, e Giacomo li pagherà fino all’ultimo.»

«Io ho preso la mia cara Chiara pel bene che le voglio, e non pei quattrini…» e, chinatosi sulla moglie, Federico la baciò in fronte.

«Ma il legato dello zio canonico? L’assegno matrimoniale?» rammentò ella, per non lasciar sopraffare il generoso marito.

«Giacomo non intende riconoscerli, e non so se ha ragione o torto… Ma ormai bisogna uscirne! A voi, per ora, qualche migliaio d’onze non fa niente; io le compenserò, a suo tempo, al mio figlioccio!…»

Così fu concluso, con giubilo immenso del marito e della moglie. Restava Ferdinando, dal quale il principe voleva le duemila onze della quota di debiti. Sull’animo del Babbeo Lucrezia sola poteva; ella però, invece di parlare col fratello, si mise a letto, rifiutando di vedere gente, accusando sofferenze misteriose. Il Babbeo, saputa la malattia della sorella, venne a trovarla, tutti i giorni; ma Lucrezia pareva l’avesse specialmente con lui. La cameriera le aveva detto ed ella stessa s’era accorta che Giacomo la strozzava; ma, per vincerla contro i parenti, sarebbe passata sopra a ben altro. Adesso ella sentiva il male che preparava al fratello minore, il solo che le volesse bene, inducendolo a spogliarsi d’un poco della magra eredità, la più magra di tutte le porzioni; ma nella sua testa le parti s’invertivano: il torto era di Ferdinando che non s’interessava a lei, che non le domandava che cosa avesse, che non rimoveva l’ultimo ostacolo alla conclusione del matrimonio. Ferdinando invece non sapeva nulla di nulla, e restò a bocca aperta quando il duca, per cavare una buona volta i piedi da quel pecoreccio, gli riferì ogni cosa.

«È venuto un buon partito a tua sorella… Benedetto Giulente, sai, quel giovane tanto intelligente, che si è fatto tanto onore…»

«Ah, sì? Va bene, ci ho piacere…»

«Ma naturalmente Giacomo vuol prima sistemare gl’interessi, concludere la divisione rimasta per aria. Lucrezia s’è accordata, Chiara anche lei; però tuo fratello vuol definire la pendenza con te, una volta che è la stessa quistione… Questa è la malattia di Lucrezia…»

«E perché non me n’ha parlato prima?»

Egli accorse al capezzale dell’inferma, per dirle:

«Stupida! T’affliggi per questo? Lo zio mi ha narrato ogni cosa… Se t’accordi tu, non ho ragione di accordarmi anch’io? Bisognava dirlo subito! Sei contenta così?…»

Il giorno dell’elezione era vicino; i due Giulente, ma più specialmente Benedetto, avevano scovato gli elettori, compiuto tutte le formalità dell’iscrizione; mattina e sera veniva gente a trovare il duca per dichiarargli che avrebbero votato per lui: i Giulente non mancavano mai. La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori, il cameriere del marchese venne di corsa a chiamare il principe e la principessa, perché Chiara era sul punto di partorire. Quando Giacomo e Margherita arrivarono in casa di lei, trovarono Federico che smaniava come un pazzo, dall’ansietà, non potendo assistere la sofferente, chiamando però a ogni tratto la cameriera, la cugina Graziella o una delle tre levatrici che si davano il cambio al letto della partoriente. Il principe restò con lui e la principessa entrò nella camera di Chiara. Nonostante il travaglio del parto, costei aveva un’aria beata, sorrideva tra due contorcimenti, raccomandava che rassicurassero suo marito.

«Ditegli che non soffro… Va’ tu stessa, Margherita… Ah!… Poveretto… è sulle spine…»

Il suo desiderio di tanti anni, il suo voto più ardente, era dunque sul punto d’esser conseguito! I dolori s’attutivano, a quest’idea; ella non soffriva quasi più pensando all’ambascia del marito… Quando la principessa tornò in camera, la levatrice esclamava:

«Ci siamo!… Ci siamo!…»

«Presenta la testa?» domandò la cugina, che reggeva per le ascelle la marchesa in preda all’ultima crisi.

«Non so… Coraggio, signora marchesa… Che è?…»

A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall’alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo.

«Gesù! Gesù! Gesù!»

Chiara, per fortuna, aveva perduto i sensi appena liberata, la principessa che s’era aggirata per la camera senza toccar nulla, incapace di dare aiuto alla partoriente, voltava adesso il capo, dal disgusto prodottole da quella vista; e le levatrici, la cugina, la cameriera si guardavano costernate, esclamando:

 

«E chi vuol dare la notizia al marito!»

Giusto il marchese, non udendo più nulla, chiamava:

«Cugina!… Donn’Agata!… Come va?… Cugina!… Non viene nessuno?»

Fu donna Graziella quella che dovette andargli incontro a prepararlo al brutto colpo:

«Cugino, di buon animo!… Chiara è liberata…»

«È maschio?… È femmina?… Cugina!… Perché non parlate?»

«Fatevi animo!… Il Signore non ha voluto… Chiara sta bene; questo è l’importante…»

Il principe, entrato a vedere l’aborto il cui unico occhio erasi spento, tentò d’impedire al cognato smaniante l’entrata nella camera della moglie; ma non vi riuscì. Dinanzi al mostro che le levatrici costernate avevano deposto sopra un mucchio di panni, il marchese restò di sasso, portando le mani ai capelli. Frattanto sua moglie tornava in sensi, guardava in giro gli astanti. «Federico!… È maschio?…» furon le prime parole che spiccicò.

«Stia zitta!» ingiunsero a una voce le donne, mettendosi dinanzi all’aborto per impedire che lo scorgesse. «Non le dite nulla per ora…»

«Federico!» chiamava ancora la puerpera.

«Chiara!… Come stai?» esclamò il marchese, accorrendo. «Hai sofferto molto? Soffri ancora?»

«No, nulla… Nostro figlio?»

«Chiara, confortati! È una femminetta…» annunziò la cugina, accorrendo. «Che importa!… È tanto bellina!»

«Peccato!…» sospirò ella. «Sei dolente per questo?» domandò poi al marito, vedendone la ciera buia.

«Ma no, no!… Tutti i figliuoli sono cari lo stesso…»

«E dov’è?… Portatela qui…» fece ella, con un nuovo sospiro.

In quello stesso punto la cameriera, dietro ordine della principessa, portava via il feto avvolto in un panno, cercando di non farsi scorgere.

«È lì!…» esclamò Chiara. «Voglio vederla…»

Allora una grande confusione ammutolì tutti quanti. Federico, accarezzandole le mani, baciandola in fronte, le disse

«Coraggio, figlia mia!… Fàtti coraggio… Vedi che anch’io mi rassegno! Il Signore non volle…»

«È morta?» domandò ella, impallidendo.

«No… è nata morta… Coraggio, poveretta!… Purché tu stia bene… il resto è nulla: sia fatta la volontà di Dio.»

«Voglio vederla.»

Tutti la circondarono, insistendo per dissuaderla da quel proposito: giacché era morta! Perché angustiarsi a quella vista! Bisognava che ella s’avesse riguardo; l’importante adesso era la salute di lei!

«Voglio vederla,» ripeté seccamente.

Bisognò contentarla. Non pianse, non provò raccapriccio nell’esaminare quell’abominio; disse al marito:

«Era tuo figlio!…»

E ordinò che non lo portassero via, pel momento. Arrivarono frattanto gli altri parenti, don Eugenio, donna Ferdinanda, la duchessa Radalì, i cugini del marchese; tutti si condolevano, ma auguravano miglior fortuna per la prossima volta. Arrivò anche il duca, verso sera, a fare i suoi convenevoli; ma restò poco, poichè i Giulente lo aspettavano giù, per riferirgli le ultime notizie intorno alle disposizioni del collegio: Benedetto pareva Garibaldi quando disse a Bixio: «Nino, domani a Palermo!…»

Il domani infatti egli corse su e giù per le sezioni, per le case dei votanti, sollecitando la formazione dei seggi, interpretando la legge che riusciva nuova a tutti, incitando la gente a deporre nell’urna il nome d’Oragua. Frattanto in casa di Chiara, quasi in segno di protesta contro quell’ultima pazzia del duca, s’erano riuniti tutti gli Uzeda borbonici, ad eccezione di don Blasco il quale, dopo la transazione dei nipoti, la conclusione del matrimonio di Lucrezia e la candidatura del fratello, pareva veramente impazzito. La marchesa stava discretamente in salute e sopportava anche con sufficiente rassegnazione la sua disgrazia; il marchese non lasciava il capezzale della puerpera e si chinava a parlarle all’orecchio: nessuno dei due ascoltava i motti feroci di donna Ferdinanda contro il fratello, i ragionamenti storico-critici che il cavaliere teneva al principino, venuto anche lui a far visita alla zia col Priore e fra’ Carmelo. Chiara aveva mandato a chiamare Ferdinando, e lo aspettava con viva impazienza: quando egli apparve se lo fece venire accanto e gli parlò piano, lungamente. Poi chiamò la cameriera e, cavato di sotto al guanciale un mazzo di chiavi, glielo diede, ordinandole in mezzo al frastuono della conversazione:

«Sai la boccia dello strutto, nel riposto?… la grande?… Prendila, vuotala e nettala bene… Ma bene mi raccomando! Se c’è acqua calda è meglio.»

Pronta che fu la boccia, Ferdinando andò a vederla.

«Va bene,» disse; «adesso occorre lo spirito.»

La marchesa ordinò che andassero a comprarlo; e allora in mezzo al cerchio dei parenti stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando lavò, asciugò e introdusse poi nella boccia dove versò lo spirito e adattò il tappo.

«C’è un po’ di sego?… di creta?…»

«Ho il mio cerotto, se ti serve…» disse il marchese.

E del cerotto che appestava la camera Ferdinando spalmò l’incastratura del tappo, perché non entrasse aria nel recipiente. La marchesa seguiva attentamente l’operazione; Consalvo, con gli occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don Lodovico:

«Zio, non pare la capra del museo?»

Al museo dei Benedettini c’era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata; ma il parto di Chiara era più orribile. Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré. Premeva al principe di tornare dallo zio duca e, per fargli cosa grata, prese con sé il figliuolo, quantunque fosse l’ora che il ragazzo doveva tornare al convento. La famiglia era appena arrivata al palazzo, che s’udirono di lontano suoni confusi: battimani, grida, squilli di tromba e colpi di gran cassa. Una dimostrazione di cittadini d’ogni classe con bandiere e musica, capitanata dai Giulente, veniva ad acclamare il primo deputato del collegio, l’insigne patriotta. Il portinaio, vedendo arrivare quella turba vociferante, fece per chiudere il portone; ma Baldassarre, mandato giù dal duca, gli ingiunse di lasciarlo spalancato. La folla gridava: «Viva il duca di Oragua! Viva il nostro deputato!» mentre la banda sonava l’inno di Garibaldi e alcuni monelli, animati dalla musica, facevano capriole. I Giulente, il sindaco, altri otto o dieci cittadini più ragguardevoli parlamentavano con Baldassarre, volendo salire a complimentare l’eletto del popolo; poiché il duca si trovava su nella Sala Gialla, il maestro di casa ve li accompagnò: Benedetto Giulente, appena entrato, vide Lucrezia accanto alla principessa, ancora col cappellino in capo. Il duca, fattosi incontro ai cittadini, strinse la mano a tutti, prodigando ringraziamenti, mentre dalla via veniva il frastuono delle grida e degli applausi, e il principe, visto nel crocchio un iettatore impallidiva mormorando: «Salute a noi! Salute a noi!» Fu il nuovo eletto, pertanto, quello che presentò Giulente alle nipoti. Il giovane s’inchinò, esclamando raggiante:

«Signora principessa, signorina, sono felice e superbo di presentar loro la prima volta i miei omaggi in questo fausto giorno che è di festa per la loro casa come per tutto il paese…»

«Viva Oragua!… Fuori il duca!… Viva il deputato!» urlavano giù.

E Benedetto, quasi fosse già in casa sua, spalancò il balcone. Allora il duca impallidì peggio del nipote: egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco, dire qualcosa. Stringendosi a Benedetto, balbettava:

«Che cosa?… Che debbo dire?… Aiutami tu, mi confondo…»

«Dica che ringrazia il popolo della lusinghiera dimostrazione… che sente la responsabilità del mandato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo… animato dalla fiducia, sorretto…» Ma poiché le grida raddoppiavano, egli lo spinse verso il balcone.

Appena il deputato apparve, un clamore più alto levossi dalla via formicolante di teste; salutavano coi cappelli, coi fazzoletti, con le bandiere, vociando: «Evviva! Evviva!…» Giallo come un morto, afferrato alla ringhiera con tutte e due le mani, con la vista ottenebrata, immobile in tutta la persona, l’Onorevole cominciò:

«Cittadini…»

Ma la voce si perdeva nel tumulto vasto e incessante, nel coro assordante degli applausi; l’atteggiamento del deputato non faceva capire che egli volesse discorrere. Benedetto alzò un braccio; come per incanto ottenne silenzio.

«Cittadini!» cominciò il giovanotto; «in nome di voi tutti, in nome del popolo sovrano, ho comunicato all’illustre patriotta…» «Evviva Oracqua!… Evviva il duca!…» «la splendida, l’unanime affermazione dell’intero collegio… Alle tante prove d’abnegazione da lui date al paese…» «Evviva! Evviva!…» «il duca d’Oragua aggiunge quest’altra: di obbedire ancora una volta alla volontà del paese e di rappresentarci in quell’angusto consesso dove per la prima volta concorreranno i figli…»

Ma non poté finire quel periodo. Le acclamazioni, i battimani soffocavano le sue parole; gridavano: «Viva l’unità italiana! Viva Vittorio Emanuele! Viva Oracqua! Viva Garibaldi!…» Altri aggiungevano: «Viva Giulente! Viva il ferito del Volturno!…»

«Lo slancio da cui vi vedo animati,» egli proseguiva, «è la più bella conferma del responso dell’urna… di quell’urna donde ancora una volta esce la libera… la sovrana volontà d’un popolo divenuto padrone di sé… Cittadini! Il 18 febbraio 1861, tra i rappresentanti della nazione risorta noi avremo la somma ventura di veder sedere il duca d’Oragua. Viva il nostro deputato!… Viva l’Italia!…»

Uno scroscio finale d’applausi rintronò e la folla cominciò a rimescolarsi. Una seconda volta, con voce strozzata, senza un gesto, senza un moto, il duca aveva cominciato: «Cittadini…» ma giù non udivano, non comprendevano ch’egli fosse per parlare. Allora, voltatosi verso le persone che gremivano il balcone, egli disse:

«Volevo aggiungere due parole… ma se ne vanno… Possiamo rientrare…»

Sorrideva, traendo liberamente il respiro, come liberato da un incubo, stringendo la mano a tutti, ma più forte a Benedetto, quasi volesse spezzargliela.

«Grazie!… Grazie!… Non dimenticherò mai questo giorno…»

Guidò il giovane nella stanza attigua perché prendesse congedo dalle signore, accompagnò tutti fino alla scale. Quando rientrò, il principe, liberato anche lui dall’incubo della iettatura, ricominciò a complimentarlo, additandolo come esempio al figliuolo:

«Vedi? Vedi quanto rispettano lo zio? Come tutto il paese è per lui?»

Il ragazzo, stordito un poco dal baccano, domandò:

«Che cosa vuol dire deputato?»

«Deputati,» spiegò il padre, «sono quelli che fanno le leggi nel Parlamento.»

«Non le fa il Re?»

«Il Re e i deputati assieme. Il Re può badare a tutto? E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c’erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!…»