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I Vicere

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«Che scrive tua sorella?»

«Nulla… che stanno tutti bene, che non corrono pericolo…»

«Hai visto?… Quando io ti dicevo?…» e le voltò le spalle.

Erano passate due settimane dal loro arrivo e ancora non aveva udito parlare della Fersa. La sera di quel giorno, appena cominciò a venir gente, ella andò a chiudersi nella sua camera. Stava male, non solo di spirito, ma anche fisicamente; la lunga agitazione travagliava alla fine anche il suo corpo. Era da un pezzo buttata sul letto, con gli occhi e la mente fissi nelle tristi visioni del passato, nelle paurose previsioni dell’avvenire, quando fu picchiato all’uscio.

«Cognata?…» era la voce del principe. «Che fate? Perché non venite giù? C’è molta gente, stasera… si giuoca…»

Ella levossi, s’acconciò con mano tremante i capelli scomposti e discese. Certo, quell’altra era finalmente venuta! Certissimamente Raimondo le stava al fianco! La chiamavano per farla assistere a quello spettacolo e per goderne!… Guardò rapidamente nel salone zeppo: non c’era. Però, aveva appena preso posto accanto alle cognate, che la udì nominare: qualcuno diceva:

«…la villetta affittata a donna Isabella…»

«Un guscio di noce!» rispose un altro. «I Mongiolino ci stanno come le acciughe in un barile.»

Ella non comprendeva.

«Ma i Fersa dove se ne sono andati?»

Era proprio Raimondo che faceva questa domanda? Non sapeva dunque dov’era colei?

«Nella campagna di Leonforte; donna Mara ha preferito….»

Ella comprese a un tratto; la gola le si strinse convulsamente. Andata via senza dir nulla, traversò la casa con gli occhi gonfi e il cuore tumultuante; giunta nella sua camera, cadde ai piedi dell’imagine della Vergine, scoppiando in pianto dirotto; pianto di gioia, di gratitudine di rimorso anche: poiché ella aveva sospettato degli innocenti…

Le parve di tornare da morte a vita; coi sospetti, cessarono i dolori dell’anima e quelli del corpo; partecipò alla vita della famiglia, assaporò finalmente la dolcezza del riposo. Anche le notizie del colera non le davano timore pei cari lontani; dopo le stragi dell’anno innanzi la pestilenza pareva non trovasse più dove apprendersi, serpeggiava qua e là senza forza.

Alla villa Francalanza continuava la vita allegra; tutte le sere conversazione e giuoco. Raimondo era adesso il più assiduo alla tavola verde; quand’egli prendeva le carte, le poste aumentavano, il rischio cresceva. Molti s’alzavano, intendendo svagarsi e non lasciarvi la borsa; la principessa di Roccasciano, invece, non chiedeva di meglio, molte volte restava sola col conte a far la bazzica da dodici tarì. Si nascondeva dal marito, il quale, come tutti i parsimoniosi, biasimava ogni specie di giuoco: amici compiacenti stavano alle vedette per farle un segno appena egli s’avvicinava; allora ella e il suo complice facevano sparire i gettoni, interrompevano la partita e si lasciavano sorprendere intenti a una scopa innocente. Raimondo ci si spassava, incitava la principessa al giuoco forte, la tirava in una stanza fuori mano dove restavano più a lungo a contendersi i quattrini, mettendo poi in mezzo, con l’aiuto di tutta la società, il principe sospettoso. Matilde, sorridendo anche lei di quelle scene da commedia, giudicava tuttavia che suo marito facesse male a fomentare così il vizio della principessa; ma non le bastava il cuore di rimproverarlo, tanto la rinata fiducia la faceva indulgente. Purché egli non la tradisse, che le importava del resto? Tra le signore che venivano alla villa, Raimondo pareva non apprezzarne alcuna; stava poco in loro compagnia, si dava tutto al giuoco: il giorno al casino, la sera in casa. Non che biasimarlo, pertanto, ella avrebbe quasi voluto spingerlo in quella via che lo distoglieva da un’altra infinitamente più dolorosa. Il cuor suo lo avrebbe voluto senza nessun vizio, solo amante di lei, della famiglia, della casa; ma lo prendeva com’era, anzi come lo avevano fatto, giacché ella addebitava quel che trovava in lui di men bello alla soverchia indulgenza, al cieco amore della madre.

Lontano dalle carte, Raimondo s’annoiava. Se non poteva combinare una buona partita, smaniava contro la noia di quel villaggio, contro la conversazione dei villani, contro gli stupidi divertimenti della tombola e delle gite sugli asini. Ella poteva dirgli: «Con chi te ne lagni? Non volesti venirci tu stesso?» Però taceva, affinché egli non prendesse quelle parole come un rimprovero. Invece, vedendolo di cattivo umore, gli domandava dolcemente che avesse.

«Ho che mi secco, non lo sai?» le rispondeva.

«Che vuoi farci!… Quando il colera cesserà torneremo a Firenze… Perché non vai al casino?»

Egli non se lo faceva ripetere. A poco a poco, il giuoco diveniva indiavolato; nel giro di poche ore facevano differenze di centinaia d’onze. Nessuno, in casa, diceva nulla a Raimondo; il principe, già più alla mano con tutti, pareva studiarsi di non pesare per nulla sul fratello. Un giorno questi, poiché da Milazzo, per via del colera, tardavano a mandargli denari, gli chiese, in conto delle rendite ereditate, qualche centinaio d’onze: il principe mise la propria cassa a sua disposizione; egli tornò ad attingervi a più riprese. Naturalmente, se il colera non finiva, non si poteva far nulla per la sistemazione dell’eredità; nondimeno, il principe ne parlava adesso direttamente al coerede, gli comunicava i propri disegni. Avevano dato a intendere ai legatari che erano stati trattati male dalla madre, ma la dimostrazione del contrario sarebbe stata facile e pronta. Già, né Ferdinando né Chiara davano ascolto ai sobillatori; la stessa Lucrezia si sarebbe subito convinta del proprio torto. Quindi, per amore della pace, per mettere in chiaro ogni cosa, quantunque avessero ancora tanto tempo a pagar le sorelle, non era meglio togliersi al più presto quel peso di su le spalle? Avrebbero fatto un poco di economia per raccogliere le sedicimila onze occorrenti, giacché se Lucrezia doveva averne diecimila, a Chiara ne toccavano soltanto sei, dovendosi sottrarre le quattro da lei «avute» nel maritarsi. Prima, però, bisognava pagare i creditori, metter tutto in pulito. Frattanto, per guadagnar tempo, potevano intendersi loro due, circa la divisione. E a nessuno di quei ragionamenti del fratello, Raimondo trovava nulla da obiettare. «Va bene, va bene,» era la sua risposta.

In mezzo a questa pace, piombò un bel giorno don Blasco da Nicolosi, a cavallo a un gigantesco asino della Pantelleria. Scappato con tutto il convento, il monaco non aveva messo fuori neppure il naso, nelle prime settimane, per paura di prendere il colera con l’aria che respirava; ma visto che per la campagna prosperavano uomini e bestie, rassicuratosi sul pericolo del contagio, udito finalmente che al Belvedere facevano baldoria, non stette più alle mosse. Arrivò lì, fra colazione e desinare, annunziandosi con grandi vociate perché nessuno gli apriva il cancello; visto poi il principino che gli veniva incontro con una bacchetta in mano la quale spaventava la cavalcatura, gridò al ragazzo, come se volesse mangiarselo: «Vuoi star fermo, che il diavolo ti porti?» e entrò finalmente nella villa esclamando: «Non c’è nessuno, qui dentro?… Che stillate?…» Al principe che voleva baciargli la mano, spiattellò: «Lascia stare queste smorfie…» e senza salutar nessuno, lo prese pel bottone dell’abito, lo trasse in disparte e gli domandò a bruciapelo:

«È vero che tuo fratello si giuoca la camicia che ha indosso? Com’è che puoi permettere una cosa simile?»

«Vostra Eccellenza non conosce Raimondo?» rispose il principe, stringendosi nelle spalle. «Chi può dirgli nulla? Provi Vostra Eccellenza a dissuaderlo…»

«Io? Ah, io? A me importa un mazzo di cavoli di lui e degli altri! Questo è il frutto dell’educazione che gli hanno data! E quell’altra buona a nulla di sua moglie? Tutto il giorno a grattarsi la pancia piena? E tua sorella? E quei pazzi? E tuo figlio?…»

Non risparmiò nessuno: i discorsi di Chiara e del marchese relativi al corredo del nascituro gli fecero montare la mosca al naso, le notizie dei Giulente lo imbestialirono; ma quel che gli fece perdere il lume degli occhi fu la lettura del Giornale di Catania portato dal principe di Roccasciano nel pomeriggio, quando cominciarono a venire le prime visite. Subito dopo il bollettino del colera si leggeva in quel foglio: «La generosità dei nostri cospicui patrizi non poteva mancare, in tempi tanto calamitosi, di venire in soccorso della sventura. L’Illustrissimo don Gaspare Uzeda duca d’Oragua, benché lontano dai suoi concittadini, pure ha fatto tenere al nostro Senato la somma di ducati cento da distribuirsi in soccorso dei più bisognosi…» Cento ducati buttati via, per soccorrere i bisognosi? Dite piuttosto per fregola di popolarità! Cento ducati buttati a mare, quasi che quella bestia avesse molto da scialare? A furia di largizioni un bel giorno avrebbe battuto il… capo sul lastrone, come meritava la sua sciocchezza: bestia, bestione, tre volte bestionaccio!… Il monaco era talmente fuori della grazia di Dio, che quando Roccasciano gli chiese notizie di suo nipote don Lodovico, si voltò come una furia:

«Di che nipote m’andate nipotando?… Non li conosco!… Li rinnego tutti quanti!…» E preso anche quest’altro pel bottone della giacca, gli gridò all’orecchio: «Vedete un po’ quel che fanno?… Non sono tre mesi che han perduta la madre, e intanto se la spassano, senza un riguardo al mondo!…»

Qualche giorno dopo ci fu la visita del Priore. Arrivò in carrozza, riposato e sereno: salutò ed abbracciò tutti, volle entrare nella camera dov’era spirata la principessa, parlò della pestilenza attribuendola al corruccio del Signore per le nequizie dei tempi. Tutti lagnavansi dell’ostinata siccità, perché in tre mesi di torrida estate non era caduta una goccia d’acqua: egli riferì d’aver disposto un triduo, a Nicolosi, e una processione per impetrare la pioggia; altrettanto consigliò che facessero al Belvedere.

 

«Non bisogna stancarsi di pregare l’Altissimo. Solo la preghiera e la penitenza potranno indurre la Divina Clemenza a perdonare i peccatori.»

Poi annunziò che la cugina Radalì gli aveva scritto per avvertirlo che, appena cessato il colera, voleva mettere il secondogenito Giovannino al Noviziato: provvedimento lodevole poiché, col marito in quello stato, la povera duchessa non poteva badare all’educazione di entrambi i figliuoli. Il principe disse che anch’egli forse avrebbe fatto altrettanto per Consalvo. La principessa chinò gli sguardi a terra, non osando replicare, ma non potendo soffrire di esser divisa dal suo bambino.

Così zio e nipote tornarono a venire, soli, in giorni diversi, incapaci di stare insieme, come cani e gatti. Però tutti riconoscevano che la colpa era di don Blasco: don Lodovico, con la sua natura veramente angelica, non avrebbe chiesto di meglio che far la pace; quell’altro invece non gli perdonava ancora l’assunzione al priorato. Comunque, la scissura era dispiacevole: gli amici di casa, i frequentatori del convento ne parlavano con dolore. Non ne parlava affatto fra’ Carmelo, il quale venne anch’egli a far visita alla principessa ed a portarle le prime nocciuole e le prime castagne. Non voleva parlare della nimistà tra zio e nipote per amore della buona fama del convento, per rispetto ai Padri che, a suo giudizio, erano tutti buoni e bravi egualmente; ma in modo particolare per la venerazione che portava ai due Uzeda. Quei suoi sentimenti comprendevano tutta la parentela. Quando la principessa, in cambio della frutta che egli recava, gli faceva apprestare uno spuntino, il frate, sparecchiando rapidamente, esaltava la nobile casata, casata di signoroni come ce n’eran pochi. E la principessa gli voleva bene pel bene che egli dimostrava al piccolo Consalvo, per le carezze che gli faceva, per gli speciali regalucci che gli portava, singolarmente perché, narrandogli il Noviziato degli zii don Lodovico e don Blasco, gli diceva:

«Ce n’è stati tanti degli Uzeda, a San Nicola! Ma Vostra Eccellenza non l’avremo! Vostra Eccellenza è figliuolo unico, e non lo metteranno certamente al monastero!…»

Tutti i parenti, invece, tranne Chiara, che se avesse avuto un figliuolo se lo sarebbe cucito alla gonna, erano dell’opinione del principe, che per l’educazione e l’istruzione del ragazzo convenisse mandarlo fuori di casa. Don Blasco specialmente, alle monellate del pronipote, all’indulgenza della principessa, vociava: «Ma come cresce, cotesto squassaforche!… Che educazione è questa qui!…» Donna Ferdinanda, quantunque giudicasse soverchia ogni istruzione, pure riconosceva anche lei che mettere il ragazzo in un nobile istituto sarebbe stato secondo le tradizioni della casa: tanto il collegio Cutelli quanto il Noviziato benedettino avevano visto molti di quegli antenati di cui ella leggeva e spiegava al nipotino la storia. Quando Consalvo era stanco di molestare le persone e le bestie, se ne veniva infatti dalla zitellona e le diceva:

«Zia, vediamo gli stemmi?»

Gli stemmi erano l’opera del Mugnòs, illustrata con le armi delle famiglie di cui il testo ragionava; e donna Ferdinanda passava intere giornate leggendola e commentandola al nipotino.

Gli aveva già fatto un piccolo corso di grammatica araldica, spiegandogli che cosa volesse dire scudo partito e diviso, inquartato e soprattutto; mettendo il dito adunco sul rame che rappresentava quello di casa Uzeda gliene faceva ogni volta la descrizione perché la mandasse a memoria:

«Inquartato, al primo e al quarto partito, d’oro all’aquila nera, linguata e armata di rosso, e fusato d’azzurro e d’argento; al secondo e al terzo diviso, d’azzurro alla cometa d’argento e di nero al capriolo d’oro; sopra il tutto d’oro con quattro pali rossi che è d’Aragona; lo scudo contornato da sei bandiere d’alleanza.»

Poi gliene spiegava la formazione: la cometa voleva dire chiarezza di fama e di gloria; il capriolo rappresentava gli sproni del cavaliere. Lo stemma piccolo in mezzo al grande era quello dei Re aragonesi; gli Uzeda lo avevano ottenuto a poco a poco, non tutto in una volta: il primo palo al tempo di don Blasco ii.

«Seruendo egli,» la zitellona leggeva nel suo testo, «all’inuitto Re don Giaime nella gverra ch’hebbe col conte Vguetto di Narbona e coi Mori nell’acquifto di Maiorca, non n’hebbe remvneratione uervna, perilche ritiratofi dal Real feruiggio fenne andò coi fvoi al fuo Stato, et iui uedendo che il Re mandaua vna groffa fomma di denari alla Reina, con dvcento caualieri fvoi uaffalli in un celato paffo fi pvofe, et agvatando i real carriaggi gli tolse i denari e quanto di fopra portauano, mandando a dire al Re ch’era lvi obbligato di pagar prima i feruiggi perfonali, e doppo fodiffar gli appetiti della Reina: ma fdegnatofi di qvefte attioni il Re moffe contra di Blafco graue gverra, che per l’interpofitione di molti baroni piaceuolmente fi disftaccò, et ottenne la baronia di Almeira nonché poteftà di poter imporre alle fve Arme vn palo roffo d’Aragona.» La zitellona gongolava, leggendo quella storia, e dopo averla letta la ripeteva al nipotino con linguaggio meno fiorito perché egli ne intendesse meglio il senso: «Bel Re, quello, eh? che si faceva servire dai suoi baroni e poi non voleva dar loro niente! Ma la pensata di don Blasco Uzeda non fu più bella? “Ah, non date niente a me che ho combattuto per voi, e pensate invece a mandar regali alla Regina? Aspettate che vi accomodo io!…”» La sua voce tremava di commozione nel ripetere la storia della rapina, e i suoi occhi furaci come quelli dell’antenato s’infiammavano della secolare cupidigia della vecchia razza spagnuola, dei Viceré che avevano spogliato la Sicilia.

«E gli altri pali?» domandava il principino, che pendeva dalle labbra della zia meglio che se gli raccontasse le fiabe di Betta Pelosa e della Mamma Draga.

La zitellona sfogliava rapidamente il libro e piombava sul passaggio cercato.

«A cagion di ciò auuenne ch’il predetto Gonzalo de Vzeda, effendo eccellente cacciatore, fv inuitato dal Re Carlo di andare a caccia nei bofchi fvoi, il qvale inuito fv dal Gonzalo accettato, e mentre ognvno fi procacciaua e’l Re medefmo di fegvire i Daini, Cinghiali, e Lepri, andò folo il Re appreffo vn groffo cinghiale, il quale aftvtamente fi trattenne nel corfo, ma perché il cauallo del Re fvriofamente di fopra gli correua, nel paffar impedito da quello, cafcò con tvtto il Re in vn fafcio per terra, il qvale reftò con vna gamba di fotto di cauallo, uedendo ciò il cinghiale, f’auuentò fopra il Re per vcciderlo, il qvale per non hauerfi potvto difbrigare fi difendeua folamente con vn pvgnale, e ne reftaua fenz’altro morto fi non che auuedvtofi da lvnge Gonzalo del pericolo del fuo Re, corfe per soccorrerlo, et al primo incontro vccife il cinghiale, e scendendo poi da cauallo, l’aivtò poi a forgere e’l fè montar fopra il fuo cauallo, e tvtta via il Re ringratiandolo e lodandolo il chiamò: “Bon figlio!” perilche fvrono poi fempre i fignori di Vzeda chiamati dai Regi Siciliani col titolo di confangvinei, e portarono fovra l’arme l’Arme Regia di Aragona con tutti i fuoi poteri, come in effetto al prefente fpiegano, dicendo anche il cronista madrileno: “Los feruicios de los Vzedas fveron tantos, y tan buenos que por merced de los Reyes de Aragona hazian la mefmas armas que ellos…”»

Chi poteva più arrestare donna Ferdinanda, una volta cominciato? Ella non aveva un uditore più attento del ragazzo, gli voleva bene appunto per questo, giacché gli altri parenti le prestavano un orecchio distratto, badavano alle loro «sciocchezze», o lavoravano ad offuscar lo splendore della casa, come quel volpone del duca amoreggiante coi repubblicani, come quella pazza da legare di Lucrezia che non voleva smetterla d’aspettare al balcone il passaggio del Giulente!…

Solo fra tutti don Eugenio, quando non lavorava alla memoria per disseppellire la nuova Pompei, assisteva alla lettura del Mugnòs, citava altri storici della famiglia. Allora fratello e sorella passavano a rassegna il lungo ordine di avi, recitavano la cronaca delle loro gesta, il secolare sforzo per afferrare e mantener la fortuna; i tradimenti, le ribellioni, le prepotenze, le liti continue che gli scrittori narravano velatamente, e che essi magnificavano. Artale di Uzeda, «giornalmente dal suo castello con i suoi armigeri uscendo, signoreggiava tutto il paese»; Giacomo, vissuto al tempo del Re Lodovico, «dominò Nicosia e ne fu alla perfine rimosso per i molti dazi che impose»; don Ferrante, «cognominato Sconza, che nel siculo idioma suona il medesimo che Guasta», perdé tutti i suoi feudi, «mercé l’inobbedienza che usò col suo Re; ne ottenne quindi il perdono, ma non per questo dimorò nella fedeltà, poiché per sue cagioni si discostò di bel nuovo della Regia obbedienza, e preso e condannato a morte ebbe per Grazia Sovrana salva la testa», don Filippo fu celebrato «pel valore che mostrò in favor del suo Re don Ferdinando contro al Re di Portogallo, di maniera, ch’essendo bandito della Corte per cagion d’omicidio, fu liberato e venne in Grazia del suo Re»; Giacomo v «perché aveva venduto suoi feudi a Errico di Chiaramonte, pretese poi ricuperargli dal poter di quello, e gli tentò lite»; Don Livio «si delettò di vendicarsi acerbamente degli oltraggi che gli furono fatti»; ecc. ecc. Questi erano, per donna Ferdinanda, atti di valore e prove d’accortezza. Né gli Uzeda avevano litigato coi sovrani e coi rivali soltanto, ma anche tra loro stessi: don Giuseppe, nel 1684, «si casò con donna Aldonza Alcarosso, colla quale procreò a don Giovanni e a don Errico, che per la morte dei loro padri innanzi l’avo pretesero succedergli negli Stati di quello e litigarono lungo numero d’anni innanzi la Regia Corte»; don Paolo ebbe «lunghe e criminose contese con suo padregno»; Consalvo, conte della Venerata «per la morte del padre fu spogliato dal suo zio, e per aver repudiato l’infertile moglie combatté alcuni anni con suo cognato»; Giacomo vi «cognominato Sciarra, che Rissa nel tosco idioma diremmo, non puoche differenze ebbe col padre». Consalvo iii, «cognominato Testa di San Giovanni Battista, dolorò la fellonia dei figli che seguirono Federico conte di Luna, bastardo del Re Martino»; ma il più terribile di tutti fu il primo Viceré, il grande Lopez Ximenes, «che perdette l’animo dei suoi soggetti, per i vizi d’un figliuol naturale molto prepotente e di sciolti costumi: onde il padre, avendolo trovato reo et incorreggibile, con somma severità lo condannò a morte, sentenzia che si sarebbe eseguita, se il Re don Ferdinando, che ritrovavasi in Sicilia, non avesse ordinato che non si effettuisse…» Don Eugenio, di tanto in tanto, per edificazione del ragazzo, giudicava conveniente fare qualche dissertazione morale; donna Ferdinanda invece lodava tutto, ammirava tutto. Col tempo, con l’esercizio del potere, la razza battagliera erasi infiacchita: il secondo Viceré, sfidato a duello da un barone ribelle, «non puose prudentemente orecchio all’invito che questo sconsigliato giovane avevagli fatto»; la condotta dell’imbelle antenato, per la zitellona, era altrettanto lodevole quanto quella degli altri che avevano attaccato lite con tutti per niente. Ed a proposito di duelli, dove lasciare il famoso decreto di Lopez Ximenes?

«Aveva mandato bandi sopra bandi,» narrava la zitellona al nipotino, «per proibire le sfide; ma a chi diceva, al muro? Non gli davano retta! Ah, no? Allora fece una pensata; aspettò il primo duello, che fu tra Arrigo Ventimiglia conte di Geraci e Pietro Cardona conte di Golisano, e confiscò tutti i loro beni: glieli tolse, hai capito?»

«E chi se li prese?»

«Tornavano al Re,» spiegò don Eugenio; «ma poi la faccenda s’accomodò: Ventimiglia se ne andò fuori Regno, e Cardona regalò al Viceré il suo castello della Roccella, per ottener perdono…»

A furia di simili pensate, il Viceré venne però in uggia a tutto il mondo, tanto che il Parlamento mandò deputazioni in Spagna perché il sovrano lo rimovesse dal posto: opera dei baroni invidiosi e birbanti a giudizio della zitellona —, ma lui più fino di loro, che fece? Offrì al Re un dono di trentamila scudi, e così restò al suo posto; per poco, però. Era naturale che non lo potessero soffrire, giacché nessun altro aveva tanta potenza, tanta ricchezza e tanta nobiltà. C’erano stati prima molti altri governatori della Sicilia che tenevano il luogo del Re, ma si chiamavano Presidenti del Regno, o Viceré non proprietari, e dovevano consultare Sua Maestà prima di eleggere qualcuno alle cariche di Mastro Giustiziere, d’Ammiraglio, di Gran Siniscalco, ecc.; e non potevano dare feudi o burgensatici che oltrepassassero la rendita di onze duecento castigliane, né somme di denaro superiori a duemila fiorini di Firenze; era loro egualmente proibito di nominare i castellani di Palermo, Catania, Mozia, Malta, ecc., ecc., mentre l’Uzeda esercitava lo stesso preciso potere del Re, potendo, come diceva il rescritto: «emanar leggi durature a suo piacere, condonare la pena di morte, conferire dignità, far tutto ciò che avrebbe fatto lo stesso Re, esercitare tutti gli atti riserbati alla suprema regalìa ed alla regia dignità, ancorché avessero ricercato un mandato speciale o specialissimo…» Chi poteva dunque star loro a fronte? Che avevano da invidiare alle famiglie più nobili di Napoli e di Spagna? Si gloriavano perfino d’una santa in cielo: la Beata Ximena. Era vissuta tre secoli e mezzo addietro; maritata dal padre, per forza, al conte Guagliardetto, terribile nemico di Dio e degli uomini, aveva ottenuto la conversione del colpevole e compiuto grandi miracoli in vita e dopo morte: il suo corpo, portentosamente salvato dalla corruzione, conservavasi in una cappella della chiesa dei Cappuccini!… E come, sfogliando il volume per vedere gli altri stemmi, quelli dei Radalì, dei Torriani, il ragazzo domandava alla zia perché non c’era quello della zia Palmi, la zitellona rispondeva, secco secco: «Lo stampatore dimenticò di mettercelo; ma è così: suo padre che, con una zappa in mano, pianta un piede di palma…»

 

Verso la fine di settembre il colera crebbe d’intensità; il 25 il bollettino segnò trenta morti, ma si diceva che fossero più e che gl’infetti superassero il centinaio e che qualche caso sparso inquietasse le campagne. Ci fu una nuova scappata di gente; la vigilanza al Belvedere era continua perché non entrassero i fuggiti da luoghi sospetti: contadini e cittadini, armati di schioppi, carabine e pistole, facevano la guardia in tutte le vie che mettevano capo al paesello, esercitando una specie di polizia arbitraria e inappellabile; e poiché, ad ogni passaggio di fuggiaschi, avvenivano scene tra comiche e tragiche, Raimondo per vincer la noia – essendo il giuoco interrotto per quel nuovo spavento – gironzava spesso per i posti di guardia. Un giorno, saputosi che a Màscali c’era gente ammalata di colera, i carri e le carrozze provenienti di lì non furon lasciati passare. Mentre quelli del Belvedere intimavano il dietro-front con gli schioppi spianati, e gli emigranti facevano valere le loro ragioni, mostrando certificati, pregando, minacciando, gridando, Raimondo che se la godeva s’udì a un tratto chiamare: «Don Raimondo!… Contino! Contino!…» e guardatosi intorno vide due donne che dallo sportello d’una polverosa carrozza gli facevano cenni disperati.

«Donna Clorinda!… Voi qui?…»

Donna Clorinda era la vedova del notaio Limarra, famosa per l’allegria dimostrata in gioventù ed ora, nella maturità prossima al disfacimento, per la bellezza della figliuola Agatina, la quale, seguendo le orme della madre, aveva civettato, ragazza, con tutti i giovanotti che le si erano stropicciati alle gonne; maritata più tardi col patrocinatore Galano, gli procurava clienti d’ogni genere. Donna Clorinda, con un debole pei giovanotti nobili, era stata, più di dieci anni addietro, la prima conquista di Raimondo; lasciata la madre, egli aveva poi ruzzato con la figliuola, ma senza molto profitto, in verità, perché costei uccellava al marito; ammogliato egli stesso e andato via di Sicilia, le aveva perdute di vista. Adesso le due donne, ed anche il marito che se ne stava rannicchiato più morto che vivo in fondo alla carrozza, si mettevano sotto la sua protezione per ottenere un rifugio al Belvedere. Grazie a lui le lasciarono entrare; ma le difficoltà ricominciarono subito dopo, giacché, avendo i fuggiaschi invaso ogni buco, non c’erano in paese altro che le stalle dove poter mettere nuova gente. Nondimeno, per donna Clorinda e l’Agatina, che incontravano un nuovo amico ad ogni piè sospinto, tutto il Belvedere si mise in moto, finché trovarono loro due camerette terrene, un poco fuori mano, ma con un piccolo giardinetto. Appena stabilite, ridussero una di quelle scatole a salottino da ricevere, e cominciò subito l’andirivieni di tutta la colonia cittadina messa in rivoluzione da quell’arrivo. Donna Clorinda, che non s’arrendeva ancora, dava udienza a tutti; ma il posto accanto alla figliuola fu serbato a Raimondo. Per la libertà che regnava in quella casa, pel buon umore delle due donne, anche i rimasti a bocca asciutta ci venivano a passare la sera meglio che al casino, giocando, ciarlando, cantando. E Raimondo, smessa la noia, smessa la mutria, non rincasava più, si faceva ancora una volta aspettare lunghe e lunghe ore dalla moglie triste ed inquieta pel rinnovato pericolo della pestilenza, pei sospetti che quel repentino cambiamento rievocava, accorata più tardi dalle allusioni con le quali donna Ferdinanda, il principe, le stesse persone di servizio le rivelavano gli antichi amori del marito. Poteva ella credere alla nuova tresca con la figlia dell’antica amante? Non era questo un peccato mortale, una mostruosità che la mente di lei rifiutavasi di concepire? Non doveva ella credere, piuttosto, che l’astio dei parenti contro Raimondo e lei stessa ordisse l’accusa maligna?…

Bruscamente ritolta alla pace, ella tornava a struggersi, a lottare contro se stessa, contro i sospetti che la riassalivano non appena scacciati, a passar le lunghe notti autunnali tremando nell’attesa del ritorno di lui, a piangere per gli sgarbi coi quali egli rispondeva alle sue inquietudini.

«Perché resti fuori così tardi? Ho paura per la tua salute…»

«Non sono più libero di restar fuori quanto mi piace?»

«Sei libero, sì… Ma non andare in quella casa, tra quella gente che tuo fratello si vergogna di ricevere…»

«Dove vado? Tra quale gente? Io vado al casino; vuoi anche spiarmi?»

No, ella gli credeva, voleva e doveva credergli. Ma perché pesavano su lei gli sguardi tra ironici e compassionevoli di tutta la famiglia e della servitù? Perché il discorso moriva in bocca alle persone alle quali ella s’avvicinava?… Una notte, dopo quattro mesi di siccità, scoppiò un terribile temporale; il cielo scuro fu solcato da saette lucenti come spade, le strade si mutarono improvvisamente in fiumane limacciose, la grandine strosciò sulle vetrate e sui tetti. Ella che aveva sperato di veder tornare Raimondo ai primi accenni dell’uragano, aspettava ancora tremante di paura. Non una voce, non un rumore di passi. Il temporale cessò dopo un’ora, Raimondo non tornava ancora… Non gli altri maligni, ma egli stesso era bugiardo e incestuoso: poteva più dubitarne? Quella spudorata non l’aveva anche lei guardata arditamente in viso, in atto di sfida, quasi dicendole: «Sono più bella di te, perciò egli mi preferisce?…» Ed era vero: la sua gelosia era tanto più umiliata, quanto più ella riconosceva di non piacere a suo marito, ora specialmente che la gravidanza inoltrata la disformava. Ma aveva egli veramente giurato di attentare alla vita dell’essere che ella portava in grembo, infliggendole torture sopra torture, lasciandola così, nella notte oscura e tempestosa, con quello spasimo del peccato orribile, del nuovo tradimento, con l’anima piena di dolore e di vergogna e di spavento?… Egli rincasò a mezzanotte, fradicio intinto, con gli abiti talmente fangosi come se si fosse rotolato nella mota.

«Maria Santissima!…» esclamò ella, giungendo le mani. «Come ti sei conciato così?»

«Pioveva; sei sorda? Non hai sentito l’acqua?»

«Ma la pioggia è finita da un pezzo…»

«Mi son inzuppato prima!…» gridò quasi egli. «Ho da sentire anche te, adesso?»