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Un giorno la cugina Graziella, venuta al palazzo a chieder del principe, si chiuse con lui per dirgli:

«Cugino, debbo tenervi un discorso molto grave…» Da molti anni, da quando Giacomo aveva preso moglie, si davano del voi. «Donna Mara Fersa mi ha fatto parlare da un’amica… per questa storia di Raimondo!»

«Quale storia?» domandò il principe, quasi non comprendendo.

«Non sapete quel che si dice?… Raimondo s’è messo in testa d’inquietare donna Isabella… e se ne accorge ognuno, per dire il fatto della verità…»

«Io non mi sono accorto di niente.»

«Non importa, cugino; ve lo dico io!… Ed è una cosa che non sta bene e che mi dispiace… Un tempo, s’incontravano spesso in casa mia, ed io li ricevevo a braccia aperte. Potevo sospettar niente di male? Altrimenti non mi sarei prestata ad una cosa simile! Raimondo è padre di famiglia, donna Isabella ha marito anche lei: che vogliono fare?… In casa Fersa c’è guerra scatenata tra suocera e nuora: bisognerebbe persuadere il cugino a farla finita, una buona volta.»

«E perché lo dite a me?» rispose Giacomo, stringendosi nelle spalle.

«Perché? Perché io non ho molta confidenza con Raimondo… e poi, sarebbe meglio che gli parlaste voi, che siete il capo della casa, e potete…»

«Sbagliate. Io non posso nulla: qui ciascuno fa a modo suo. Altro che capo! Persuadetevi che per poco non sono la coda!…»

La cugina tornava a invocare l’autorità del cugino, il principe a lagnarsi della mancanza d’accordo che c’era in quella famiglia, mentr’egli invece avrebbe voluto che tutti fossero uniti, affezionati l’uno con l’altro, disposti ad aiutarsi, a consigliarsi vicendevolmente.

«Volete che io parli a mio fratello? È capace di rispondermi: “Di che cosa ti mescoli?” E non sarebbe la prima risposta di questo genere… Cara cugina, voi sapete che teste quadre sono le nostre!… No, no, credete a me: sarebbe inutile, se non peggio.»

La cugina, a cui non pareva vero di poter mettere le mani in pasta, ricominciò quel discorso con la principessa.

«Dici davvero?…» esclamò donna Margherita, la quale non si era avvista mai di niente.

«Povera Matilde!… Non meritava questo trattamento!»

«È quel che dico io! Con una moglie tanto graziosa, non si capisce perché Raimondo cerchi distrazioni fuori casa… Ma la testa degli uomini: chi sa leggere in questo libro?… Mi dispiace quanto l’anima! Due famiglie disturbate, mentre avrebbero potuto vivere in pace ed armonia!… Basta, il cugino dovrebbe adesso persuadersi di lasciar quieta donna Isabella. Per me, non avrei difficoltà di dirglielo a viso aperto: non ho già paura che mi mangi! Ma sai bene: è vero che siamo cugini; ma che si potrebbe dire, che io cerco di mettere il naso negli affari altrui? che cerco di seminar zizzania? mentre sa Dio se mi dispiace, quanto l’anima!…»

La principessa scrollava il capo, sinceramente addolorata, tanto più che non poteva far nulla. Suo marito non le aveva ingiunto di badare ai casi propri, sotto pena di averla a far con lui?… E la cugina Graziella cominciò ad armeggiare intorno a Matilde, deliberata di dire ogni cosa a lei stessa. Non era la moglie? Chi più di lei poteva aver diritto di parlare a Raimondo e interesse a distoglierlo da quella tresca?… Riuscita una sera a capitarla sola nella Sala Rossa, cominciò a chiederle notizie del barone, e del matrimonio della sorella, e della salute delle bambine.

«Verranno qui, o andrete voi a raggiungerle?»

«Non so,» rispose Matilde, imbarazzata. «Non so che deciderà Raimondo.»

«Capisco!» rispose la cugina, sospirando. «Gli uomini vogliono far di loro capo… oggi una cosa, domani un’altra… Voi, naturalmente, vorreste andare al paese vostro, insieme con vostro padre. S’ha un bel dire, la famiglia del marito, sì, sì, sì, ma la propria non si dimentica mai! Anche il cugino dovrebbe persuadersi ad andar via di qui… sarebbe molto meglio… anche per lui…»

Matilde chinava il capo, evitando di guardarla, stringendo una mano con l’altra. La cugina continuò:

«Anche per lui… si leverebbe dalle tentazioni… penserebbe soltanto alla sua famiglia!… Avete ragione d’essere inquieta, capisco, poveretta… Non meritavate un simile trattamento… Ma voi dovreste dirglielo!.. Siete sua moglie, insomma, la madre dei suoi figli… Potete parlar alto… obbligarlo a finirla, una buona volta!…»

Con tutto il sangue alla fronte, la contessa aveva chiuso gli occhi; poi s’era sentita agghiacciare; a un tratto portò le mani al viso e ruppe in singhiozzi.

«Oh Signore!… Cugina!… Che avete?… Santo Dio!… Cugina, non fate così!…»

«Io!… Io!…» balbettava Matilde, con le labbra amaramente contorte dall’ambascia. «Io che piango da due anni… Io che non ho più figlie… Io che l’ho pregato come si prega Gesù!…»

«Bontà divina!… Avete ragione!… Ma zitta, non piangete così… Cugina mia, fatevi animo… Solo alla morte non c’è rimedio!… Del resto io non credo che ci sia stato nulla di male!… Chiacchiere della mala gente!… Raimondo è un po’ scapato; ma, questo? Non posso credere! La colpa, com’è vero Dio, è di quell’altra… Le piace farsi corteggiare un poco, ma dal conte di Lumera, figuriamoci! Pura vanità, statene certa e sicura! Ma non piangete!… Queste cose, santo Dio, mi fanno male… Una famiglia così bella, dove avrebbe potuto esserci la pace degli angeli, con due veri angioletti che sembrano scesi dal Paradiso!… Ma vostro marito deve saperlo; vedrete che capirà… Perché non chiamate vostro padre? Tocca a lui aiutarvi…»

Il barone, invece, le scriveva rimproverandole l’abbandono delle figlie, accusandola di voler più bene al marito che a quelle creature, chiamandola a casa per assistere al matrimonio della sorella. Ella tentò ancora nascondergli la tempesta scatenatasi su lei, la tortura a cui la poneva con quelle accuse; ma nell’autunno egli venne a trovarla, improvvisamente, solo.

«Che cosa succede? Sei ammalata? Che cos’ha tuo marito? Perché non m’hai scritto? Perché non sei venuta?»

Ella protestò che non accadeva nulla, che s’era sentita poco bene, che appunto per questo non aveva potuto andar da lui. L’imminenza d’una spiegazione tra suo padre e Raimondo l’atterriva; conoscendo il carattere prepotente, i modi sprezzanti di suo marito, e gli scatti d’ira di cui suo padre era capace, ella viveva con l’animo sospeso, dimenticava i suoi dolori per evitare uno scoppio, tanto più che il barone pareva non aver creduto alle sue proteste, mostrava un viso accigliato in quella casa che prima era stato superbo d’abitare. Adesso stava molto fuori, tornava con ciera più rannuvolata, non rivolgeva la parola a Raimondo. Una sera si chiuse in camera con lei e le disse:

«Mi vuoi dire finalmente quando la smetterai? Non negare, è inutile; so tutto…»

Ella tremava in tutta la persona, balbettando:

«Che sai? Io non capisco… non so nulla…»

«So che tuo marito fa una bella vita, ti dimostra un grande amore,» esclamò il barone con voce gravida di sorde minacce. «Ho ricevuto una lettera anonima; sono venuto per questo… La buona gente non manca!… Ma poiché tu non parli… poiché non ti confidi a tuo padre!… Adesso bisogna mettere le carte in tavola, hai capito?» e picchiò forte con una mano contro l’altra.

«Sì, sì, non t’inquietare…»

Non sapeva adesso donde le venisse quella calma sovrumana, quella forza di negare la cagione del suo lungo cordoglio:

«Non t’inquietare, babbo mio caro… non vedi come sono tranquilla?… Te lo giuro, non so nulla… Saranno calunnie… c’è tanta cattiva gente!… Un anonimo!… Prendi sul serio quel che scrive un anonimo?»

Il barone passeggiava per la camera facendo scoppiare l’indice contro il pollice, volgendo intorno accigliando gli sguardi.

«Tanto meglio!… Tanto meglio!… Ma qui bisogna finirla con questo andirivieni continuo! Bisogna decidersi a stare in un posto qualunque, ma stabilmente, a casa propria, coi figli, come tutti gli altri cristiani…»

«È quello che diciamo anche noi… Credi forse che non ne siamo persuasi?… Raimondo vuol tornare a Firenze; ci saremmo già se non fossero gli affari della divisione, il pagamento delle mie cognate…» E sorridendo soggiunse: «Ti pesano forse, le bambine?»

«Non far la stupida. Con me, sai, non ci riesci.»

Ella sentiva in ogni parola del padre, in quell’impeto a stento frenato, che egli aveva acquistato la certezza del tradimento di Raimondo, di qualche cosa di più grave ancora; e il cuore le si chiudeva, le si chiudeva, come in una morsa, e le forze l’abbandonavano, e un brivido ricominciava a correrle per tutta la persona. Trasalì a un tratto udendo Raimondo che picchiava all’uscio, chiamandoli.

«Che fate?» domandò loro entrando, guardandoli curiosamente.

«Nulla…»

«Nulla,» ripeté il barone. «Si parlava della decisione che dovete prendere… Vuoi continuare a star senza casa, a pagar quella di Firenze per tenerla chiusa?»

«Io?» rispose Raimondo, con tono stupito, come cascando dalle nuvole. «Io, se potessi,» proruppe, «a quest’ora sarei scappato anche a piedi da questo fetido paese. Ah, vi pare forse che ci stia per mio gusto, in mezzo a questi sciocchi, presuntuosi, ignoranti, pezzenti, invidiosi, maleducati?…»

Nessuno lo teneva, mai s’era scagliato con tanta violenza contro i propri concittadini; gestendo vivacemente, quasi gli contraddicessero, sfilava la litania delle recriminazioni, comprendeva nel proprio disgusto tutta la Sicilia, tutto il Napolitano, l’intera razza meridionale.

«Allora, quando hai deciso di partire?» interruppe secco il barone.

«Quando?…» ripeté Raimondo, guardandolo un momento. «Non sapete che sono incatenato dagli affari?»

«Gli affari, volendo, si sbrigano in otto giorni.»

Raimondo tacque un poco; poi esclamò, stringendosi nelle spalle: «Sbrigateli voi, se potete.»

Il barone fece per replicare, ma la parola vivace gli rimase in gola. Raimondo, magro, grazioso, elegante, dominava con gli sguardi sprezzanti, con l’espressione sottilmente ironica del viso bianco e delicato, la persona forte e vigorosa del suocero, dalle spalle quadrate, dai polsi nodosi, dalla faccia abbronzata. Si guardarono un istante, mentre Matilde, impallidita, batteva i denti, come per febbre; poi il barone guardò sua figlia, vide lo sguardo smarrito che gli volgeva, e allora chinato il capo, mormorò:

 

«Va bene… va bene… Procura soltanto di far presto… Fra giorni si marita mia figlia; vi aspetto…»

Ripartì il domani. Sul punto di andar via, disse a Matilde di tenersi pronta, risoluto com’era a condurla con sé, anche sola, per costringere il genero a raggiungerla. Ella chinò il capo, consentendo, gettandogli le braccia al collo dalla gratitudine, poiché comprendeva che s’era padroneggiato per amore di lei per risparmiarle il dolore d’una triste scena. Ma il barone era appena partito che Raimondo le disse:

«Sai che è curioso, tuo padre? Crede forse che tutti debbano fare a modo suo? O che io abbia sposato lui?… Agli affari di casa mia voglio pensare da me, capisci; e andare dove mi pare e piace, quando mi pare e piace!…»

Ella gli diede ragione, soggiogata come sempre dalla volontà di lui, allegando appena come scusa dell’assente il bene che voleva ad entrambi.

Andarono a Milazzo pel matrimonio di Carlotta; poi, partiti gli sposi e il barone per Palermo, tornarono a Catania, anzi al Belvedere, dov’erano tutti gli Uzeda. Lì ella ebbe qualche mese di tregua: i Fersa non c’erano, gli Uzeda parevano di nuovo rabboniti. Suo padre scriveva un po’ da Palermo, un po’ da Milazzo, un po’ da Messina; andò poi anche a Napoli; finalmente tornò nell’aprile, insieme col duca d’Oragua. Questi diceva d’esser venuto per affari, d’aver affrettata la partenza per viaggiare insieme col barone, ma parlava molto degli avvenimenti pubblici, della guerra di Lombardia, della malattia di Ferdinando ii. Il barone pareva un altro, in compagnia del duca; l’intimità che s’era stretta fra loro due durante il viaggio l’aveva placato. Nondimeno ripeté alla figlia l’offerta di condurla via con sé; ma poiché Raimondo le aveva dichiarato che non poteva muoversi ancora, ella rispose:

«No, babbo… verremo tutti… presto, fra giorni.»

8

In piedi, con le braccia levate, rosso come un pomodoro, don Blasco pareva volesse mangiarsi vivi i suoi contraddittori:

«E questo si chiama vincere, ah? Con l’aiuto dei più grossi, ah? Perché hanno chiamato aiuto, allora? Perché non si sono battuti da soli, se gli bastava l’animo? E questa la chiamate vittoria? In due contro uno?»

«Nossignore!» protestò Padre Rocca. «Erano ventimila di meno…» «Centosessantamila austriaci contro centoquarantamila alleati,» soggiunse Padre Dilenna.

«E i piemontesi si sono battuti da soli!…» affermò Padre Grazzeri.

«Come? Dove? Quando?» urlò don Blasco. «Che cosa m’andate battendo?…»

«Leggete i giornali, se non sapete!» fecero gli altri, a coro. Allora egli impallidì come per un’ingiuria mortale.

«Leggere i giornali?… Leggere i vostri giornali?» Balbettava, pareva cercasse le parole. «Ma dei vostri giornali io mi netto il fondamento!… Ah, no? non volete capire?… Me ne netto il fondamento, così…» e fece il gesto.

Il fratello portinaio mise il capo dietro il muro della scala; dalla terrazza affacciossi Padre Pedantoni per guardare giù nel portico dove s’accendeva la lite.

«Questo non si chiama rispondere!… A voi, dunque, chi dà le notizie?… Avete un servizio d’informazioni particolare, se non leggete i giornali?»

«Così!…» continuava a gestire don Blasco, fuori della grazia di Dio.

«A me parlate della vostra carta sporca? A me che vi farei legare tutti quanti, voi e chi l’introduce qui dentro?»

«Andate a denunziarci!… Ne sarete capace!…»

«Farei il mio dovere!»

«Fareste la spia!»

«A me?…»

Padre Massei, che se la godeva seduto sopra un sedile, esclamò a un tratto, vedendo il gesto con cui don Blasco sfibbiava la sua cintola di cuoio:

«Sst!… Sst!… Viene l’Abate…» ma don Blasco tonò. «Me n’infondo dell’Abate, del Priore e del Capitolo! Avanti, chi si sente da più! A me spia, manetta di carognuoli?…»

Vedendo che diceva sul serio, Padre Dilenna gli si fece incontro, rabbuiato in viso. Allora Pedantoni fu costretto a mettersi in mezzo, per dividerli:

«Andiamo, smettetela. È questo il modo?…»

Da un pezzo le discussioni finivano così, con le grida, gli insulti e le minacce. Don Blasco era diventato un energumeno dopo che i liberali rizzavano la cresta per via degli avvenimenti di Lombardia, della cacciata del Granduca da Firenze, dell’agitazione che propagavasi per tutta l’Italia. «Questa volta è per davvero! Son sonate le ventiquattro!…» dicevano, ed egli prima si scagliava contro Napoleone iii, contro quel «figlio di non so chi» al quale non bastava la propria tigna e veniva a grattare quella degli altri: poi tonava che Francesco ii li avrebbe costretti ad arar dritto: «Perché è ragazzo? Perché non c’è più suo padre?… Vi farà legare dal primo all’ultimo! La vedremo!…» Ma il suo più grande furore scoppiava quando i liberali, dopo aver profetato imminenti novità in Sicilia, dopo aver parlato di moti rivoluzionari già belli e pronti, gli adducevano in prova il ritorno di suo fratello, del duca di Oragua, da Palermo. «Quello lì in galera, legato mani e piedi; quell’imbecille, pazzo, brigante e traditore!…» Poi, ridendo di se stesso, lo vituperava altrimenti: «Lui, pericoloso? Quel pezzo di coniglio? Lui congiurare? È tornato per la squacquerella che ha addosso!… Palermo è buona per bagordarvi, ma in tempo di trambusti è meglio il proprio paese, tapparsi in casa propria, ficcarsi dentro un forno!… Se tutti i sanculotti sono come lui, Francesco regnerà altri cent’anni.»

Egli ripeteva quei discorsi fuori del convento, dinanzi agli estranei; dalla Sigaraia specialmente, dove andava tutti i giorni, uscendo dal refettorio. Donna Lucia, all’ora canonica, serrava la bottega e si metteva alla finestra per vederlo uscire dal portone del convento e infilare quello del palazzotto; allora gli andava incontro, fino a mezza scala, con le figlie e il marito. Le ragazze, che adesso avevano da dieci a dodici anni, erano tal e quale don Blasco: grasse e grosse come mezze botti; e gli baciavano la mano e gli davano del Vostra Eccellenza al pari di Garino, che si sbracciava per servirlo, per avanzargli la poltrona più comoda ed offrirgli i biscotti e il rosolio regalati dal monaco a spese di San Nicola. Quella era la visita pubblica che don Blasco faceva all’amica, perché poi ce n’era una seconda, quando Garino portava a spasso le ragazze, e i due restavano soli. Certe volte ce n’era una terza, nella tabaccheria. Oltre che il tabaccaio, Garino faceva il caffettiere e teneva due tavolini con sei chicchere per ciascuno, ad uso degli avventori, i quali erano la più parte spie e sbirri e sorci di polizia, giacché egli esercitava una terza professione, quella dell’orecchiante. Così, in mezzo a quel pubblico di fedeli, don Blasco si nettava la bocca contro i sanculotti in generale e il fratello in particolare, e apprendeva notizie di prima mano intorno ai movimenti dei traditori. Veramente, Garino protestava un gran rispetto pel duca d’Oragua, zio del principe di Francalanza, appartenente ad una delle prime famiglie del Regno; e a sentire i vituperi di don Blasco scrollava un poco il capo; ma, voltando pagina, Sua Paternità aveva poi tutti i torti? Il duca faceva male a frequentar troppo don Lorenzo Giulente, il quale era un liberale arrabbiato – naturalmente, non essendo signore! – e per mezzo del console inglese – la polizia sapeva ogni cosa! – faceva venire giornali, proclami e altra roba proibita; a don Lorenzo, anzi, avean fatto una visita domiciliare; ma dal duca non andavano, pel rispetto dovuto alla famiglia Uzeda… Questo appunto don Blasco non poteva soffrire: che egli godesse dell’immunità, che si parlasse di lui come d’un capo rivoluzionario senza che corresse rischi di sorta; voleva che lo trattassero come gli altri, che lo legassero più stretto degli altri. «Sono tutti cani arrabbiati! ci vuole il bastone! Ci vuole la museruola!» Garino scrollava il capo: l’Intendente Fitalia non avrebbe potuto permettere che si molestasse il duca d’Oragua, finché, beninteso, egli non si arrischiava troppo; ma questo era certo e sicuro: che un gran signore come lui aveva tutto da perdere e niente da guadagnare mettendosi coi «malpensanti» e gli arruffapopolo: il signor Intendente gliel’aveva detto a faccia a faccia!… Allora, udendo che suo fratello andava dal rappresentante del governo, don Blasco sfogava a un altro modo:

«Volpone! Camaleonte! Giubba rivolta!… Come possono fidarsene? È del partito di chi vince! Li giuoca tutti! Tradirebbe suo padre che lo creò!…»

E andando via dalla Sigaraia ripeteva quei discorsi in pubblico, nella farmacia di Timpa, che era il quartier generale dei fedeli, mentre in quella di Cardarella si davan convegno i rivoluzionari. Se qualcuno, scandalizzato dalla violenza del monaco, gli faceva osservare che non stava bene parlare in tal modo, agli estranei, del proprio fratello:

«Fratello?» protestava egli. «Io non ho fratelli! Non ho parenti! Non ho nessuno: com’ho da cantarvelo?…»

Si dava al diavolo, perché niente andava a modo suo, al palazzo. L’anno innanzi, al momento della scadenza del termine stabilito dalla principessa pel pagamento alle figlie, Chiara e Lucrezia non erano andate d’accordo; il marchese, biasimando l’amore della ragazza per Giulente, s’era riavvicinato al principe, il quale gli aveva fatto la corte, trattandolo con le molle d’oro, per propiziarselo. Ferdinando, intento a mettere insieme un museo di storia naturale alle Ghiande, non si era neppure informato di quel che avveniva; così, non solamente i legatari non avevano chiesto i conti, ma il principe, adducendo la mancanza di quattrini, aveva ottenuto dal marchese di poter ritardare il pagamento fino all’altr’anno. La scadenza era arrivata, e Giacomo non pagava ancora, scusandosi con le inquietudini pubbliche, col ristagno degli affari, con la scarsità del raccolto e l’impossibilità di venderlo. E don Blasco non si dava pace udendo che i nipoti, dimenticate le loro ragioni, accettavano perfino i continui ritardi, i pretesti furbeschi del principe. Quelle bestie di Federico e di sua moglie, specialmente, non davano più retta a nessuno, al settimo cielo per la speranza d’un figliuolo – come se dalla pancia di Chiara dovesse venir fuori il Messia! – e quel babbeo di Ferdinando riduceva il giardino un pestilente carnaio, preso a un tratto dalla smania d’imbalsamare animali – senza accorgersi che il più animale di tutti era lui stesso! Quell’altra sciagurata di Lucrezia, poi, viveva nelle nuvole, più stravagante di prima, e impallidiva quando nominavasi Giulente, lo sbarbatello petulante che anche lui discorreva di costituzione e di libertà! Finalmente c’era la quistione impegnata tra Raimondo, che non voleva muoversi, e sua moglie che voleva andar via: in odio all’intrusa don Blasco si schierava a favore del nipote aborrito.

«Partire? Per andare dove? A Firenze c’è il terremoto! Questi non sono tempi da lasciare il proprio paese!»

Raimondo adduceva la stessa ragione, e gli altri la ripetevano: Matilde sentiva ordirsi intorno un’altra congiura sempre più stretta; doveva adesso contentarsi di andare e venire da Milazzo ogni mese per veder le bambine, non potendo più reggere ai mali tratti che usavano loro quei parenti. Suo padre non l’aveva più con Raimondo, girava per la Sicilia col pretesto degli affari, ma per lavorare invece contro il governo: e don Blasco e donna Ferdinanda si divertivano a predire che un giorno o l’altro l’avrebbero buttato in galera, poiché quella predizione faceva piangere l’intrusa. Il duca, invece, parlava molto bene del barone, s’intratteneva a lungo con lui quando passava da Catania: adesso esaltava il genio di Cavour, i trionfi della sua politica; se gli rimproveravano le antiche critiche alla spedizione di Crimea, negava d’averne mai fatte; e giudicava che la via per la quale s’era posto Francesco ii fosse sbagliata: l’alleanza bisognava farla col Piemonte, non con l’Austria, e concedere la costituzione, non inquietare i patriotti, perché Napoleone aveva parlato chiaro: l’Italia doveva esser libera dall’Alpi all’Adriatico…

A don Blasco veniva di vomitare, udendo queste cose, e s’arrovellava, non potendo prendersela direttamente col fratello maggiore; ma il giorno che arrivò la notizia della pace di Villafranca, per poco non gli prese un accidente, dall’esultanza. Lungo i corridoi di San Nicola, dinanzi ai monaci dell’altro partito che tenevano, mogi mogi, la coda fra le gambe, vociava, trionfante:

«Ah, il gran Cavour? Ah, il gran Piemonte? Dove sono adesso? Perché non continuano la guerra da soli? Dov’è andato l’Adriatico? Dov’è andato il Mar Tirreno? E quella bestia che sputava sentenza, empiendosi la bocca di nabboleone! Napoleone aveva confidato proprio a lui quel che voleva fare! Credevano d’esserselo posto in tasca, Napoleone!…»

 

«O non l’avevate con lui perché non si grattava la sua tigna?»

«Come? Quando? So molto io!… La baldoria è finita!… Ma che Re, Francesco ii? Ma che Re? Degno figlio di suo padre!…»

Se avessero fatto lui Re, non avrebbe messo più boria, non avrebbe guardato la gente da tant’alto. E si sgolava anche al palazzo, vedendo che il fratello scrollava il capo, udendogli sentenziare che l’ultima parola non era detta.

«Che ultima e che prima! Il gran cavurre ha fatto fagotto! I principi legittimi tornano tutti quanti! L’avete schiacciata male, non volete capirlo?»

Ogni giorno s’informava se il duca aveva ordinato i preparativi della partenza: quel fratello gli pesava come un sasso sullo stomaco, non vedeva l’ora che se ne tornasse a Palermo, quasi in città non potesse regnar pace se colui non se n’andava. Al convento, insultava quelli che osavano ancora contraddirgli, le discussioni minacciavano di finir male; lo stesso Abate aveva dovuto pregare i Padri Dilenna e Rocca di lasciarlo dire per evitare un guaio. Il Priore, invece, non s’occupava di tutte queste cose: nessuno sapeva in qual modo egli la pensasse. Se gli parlavano di politica, stava a udire, scrollava il capo, rispondeva: «Non sono affari che mi riguardano… Date a Cesare quel che è di Cesare…» Al Noviziato la lotta fra i due partiti s’era attizzata; il principino, a cui don Blasco dava l’imbeccata, prendeva anche lui l’aria di un trionfatore, dileggiava Giovannino Radalì, capo dei rivoluzionari, dandogli del «barone senza baronia» e del «figlio del pazzo». Il duca Radalì, infatti, era morto in un accesso di delirio furioso; la duchessa vedova aveva quindi stabilito che Giovannino, come secondogenito, pronunziasse i voti. E questo era un altro argomento col quale Consalvo schiacciava il cugino: «Io andrò via, e tu resterai sempre qui!…» Giovannino, che nonostante le diverse idee politiche gli voleva bene, sopportava un poco i suoi dileggi; ma, a volte, infuriava in malo modo: il sangue gli montava alla testa, gli occhi gli s’accendevano; scagliatosi sul cugino, se lo metteva sotto, malmenandolo, finché fra’ Carmelo accorreva, con le mani in testa:

«Per l’amor di Dio!… Che modo è questo?… Non potete star cheti? Pensate a divertirvi!»

Composte le liti, i ragazzi si divertivano, infatti. I due cugini morivano dalla voglia di fumare; Giovannino aveva ottenuto da fra’ Cola, in gran segreto, poca semente di tabacco, e l’aveva piantata in un angolo del giardino; cresceva rigogliosa, e presto ne avrebbe fatto sigari. Frattanto giocavano da mattina a sera, con pochi momenti di studio svogliato, con qualche ora di funzioni religiose.

Per la festa di Sant’Agata, in agosto, andarono a spasso tutti i giorni, assistettero alla processione del carro, all’oratorio cantato in piazza degli Studi, e con più piacere alle corse dei barberi, che Raimondo chiamava barbarie. Le facevano lungo la via del Corso, tra due siepi vive di curiosi, sui quali spesso i cavalli si gettavano, sparando calci ed ammaccando costole. I cavalli vincitori ripercorrevano poi la via al passo guidati dai palafrenieri che lanciavano tratto tratto un grido ai balconi:

Affacciatevi, principi e baroni,

Che sta passando il re degli animali!

E la folla: «Olé…» Consalvo stava attento al cerimoniale spagnolesco di quelle feste: il Senato della città, nella berlina di gala grande quanto una casa, preceduta da mazzieri e gonfalonieri e catapani che sonavano i tamburi, andava a prendere l’Intendente, il quale doveva farsi trovare sul portone: al senatore più giovane toccava mettere il piede sulla predella, in atto di scendere; ma allora il rappresentante del governo doveva avanzarsi con le braccia distese, per impedirgli di toccar terra. Erano le prerogative della città. Il Senato aveva avuto lunghe contese con le altre autorità circa il posto da occupare nella cattedrale, durante le grandi funzioni: per evitare liti ulteriori, s’era tracciata per terra una riga di marmo che nessuno poteva varcare.

Finita la festa di Sant’Agata, a San Nicola novizi e fratelli prepararono quella del Santo Chiodo, per cui ogni anno c’era grande aspettativa.

Il Re Martino, che la portava sempre al collo, aveva regalato quella reliquia ai monaci, nel 1393: era uno dei chiodi con un pezzetto del legno della croce sulla quale avevano suppliziato Gesù. Il 14 settembre la spera d’oro tutta gemmata dove serbavasi la sacra spoglia fu esposta all’adorazione dei fedeli, mentre l’Abate, circondato da tutti i Padri con la cocolla, celebrava, accompagnato dal grand’organo, il pontificale. Ma la vera festa fu quella della sera, quando la vasta piazza di San Nicola parve trasformata in un salone, dalle tante faci accese per ogni dove, dalle tante seggiole disposte per le signore che arrivavano in carrozza dalla Trinità e dai Crociferi, e venivano ad assistere alla processione. Questa usciva, a suon di banda e di campane, tra due file di soldati, dalla porta maestra della chiesa che pareva tutta una fiamma: l’Abate reggeva la spera, seguito da un lungo corteo che rientrava dopo compìto il giro della piazza: allora cominciavano i giuochi di fuoco, i razzi, le ruote, le fontane luminose, la gran macchina finale che mutava quattro volte di disegno e di colori e finiva col crepitare assordante d’un fuoco di fila mentre centinaia di serpenti luminosi si snodavano nell’aria scura… Il principino, accanto ai suoi parenti, non aveva tempo di dar retta a tutti, facendo gli onori di casa, giacché nella piazza e in tutto il quartiere la gente era ospite dei Benedettini. Tutta la città s’era riversata lassù: le signore con gli abiti estivi che portavano l’ultima volta, segnando quella solennità la fine della stagione. Donna Mara Fersa, con la nuora e i parenti di costei venuti da Palermo, stavano dalla parte opposta degli Uzeda; don Mario era in campagna. Adesso appena si salutavano, per l’occhio del mondo; a donna Isabella era stato proibito di andare più in casa di donna Ferdinanda o di altri parenti del conte; la gente, a poco a poco, aveva finito di chiacchierare su quel soggetto. Lo stesso Raimondo pareva essersi rassegnato; non lo vedevano più correre dietro alla signora, né costei litigava più con la suocera, né s’atteggiava a vittima come un tempo. Quella sera aveva un abito veramente sfarzoso, e tante gioie addosso, che tutti gli occhi si volgevano su lei. Quando la folla cominciò a diradarsi, Padre Gerbini, sempre galante, l’accompagnò alla carrozza; e come, giusto per combinazione, il cocchiere dei Fersa e quello del principe Francalanza avevano messo accanto i loro legni, Raimondo e il principe, nell’andar via, fecero una scappellata alle signore, alla quale risposero solo donna Isabella e lo zio palermitano.

Ora, il domani di quella festa, una notizia straordinaria, sbalorditiva, incredibile, corse di bocca in bocca per la città: donna Mara Fersa aveva cacciato di casa la nuora!… Era vero?… Non era possibile!… Se la sera innanzi erano state insieme a San Nicola?… E come? Perché? Quando tutto pareva finito?… Ma i bene informati dicevano che non era finito niente, e che la bomba era scoppiata giusto quella notte per l’assenza di don Mario. Donna Mara, dopo avere accompagnato i parenti della nuora all’albergo ed essere tornata a casa ed aver preso sonno, aveva udito rumore nella camera di donna Isabella: entrata da lei, l’aveva trovata mezzo nuda, con la finestra aperta e il cappello d’un uomo rotolato per terra. Se avesse fatto un momento più presto, li avrebbe colti sul fatto; ma dal balcone che dava sui tetti della scuderia, egli era scappato in un lampo. Senza bisogno di nominarlo, tutti comprendevano che egli era il conte… Bisognava vedere, aggiungevasi, donna Isabella, pallida come una morta, quando la suocera, con voce strozzata, le aveva gridato: «Esci di casa mia!…» Lì per lì, senza darle neanche tempo d’infilarsi un paio di scarpe, in pantofole come si trovava! Ella se n’era andata, con la cameriera che le teneva il sacco, all’albergo dove si trovava quel suo zio provvidenzialmente piovuto da Palermo. «E se non c’era? Dove l’avrebbe mandata? E don Mario, il marito?…»