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Ora un bel giorno Raimondo, andato a far visita in casa Fersa, e dopo aver visto donna Isabella dietro le vetrate, s’udì rispondere dalla cameriera che non c’era nessuno. Lì per lì, egli rimase; a un tratto fu per dare uno spintone alla porta ed entrare a viva forza; ma riuscito a stento a contenersi, scese le scale ed uscì nella via rosso in viso come per un colpo di sole. Subito aveva capito donde veniva la botta, essendosi già accorto della freddezza di donna Mara; e all’idea della contrarietà e dell’ostacolo, il sangue gli ribolliva nelle vene, gli saliva alla testa, gli faceva veder fosco… Fin a quel momento, egli aveva cercato la compagnia di donna Isabella perché gli pareva una delle poche signore con le quali poter discorrere, perché gli rammentava la società di fuori via, perché gli piaceva di persona, anche, ma non molto, non tanto da voltar l’animo alla sua conquista. Non l’idea di cagionare la rovina di lei, non l’amicizia del marito lo avevano distolto da questo proponimento; Fersa anzi, con la sua adorazione per la moglie e la cieca fiducia che dimostrava a lei ed a lui, gli pareva destinato alla solita disgrazia; e donna Isabella, con quel suo contegno da vittima, con l’istinto della civetteria che la dominava, con i suoi eterni discorsi sulle anime fatte per comprendersi, doveva provare troppa voglia d’esser compresa. Egli aveva sempre riso dell’amore, della passione, ed appunto perciò sua moglie lo seccava, perciò non aveva perseguito mai altro che il piacere comodo, pronto e sicuro; perciò la previsione delle noie che l’avventura con la Fersa avrebbe potuto cagionargli l’aveva indotto a non spingere troppo avanti le cose. Al Belvedere, pel colera, dove donna Isabella doveva venire e non era poi venuta, egli s’era quasi rallegrato del mancato ritrovo, divertendosi con l’Agatina Galano, quasi interamente dimenticando la lontana. Rivedutala, la tentazione era risorta, e allora i piagnistei di sua moglie l’avevano resa più forte; poi l’opposizione di donna Mara aveva messo nuova esca al fuoco. Era così fatto, che gli ostacoli lo eccitavano, lo rendevano smanioso e restìo come un puledro che senta il morso. Tuttavia s’era contenuto ancora, pensando all’avvenire, ai fastidi sicuri, ai pericoli possibili; ora, di repente, la consegna che gli vietava il passo in casa di lei gli metteva addosso una gran voglia di sfondare quell’uscio e di portar via quella donna. L’istinto sanguinario dei vecchi Uzeda predoni l’arrovellava; se avesse potuto, avrebbe fatto un eccesso come quell’avo che s’era buttato coi cavalli addosso al capitan di giustizia. Adesso, non tanto i tempi quanto le circostanze erano diverse; egli non poteva fare uno scandalo, gli conveniva piuttosto dissimulare, ricorrere alla politica ed all’astuzia… Appena arrivato a casa, scrisse all’amica per dirle che aveva compreso «gl’ingiusti sospetti» dei suoi parenti, per lagnarsi che «in quell’odioso paese» non fosse possibile stringere e mantenere «le relazioni d’amicizia». La lettera fu recapitata per mezzo di Pasqualino Riso, cocchiere del principe, il quale la diede al cocchiere di donna Isabella, che gli era compare. Donna Isabella rispose immediatamente, per la stessa via, querelandosi della «schiavitù» in cui era tenuta, della sospettosa «cattiveria» esercitata su lei, ringraziandolo frattanto dei suoi «delicati» sentimenti, dell’«amicizia» di cui le dava prova e che ella ricambiava «di tutto cuore»; scongiurandolo però di «rinunziare a rivederla» per non urtare la suscettibilità di «certe persone». Era lo stesso che dirgli: «Fate di tutto per trionfare della loro opposizione…» I due cocchieri compari tornarono a vedersi tutti i giorni, a riferire ambasciate verbali: Pasqualino, di piantone all’angolo di casa Fersa, correva al Casino dei Nobili ad avvertire il padrone, che aveva messo lì il suo quartier generale, delle uscite di donna Isabella: così egli la seguiva egualmente da per tutto. Del resto, l’avvicinava ancora alla carrozza e le faceva visita al teatro le rare volte che non c’era la suocera; perché, sordo agli ammonimenti materni, dolente degli ingiusti sospetti, il marito era con lui come prima, anzi gli faceva maggiori dimostrazioni di amicizia, quasi a scusarsi della condotta della madre, e veniva assiduamente al palazzo. Tutti gli Uzeda pareva si fossero data la voce per proteggere e secondare quei due. Mentre essi parlavano fra loro, in un angolo, il principe o donna Ferdinanda stavano a chiacchierare con Fersa, lo conducevano in un’altra stanza; la zitellona andava attorno con donna Isabella e quando incontrava il nipote si fermava per dargli l’agio di stare con l’amica; meglio, la invitava più spesso a casa e Raimondo non tardava a sopravvenire. Si vedevano anche dagli altri parenti dei Francalanza, dalla duchessa Radalì, dai Grazzeri, più spesso dalla cugina Graziella che era divenuta grande amica di donna Isabella. Tutti poi cospiravano per non lasciare accorgere di nulla la contessa; però, avvertita da una specie di senso divinatore, Matilde comprendeva che suo marito le sfuggiva; e dal dolore si struggeva in pianto. Ora che la sua bambina stava meglio, che ella avrebbe potuto respirare tranquilla, quel pensiero non le dava più pace. Ella sapeva che, a contrariarlo, Raimondo s’incaponiva peggio nei suoi capricci; che, se v’era un mezzo di ridurlo, questo consisteva nel lasciarlo fare di suo capo, ma come rassegnarsi a saperlo pieno di un’altra, a sentirsi un’altra volta guardata con occhio tra curioso e compassionevole da Lucrezia, dalla marchesa, dagli estranei, dai servi? E gli si stringeva al fianco timida e supplice, gli diceva la sua gelosia, lo scongiurava di non farla soffrire se era vero che non pensava a quella donna.

«Maledetto paese!» esclamava con voce concitata suo marito. «Chi è che inventa simili infamie? Sei stata tu stessa? Hai messo in piazza i tuoi sciocchi sospetti, di’ la verità?»

«Io?… Io?…»

«Vuoi rovinarla, vuoi farmi ammazzare da suo marito?»

E allora un altro terrore l’aveva agghiacciata: se anche Fersa si fosse accorto di qualche cosa? Se avesse voluto vendicarsi?… A un tratto, ella vedeva suo marito freddato in mezzo a una strada, con una palla in fronte, con un colpo di pugnale al fianco: tutte le volte che egli tardava a rincasare, giungeva le mani, si premeva il cuore, quasi udendo le grida delle persone di servizio atterrite all’improvviso arrivo del corpo esanime; e accarezzando le sue bambine piangeva come se già fossero orfanelle. Le coceva sopra ogni cosa di non potersi sfogare con nessuno, di non aver qualcuno che la confortasse almeno di una buona parola. Al padre non poteva dir nulla, e gli Uzeda tenevano il sacco a quell’altra; chi non spingeva fino a tanto il rancore contro l’intrusa, restava neutrale, non s’accorgeva neppure di lei.

Don Eugenio aveva già finito e spedito a Napoli la memoria su Massa Annunziata. Portava per titolo: «Intorno la convenienza – di essere intrapreso il discavo – della Sicola Pompei – ossivero Massa Annunziata —, vetusta terra mongibellese – sepolta nell’anno di grazia 1669 – dalle ignivome lave di quell’incendio vulcanico – con tutte le sue ricchezze che conteneva – memoria sommessa al Real Governo delle Due Sicilie – da don Eugenio Uzeda di Francalanza e Mirabella – Gentiluomo di Camera di Sua Maestà (con esercizio).» La sera, egli leggeva alla società la sua prosa, sulla brutta copia. C’erano espressioni di questo genere: «Quandocchesia nel 1669 tra le più terribili eruzioni la nostra vi cadendo annoverata… Dopoché appiacevolirono alquanto i tremuoti… A quale opera tuttosì in Pompei intentando si viene… Non mi s’impunti in superbia alle conghietture azzardarmi…» Erano il frutto di riforme grammaticali da lui studiate. Perché apostrofare soltanto gli articoli, i pronomi e le particelle? Egli scriveva: «Il flagell’ accuorav’ i naturali… La lav’ avanzavas’ incontr’ a quel borgo…» Per dar più scioltezza al discorso diceva: «ne continuando» invece di «continuandone» ed anche «gli proporre» invece di «proporgli…» Don Cono soltanto gli dava retta, discutendo se solenne dovesse scriversi con una o con due elle; tutti gli altri voltavano le spalle a quella bestia che, dopo aver perduto per la sua bestialità due impieghi, aspettava d’esser nominato direttore degli scavi! Don Blasco e donna Ferdinanda, fra gli altri, ma ciascuno per suo conto, glielo spiattellavano sul muso, senza riguardi: cantavano ai sordi però, ché il cavaliere era sicuro questa volta d’aver afferrato la fortuna pel ciuffo. Il marchese e Chiara, venendo tutti i giorni al palazzo, era preciso come se non ci fossero; perché, mentre la gente parlava d’una cosa e d’un’altra, essi ad altro non pensavano che alla prole. Ogni mese, in un certo periodo, Chiara pareva proprio nelle nuvole: non rispondeva alle domande che le facevano, o rispondeva a vanvera; poi traeva in disparte tutte le signore, una dopo l’altra, e sottoponeva loro all’orecchio certi suoi quesiti. Pertanto, quando don Blasco andava a casa di lei, aizzandola nuovamente contro il principe e Raimondo, non gli dava retta, con la testa scombussolata dalla continua ed intensa aspettazione. Ferdinando, da canto suo, lasciava più che mai cantare lo zio monaco. Felice d’essere assoluto padrone delle Ghiande, vi s’era sbizzarrito a modo suo; a poco a poco però il podere era caduto in rovina, ed egli se n’era accorto. Tutte le cose lette nei libri d’agricoltura aveva voluto provare: appurato, per esempio, che in ogni albero i rami possono fare da radici e le radici da rami, aveva preso a sperimentar la verità, schiantando gli aranci alti e rigogliosi per ripiantarli capovolti: ad uno ad uno tutti gli alberi erano morti. Nondimeno egli non si sarebbe deciso a smettere quelle sue speculazioni, se non ne avesse pensate altre di diverso genere. Fra i molti libri che comprava glien’erano capitati alle mani alcuni di meccanica; allora, rammentati gli antichi amori con l’orologiaio, aveva preso un fattore per lasciargli in balia il podere, e s’era messo a fabbricare ruote ed ingranaggi. Perché mai l’acqua nelle pompe aspiranti non andava mai più su di cinque canne? Per la pressione atmosferica. Non c’era mezzo di controbilanciarla? Ed aveva costruito un suo trabiccolo dove, per lavorar di manubrio, l’acqua, non che a cinque canne, non saliva neppure ad un pollice. La colpa fu tutta degli operai che non avevano capito i suoi ordini: egli si mise intorno ad un problema molto più vasto: il moto perpetuo… Di quel che avveniva in casa, in quel che operavano gli altri non s’impacciava, diradava sempre più le sue visite al palazzo; se non fosse stato per Lucrezia, non ci sarebbe andato mai. Sua sorella, però, se era occupata a far segnali a Benedetto Giulente, non scendeva giù in sala. L’amoreggiamento continuava più forte di prima, in ogni sua lettera il giovane le diceva che il tempo della domanda si veniva sempre approssimando, che fra un anno il loro voto si sarebbe compiuto. Lucrezia, quantunque non ci fosse più quel diavolo di Consalvo, pure, perché non le frugassero in mezzo alle sue cose, chiudeva a chiave la sua camera quando scendeva al piano di sotto, né il principe diceva nulla pel disordine che ne derivava.

 

Così, nessuno dei legatari s’occupava della divisione; e quanto a Raimondo, egli era più che mai intento alla bella vita e ad inseguire donna Isabella in terra, in cielo e in ogni luogo. Pasqualino Riso non faceva quasi più servizio, occupato com’era a spiar le mosse della signora, a portar lettere ed ambasciate. Gli altri servi ne erano perfino gelosi: il sottococchiere, specialmente, a cui toccava tutta la fatica, e Matteo il cameriere. Essi parlavano a denti stretti della fortuna capitata al compagno, non capivano come il principe continuasse a pagarlo precisamente come prima, lasciandolo a disposizione del fratello; e dal dispiacere quasi voltavano casacca, perché, mentre prima erano contrari alla contessa, adesso la compiangevano, dicevano che non meritava quel tradimento e quel trattamento…

L’acredine degli Uzeda contro la Palmi diveniva veramente troppo viva, esercitavasi specialmente sulle figlie, perché i mali tratti usati ad esse addoloravano la contessa più che quelli diretti personalmente a lei. V’erano giorni terribili, quando donna Ferdinanda alzava la mano su Teresina, che ella passava a piangere come una bambina, a bere le sue lacrime perché non cadessero sulle lettere che scriveva al padre per nascondergli il proprio dolore, per dargli a intendere che era felice…

Ai primi di settembre, avvicinandosi la villeggiatura, il barone giunse da Milazzo per vedere le nipotine e condurre tutti con sé nelle sue campagne, dov’era venuto anche il promesso di Carlotta: il matrimonio si sarebbe celebrato fra un anno. Il principe lo volle ospite al palazzo, anche gli altri che erano tanto duri per la figlia lo accolsero con un certo garbo, quasi per non lasciargli sospettare la mala grazia usata con lei… Né egli le lesse in viso i lunghi patimenti: superbo di quella parentela, della nobiltà di quella casa, s’affermava nell’idea d’aver assicurato la felicità di Matilde. Questa, all’arrivo del padre, all’annunzio che egli veniva per condurli via tutti, ricominciò a tremare per un’altra ragione: per l’antica paura che tra il padre e il marito scoppiasse la guerra. Raimondo non si sarebbe rifiutato di seguire il suocero?… Invece, improvvisamente, un raggio di sole brillò nella sua lunga tristezza: all’invito del barone Raimondo rispose ordinando i preparativi del viaggio. Era niente, quel consenso; non poteva rassicurarla, giacché in città nessuno sarebbe rimasto, in quella stagione, e la Fersa andava come gli altri anni a Leonforte; pure, nell’angustia a cui era ridotta, l’idea di andar via dalla casa degli Uzeda, di tornar da suo padre, per consenso e in compagnia di Raimondo, le faceva trarre liberamente il respiro.

Il principe invitò tutti al Belvedere. Lì però le cose non andavano molto lisce, e i primi a provocare i dissidi furono Chiara e il marchese Federico. Cominciando a perdere la speranza di quel figlio tanto aspettato, quasi vergognosi di aver annunziato ogni momento una gravidanza che non si confermava mai, marito e moglie erano ormai pieni d’una malinconia che a poco a poco diventava una specie d’irritabilità, d’izza latente e senza oggetto determinato. La marchesa, per suo conto particolare, non poteva rassegnarsi alla mancata maternità, se n’accusava come d’una colpa, e per farsi perdonare dal marito, se prima aspettava ogni sua parola come quella d’un oracolo, adesso preveniva i suoi giudizi, intuiva le sue volontà. Egli non aveva il tempo di voltarsi, per esempio, al soffio molesto spirante da una finestra aperta, che Chiara già gridava alle persone di servizio di chiudere ogni cosa, minacciando di cacciar via tutti al rinnovarsi della trascuraggine; in conversazione, quando qualcuno raccontava un fatto o manifestava un’idea, ella leggeva negli occhi al marito se la cosa non gli andava a verso, e allora ribatteva vivacemente prima che egli avesse ancora aperto bocca. Federico, per non esser da meno, si mostrava dello stesso umore di lei, e così tutte le liti che evitavano tra loro le attaccavano invece con gli altri. Ora l’inizio della guerra col principe, del quale erano ospiti, fu l’affare del legato alla badìa di San Placido. Ostinandosi Giacomo a considerarlo nullo per la mancanza dell’approvazione regia, la Madre Badessa aveva chiamato gli avvocati del monastero, i quali ad una voce dichiararono che le ragioni del principe non valevano un fico secco; che la principessa, buon’anima, non aveva niente affatto istituito un benefizio, ma lasciata un’eredità cum onere missarum; quindi che mancava assolutamente la necessità dell’approvazione regia, quindi che il principe doveva metter fuori le duemila onze; questi invece si incaponiva nell’altra interpretazione, e la povera Suor Crocifissa piangeva sera e mattina. In un momento di malumore, viste inutili le trattative amichevoli, la Badessa aveva confidato al marchese ed a Chiara un’altra birbonata del principe: donna Teresa, felice memoria, prima di partire pel Belvedere, donde non doveva più tornare, le aveva affidato, perché la custodisse nel tesoro della badìa e la consegnasse al signor Marco, il quale doveva poi darla a Raimondo, una cassetta piena di monete d’oro e d’oggetti preziosi: appena spirata la madre, Giacomo s’era presentato per ritirare il deposito; e poiché ella aveva opposto qualche difficoltà, era tornato col signor Marco, al quale non aveva potuto rifiutarlo…

Marito e moglie restarono un poco scandalizzati, ma non si sarebbero smossi, se la Badessa, per tirarli dalla sua, non avesse loro detto che il glorioso San Francesco di Paola non aveva più reso fecondo il loro matrimonio e che la prima gravidanza era andata in fumo perché essi lasciavano consumare il sacrilegio in danno della badìa. Con questa pulce nell’orecchio, si rivoltarono tutt’e due contro il principe, ma specialmente Chiara persuadeva il marito delle birbonate del fratello. Il marchese chinava il capo alle ragioni della moglie, e a poco a poco dalla fondazione delle messe e dal carpito deposito venivano alle altre quistioni dell’eredità: alla divisione arbitraria, al numerario sottratto, ai conti rifiutati, alla pretesa che la finta epoca dell’assegno facesse fede dell’avvenuto pagamento, a tutte le ragioni di don Blasco, il quale scendeva apposta da Nicolosi per soffiar nel bossolo. Fra sette mesi si sarebbero compiuti i tre anni dalla morte della madre dopo i quali le donne dovevano riscuotere la loro parte, che il principe, quantunque avesse promesso di pagare anticipatamente, teneva ancora per sé; bisognava dunque mettere presto in chiaro tutte quelle cose, stabilire ciò che veramente toccava loro. Ma reciprocamente persuasi che, se non reclamavano, Giacomo li avrebbe messi in mezzo, né la moglie né il marito osavano lagnarsi direttamente col fratello e cognato, tanto era forte l’istinto del rispetto verso il capo della casa. Chiara però volendo dimostrare il proprio zelo, si mise ad istigare Lucrezia, perché poi questa cercasse di trarre dalla sua anche Ferdinando: ella si chiudeva in camera con la sorella, o la tirava in un angolo, per dirle tutte le ragioni dello zio monaco, aggiungendo che lei, Lucrezia, era la più sacrificata di tutti, poiché, continuando la politica della madre, Giacomo non l’avrebbe maritata, o l’avrebbe maritata il più tardi possibile, per restar padrone d’amministrar la dote. Lucrezia, non comprendendo nulla degli affari, la lasciava dire, rispondeva: «La vedremo!… Ho da dire anch’io la mia!…» Non confidava alla sorella di voler bene a Benedetto Giulente, né avrebbe dato retta alle istigazioni di lei, come non ne aveva dato a quelle dello zio monaco, se il principe, accortosi di quei secreti conciliaboli, di quei tentativi di congiura fatti nella sua propria casa, mentre godevano della sua ospitalità, non avesse trattato più freddamente le sorelle e tolto il saluto a Giulente. Lucrezia, risaputolo e consultatasi con la cameriera, la quale disse che era tempo di farsi sentire se il principe si portava male anche col «signorino», aprì l’orecchio alle ragioni di Chiara. La sorda ostilità tra fratello e sorelle s’inasprì al ritorno dal Belvedere, quando Lucrezia cominciò a lagnarsi con Ferdinando, per farlo entrare nella lega. Allora entrò in scena Padre Camillo, il confessore.

Tornato da Roma dopo la morte della principessa, il Domenicano era rimasto, con stupore di tutti, confessore del principe come ai tempi della madre. Giacomo non solamente s’accostava al sacramento, ma chiamava in casa il padre spirituale, prendeva consiglio da lui come aveva fatto donna Teresa, e don Blasco fiottava contro «questo collotorto Gesuita» che, dopo aver fatto da spia alla madre, faceva da spia al figliuolo, ragione per cui «quel ladro» di Giacomo non lo aveva preso «a calci nel preterito». Ma Padre Camillo, tutto Gesù e Madonna, neppure udiva le diatribe del Cassinese; e presa un giorno a parte Lucrezia, le cominciò un lungo discorso per dirle che dichiararsi malcontenta del testamento materno era un peccato eguale a quello di disobbedire alla madre morta. La principessa, da madre saggia e giusta, aveva ripartita la sua sostanza «con la bilancia», perché al cuore di una madre tutti i figli dovevano essere «egualmente cari». Certo il principe e il conte avevano ottenuto una parte privilegiata; ma erano appunto il principe, cioè il capo della casa, l’erede del titolo, e il conte, cioè quell’altro dei figli maschi che aveva una famiglia da mantenere con lustro. Per gli altri, la sant’anima aveva fatto le parti eguali «fino all’ultimo baiocco». Le davano a intendere che avrebbe potuto aver terre, invece di moneta? Egli citò l’antichità, i testamenti dei defunti principi di Francalanza, l’istituzione fedecommissaria e la legge salica, portando ad esempio quel che era avvenuto nella generazione precedente. Donna Ferdinanda aveva forse avuto beni stabili? Adesso, sì, ne possedeva, ma perché, dotata di quello spirito di accorta prudenza che era tradizionale nella famiglia, aveva moltiplicato il capitale lasciatole dal padre, investendolo successivamente in case e poderi. C’era anzi di più: chi aveva preso moglie, fra tutti quei figli? Nessuno! Don Blasco, con vocazione «esemplare», aveva rinunziato agli adescamenti del mondo per professarsi. La primogenita si era chiusa a San Placido, né il duca e don Eugenio avevano preso moglie, né donna Ferdinanda marito. Perché? Perché essi si consideravano come semplici depositari della loro parte di sostanza! Nella presente generazione, la regola aveva avuto due eccezioni: il conte che aveva sposato donna Matilde, Chiara che era diventata marchesa di Villardita. Ma qui rifulgeva lo zelante amor materno della principessa. Non tutte le persone son fatte ad un modo, ciò che ad uno pare soverchio od inutile è ad altri conveniente; chi si contenta di uno stato e chi ne soffre. La buon’anima aveva compreso che per la felicità di Raimondo il matrimonio era necessario, quindi gli aveva dato moglie, senza badare a sacrifizi. Per Chiara, una propizia occasione erasi presentata, ed a fine d’assicurare la felicità di quella figlia la principessa le aveva perfino forzato la mano: adesso il tempo dimostrava da qual parte fosse stata la ragionevolezza! Quanto a lei, Lucrezia, Dio aveva permesso che sua madre morisse prima del tempo in cui avrebbe dovuto pensare all’avvenire di lei; ma, se questa era stata una gran disgrazia, non voleva poi dire che l’avvenire di lei non stesse a cuore al fratello maggiore. Era strano parlare a una ragazza di certe cose, ma la necessità lo stringeva. Certo il desiderio della santa memoria, desiderio ragionatissimo, fondato sopra argomenti positivi e non sopra capricci, era che ella restasse in casa, ma se, tutt’al contrario, ella avesse creduto pel proprio meglio di fare altrimenti, le davano forse a intendere che, volendo ella maritarsi, il principe le si sarebbe opposto? Quando si fosse presentata l’occasione di accasarla bene, col decoro conveniente al suo nome, il principe non l’avrebbe lasciata sfuggire. Ma bisognava aver fiducia in lui, esser sicura che egli non poteva desiderare altro che il bene della sorella, considerandosi investito d’una specie di tutela morale. E non dare l’esempio d’un dissidio funesto, che sarebbe stato di scandalo in questo mondo, e d’infinita amarezza alla sant’anima nel mondo di là.

 

Mentre il confessore teneva questo discorso a Lucrezia, il principe ne teneva un altro un poco diverso a donna Ferdinanda. La zitellona, pure vituperando i Giulente, s’era col tempo rassicurata sulle loro pretese; quella bestia del duca non essendo più lì a secondarle, ella credeva che l’amoreggiamento fosse finito del tutto. Invece un giorno che si parlava della responsabilità dei capi di famiglia quando in casa vi sono ragazze da marito, Giacomo disse alla zia che anche Lucrezia avrebbe dovuto un giorno o l’altro accasarsi, che da parte sua l’avrebbe lasciata libera di prendersi chi meglio le piaceva, tanto più che una scelta ella doveva averla già fatta… La zitellona si rivoltò come un aspide:

«Ha scelto? Ha scelto? E chi è che ha scelto?»

«Chi? Il solito Giulente…»

Ella diventò rossa in viso quasi fosse sul punto di soffocare.

«Ah sì… Ancora?… E tu l’hai lasciata fare?»

«Vostra Eccellenza sa bene come siamo tutti di casa,» rispose il principe, sorridendo. «Quando ci mettiamo qualcosa in capo, è difficile ridurci a mutar sentimento…»

«Ah, è difficile? Le farò veder io se è difficile o è facile!…»

Da quel momento la zitellona diventò una vipera con la nipote: le sgridate, per una ragione o per un pretesto qualunque, s’udivano fin giù nelle scuderie; le allusioni ironiche ai romanzetti fioccavano acri e pungenti, gl’insulti contro i Giulente si seguivano e non si rassomigliavano. Diceva cose enormi dei vicini, li accusava d’ogni porcheria e perfino di crimini. Non si contentava più di dire che erano ignobili, affermava che il nonno del vecchio Giulente aveva accumulato i primi quattrini facendo il bottinaio a Siracusa, suo figlio aveva rubato il Municipio, suo nipote il governo, tutte le donne erano state altrettante baldracche… Lucrezia la lasciava dire. Non capivano che più s’accanivano contro Giulente più ella pensava a lui, che ogni discorso diretto a distoglierla dal suo proposito glielo ribadiva in capo più saldo. «Sposerò Benedetto, o nessuno,» diceva alla cameriera, dopo quelle sfuriate. «Hanno voglia di gridare; quando sarà l’ora, lo sposerò.» Il principe intanto, dopo averle sciolto contro quel cane, la trattava meno duramente. Un giorno che la donna portava una lettera di Giulente alla padroncina, egli le tolse la carta di mano, ne lesse l’indirizzo, e gliela restituì. Donna Vanna corse dalla signorina per dirle, ansante: «Vostra Eccellenza stia di buon animo! Vuol dire che ci ha piacere, che finalmente s’è persuaso…» Egli aveva anche raggiunto lo scopo di rompere la lega tramata contro di lui, perché il marchese Federico, fanatico della nobiltà quanto gli Uzeda, udendo che la cognatina incaponivasi nel voler sposare Giulente, aveva dimostrato il proprio dispiacere per quel partito; allora sua moglie s’era schierata con la zia contro la sorella, dandole della stravagante, accusandola di pazzia. Lucrezia invece, sfogandosi con Vanna, rammentava le smanie, i pianti, gli svenimenti di Chiara quando l’avevano costretta a sposare il marchese: «E adesso si mette con quelli che vogliono costringere me! Non m’importa della sua opposizione! Una pazza di quella fatta! Una bandiera al vento! Ora è tutt’una cosa col marito che prima non poteva sentir nominare; domani cambierà un’altra volta: vedrai!…»

In mezzo a quella guerra, tornò Raimondo da Milazzo, senza la famiglia. Non s’occupò neppure un quarto d’ora della casa e dei parenti; appena arrivato si chiuse con Pasqualino, il domani fu visto seguire in chiesa la Fersa; le mormorazioni dei servi, dei curiosi, degli scioperati del Casino dei Nobili ricominciarono. Aveva detto a sua moglie che sarebbe rimasto lontano una settimana, per affari, ma dopo due mesi non le annunziava ancora il ritorno. Alle lettere di lei rispondeva chiedendo tempo, o non rispondeva affatto; in carnevale, Matilde lo raggiunse, accompagnata dal padre. Egli l’accolse con tre parole, pronunziate freddissimamente:

«Perché sei venuta?»

Aveva combinato una serie di divertimenti con gli amici che gli davano mano; il giovedì grasso, in un carro rappresentante un vascello dove tutti erano mascherati da marinai, passò e ripassò sotto la casa di donna Isabella, scagliando fiori e confetti per un quarto d’ora ogni volta contro i suoi balconi; il sabato, a una festa a contribuzione nelle sale del Palazzo Comunale ballò tutta la sera con lei; il lunedì ricominciò, al veglione del Comunale. E Matilde, lasciata sola dal padre che era andato a raggiungere le bambine, ripeteva tra sé quella domanda, le sole parole che egli aveva trovato per rispondere alla premura di lei: «Perché sono venuta?» Per assistere a questo!… Egli dunque continuava a fingere, a mentire, ad ingannarla; anzi, neppure se n’era data la pena! Appena arrivato a Milazzo, aveva smaniato come un pazzo contro la vita di quella spelonca, l’aveva torturata con lagnanze, con rimproveri, con un malcontento quotidiano, con un malumore di tutti i momenti, finché non era riuscito a scappare. Ma ingiustizie, sgarbi, violenze, gli avrebbe perdonato ogni cosa, tanto gli voleva ancora bene; gli perdonava perfino l’indifferenza con la quale trattava le sue figlie, le innocenti creature che erano sangue suo! Ma vederselo sfuggire, ma saperlo tutto d’un’altra, ma ritrovare sulla persona di lui il profumo degli abiti, delle mani, dei capelli di quell’altra; questo no, ella non poteva soffrirlo!

«Ah, ricominci? Sei dunque venuta per rompermi di nuovo la testa?» rispondeva egli ai suoi tentativi di rimostranze, ai suoi timidi rimproveri. «Perché non te ne sei rimasta con tuo padre, dunque?»

«Perché io debbo stare con te, perché il mio posto è al tuo fianco, e perché nemmeno tu devi lasciarmi!»

«E chi ti lascia? Se volessi lasciarti, ti pare che sarebbe troppo difficile? A quest’ora avrei già fatto fagotto, e me ne sarei andato a Firenze, a Parigi, o a casa del…»

«Andiamo via insieme! Perché non torniamo a Firenze? Abbiamo là la nostra casa…»

«Perché in questo momento ho qui da fare!»

«Se hai dato la procura a tuo fratello…»

«Ho dato la procura per gli affari ordinari dell’amministrazione; ora bisogna venire alla divisione e pagare le mie sorelle, perché compiscono tre anni dall’aperta successione: hai capito? O vuoi fatto il conto? Mia madre è morta nel maggio del ‘55 e siamo nel marzo del ‘58… Sono tre anni, sì o no? Vuoi saper altro?»

«Perché mi parli così? Che t’ho detto di male?»

«Nulla! Nulla! Nulla! Soltanto, ti pare che sia un bel gusto sentirsi rotto il capo ad ogni poco con questi sospetti continui?»

«No, no; non lo farò più… non ti dirò più niente…»

Sarebbe stato capace di porre in atto la sua minaccia, di abbandonarla, di abbandonar le sue figlie!… Gli nascondeva quindi il proprio dolore, vedendo che egli continuava peggio di prima, come se ogni rimostranza fosse stata invece un incitamento. Adesso dicevasi che anche Fersa aveva finalmente dato ascolto alla madre, aprendo gli occhi, facendo capire al conte che quelle assiduità non gli piacevano; e infatti non conduceva più sua moglie dagli Uzeda, né si vedeva più Raimondo avvicinare donna Isabella in pubblico; viceversa egli seguiva la carrozza dei Fersa con la propria da per tutto, quasi inseguendoli; e in chiesa, al teatro, le si piantava dirimpetto, senza più lasciarla con gli occhi.