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Due amori

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XLVIII

Essa lo amava! Spietato, inesorabile pensiero. E tuttavia se ne aggiunse uno più terribile, e non l'ebbi appena concepito che un brivido mi corse per le membra. Se Clelia avesse potuto vedermi in quel momento avrebbe avuto paura di me-io stesso ne aveva.

Inorridito da quel dubbio fatale sollevai la testa di Clelia che si era appoggiata sulle mie ginocchia, e respinsi il suo corpo che cadde abbandonato sul divano.

Mi levai istupidito dalla mia brutalità, e inciampando nei mobili passeggiai a gran passi. Dentro di me la desolazione muta; attorno a me le tenebre, i singhiozzi di Clelia, e l'oscillare del pendolo.

"Non cesserai tu dunque di misurare il mio dolore?"

Venni al fianco di Clelia, cupo, severo, minaccioso. Mi udì, e cessò il pianto.

–Giurami… – pronunciai sommesso, giurami…

Non dissi altro, non n'ebbi cuore-non n'ebbi pure il tempo.

Clelia si drizzò svincolandosi dal mio braccio. Ella aveva indovinato il mio sospetto-se ne risentiva come tigre ferita. Era terribile; io indovinava il suo sguardo, il corrugarsi del suo ciglio, la vedevo innanzi a me minacciosa.

–Taci, non dir altro-gridò imperiosamente; in nome del cielo-aggiunse un istante dopo supplichevole.

Sentii il suo corpo vacillare, e stramazzare per terra-volli soccorrerla-volli chiamare-non lo feci-la vergogna, la paura, il rimorso mi toglievano il senno. Caddi in ginocchio accanto a lei, implorando fra le lagrime il suo perdono."

XLIX

"Avrei io acconsentito alla sua preghiera? Tutta la notte-eterna notte! – ruminai questo pensiero. L'amor proprio me ne sconsigliava, ma il cuore mi diceva d'arrendermi-nè andai più oltre. Il sonno di cui da tanto tempo non aveva provato i benefizii, venne non so per qual via a quetare il mio spirito.

Anche gli sventurati dormono-la natura ha provveduto in qualche modo al destino dell'uomo, facendo che l'organismo incateni ogni cosa alle sue leggi inesorabili, e neppure il dolore possa sottrarvisi.

Alla mattina dibattei lo stesso quesito; il cuore mi parlava meno forte-l'amor proprio più invelenito che mai.

Io non poteva senza mostrarmi ridicolo a me medesimo involare mia moglie, e andarla a nascondere nella campagna in quella stagione. Che si sarebbe detto di me? Che ne avrebbe pensato lo stesso Eugenio?

Comprendo quanto fossero più ridicoli i miei stessi timori. Anche allora mi feci rimprovero di questa debolezza-ma senza frutto. Mi ostinai nel mio proposito, e tra che voleva sfuggire la taccia di marito geloso, e tra che voleva sfidare il mio destino e in certa guisa vendicarmi di Clelia e di Eugenio, mi compiacqui della mia fermezza.

Non avrei lasciato Milano-e lo dissi a Clelia che non fe' motto per lagnarsene.

Tanta umiltà mi scese al cuore senza rimuovermi.

Se non che io aveva fidato troppo sul mio orgoglio, e creduto follemente che avrebbe soffocato la mia gelosia. La natura può rimanere un istante soggiogata, ma si solleva ben tosto, e ridomanda imperiosamente le sue leggi.

Durante alcuni giorni non mi fu difficile acconciarmi meco medesimo, e celare sotto il manto dell'indifferenza la piaga del mio cuore! M'innebriavo del mio dolore, buttavo nel fango il sentimento e m'imbellettavo da istrione.

Triste maschera la dissimulazione-tu non l'hai ancora posta sulla faccia, che già cade a brandelli; e se si appiccica un momento, scotta come ferro arroventato.

Da qualche tempo mi permettevo di star lontano da Clelia-ci soffrivo, perchè rinunziavo a quel piacevole e calmo cicaleccio che teneva deste le nostre veglie solitarie d'un tempo; ci soffrivo tanto più in quanto le mie notti casalinghe erano diventate abitudini; e tuttavia, sebbene ricercando di che pagarmene non incontrassi che la noia, io era divenuto assiduo frequentatore del Caffè di … e vi passava molte ore ricercando nelle spire di fumo del mio sigaro, nella fiamma turchina del mio punch le memorie della mia felicità d'un tempo.

Non so come mi sentissi tanta forza da resistere all'impeto della tenerezza, nè so se io debba dire che ne uscissi vincitore o vinto. So bene che una lotta si impegnava dentro di me ogni giorno; e che il proposito di riaccostarmi a Clelia che un sentimento di giustizia faceva prorompere nel mio petto, vi moriva miseramente ogni volta.

Clelia ne soffriva in segreto; nè mai avvenne che io facessi ritorno a casa e non la incontrassi sull'uscio ad attendermi. Talvolta io le sorridevo pieno di gratitudine-più spesso mostravo di non accorgermi delle sue attenzioni, e la salutava asciutto. Allora mi ritiravo nelle mie camere per nascondervi lo strazio del mio cuore, e imprecavo alla codardia che mi contendeva la dolcezza del perdono.

Io ero ridiventato fanciullo e provavo un'altra volta le debolezze e le ostinazioni di quell'età. Sapevo che sarei stato felice riaccostandomi a Clelia; che avrei ridonato la pace a lei che amavo e che m'amava-che la giustizia e il dovere mi vi spingevano-e nondimeno una ritrosia ostinata domava il mio cuore, e i suoi impeti gagliardi cedevano a quel morso fatale.

Questo stato di cose durò alcun tempo.

Una sera io mi ridussi a casa più presto del solito; incontrai Eugenio solo con Clelia. Quella vista mi fe' male. Da qualche tempo Eugenio era venuto più di rado; la mia freddezza dissimulata a stento l'aveva tenuto lontano; tuttavia egli non aveva mai mentito la sua indole affettuosa; mi avea ricercato delle mie confidenze, e mi aveva fatto le sue. Io era stato sempre fra due, se dovessi credere al suo candore, ovvero ad una astuta dissimulazione-nè mai potei accostarmi a quest'ultima credenza; e poi che non ebbi altro pretesto di odiarlo, quasi gli feci colpa della sua ingenuità. Nè so dire se l'odiassi davvero; al certo io non l'amavo più; alla sua presenza un eterno quesito si affacciava alla mia mente: sapeva egli d'esser amato da Clelia? l'amava? Il suo volto non palesava nulla. E per la prima volta dissi a me stesso che la sua anima era fredda e il suo cuore marmoreo come il suo viso.

Quella notte fui sorpreso di vederlo in casa mia; ma gli mossi incontro, e credo di avergli sorriso. Clelia mi guardava severamente come chi dicesse: "vedi, la mia calma vale meglio assai che la tua." Ed era vero, troppo vero.

Eugenio partiva per Roma. Un famoso pittore aveva avuto incarico di alcuni affreschi; gli proponeva partecipasse all'opera e al prezzo; era venuto a salutarmi.

Mi venne in mente che Clelia avesse avuto parte in quella determinazione. Se quel sospetto avesse durato un'ora sola mi avrebbe fatto assai male. Guardai Clelia, ed incontrai ancora il suo sguardo limpido e franco.

–Ti fermerai gran tempo? domandai ad Eugenio non potendo frenare un'onda di gioja che mi corse dal cuore alle guance.

–Sei mesi. È questo il termine entro cui devesi condurre a termine il lavoro.

–Sei mesi sono lunghi dissi forte rispondendo al mio pensiero-assai lunghi per la nostra amicizia; aggiunsi.

Clelia mi guardò. Arrossii.

–Ritornerai fra noi, passato questo termine?

–Lo spero.

–Buon per noi.

–Se le esigenze dell'arte non mi riterranno colà. Tu sai che io non sono ricco, e se insieme alla fama ci avrò mezzo a fornire un gruzzolo, tanto meglio.

–Eh! Sicuro, tanto meglio.

–Ad ogni modo, prometto a me stesso di far ritorno a Milano, qui, teco-aggiunse senza affettazione.

–Ci s'intende, e il cielo lo voglia.

Dopo quella prima menzogna, le parole m'erano venute stentate e non v'era stato verso di raccapezzarmi. Quel sorriso da ipocrita, che per la prima volta aveva spianato la mia fronte corrugata, m'aveva rabbujato l'intelletto e gettato la discordia nell'anima. Nè per quella notte ebbi altro pensiero ed altra cura che d'accumulare il disprezzo e torturarne il mio cuore.

L

L'alba mi trovò desto, nè io aveva dormito.

–Or via, dissi, convien far conto di aver dormito abbastanza per questa notte; l'ora della partenza si appressa, e quel povero Eugenio a cui ho promesso di andarlo a salutare alla stazione, mi aspetterà forse un pezzo prima che io abbia avuto tempo di vestirmi.

Per quella volta non mi mossi dal letto; le mie parole ricaddero senza eco sulla mia volontà.

A capo di una buona mezz'ora mi rivolsi sull'altro fianco e mi ripetei che bisognava pigliare una decisione e che se l'addio dell'amicizia mi era caro, assolutamente conveniva che io mi levassi di botto. Non ne feci nulla e filosofai meglio di Cicerone sull'amicizia; e poichè la filosofia conduce assai lontano, passò un'altra mezz'ora.

E questa volta mi scossi di soprassalto, e mi disposi a balzare di letto davvero, e posi una gamba fuori delle lenzuola coll'ansietà di chi teme proprio in sul serio di fallire ad un convegno.

In quella suonarono le ore alla pendola.

–Deh! sclamai, povero me! L'ora è passata…

E mi strinsi la fronte fra le mani.

–Buon viaggio, aggiunsi come se volessi incaricare un venticello del saluto-buon viaggio, amico tenerissimo.

Mi raggruppai nel mio letto e ritentai come un importuno il sonno… A mezzogiorno in punto io arrivavo in China, ed avevo fatto un ottimo viaggio, ed aveva tenuto un lungo discorso in latino ad Eugenio sull'amicizia-Cicerone, in un angolo della carrozza, aveva ghignato di compiacenza, e mi aveva detto che mia moglie era una bella donna.

Mi destai e guardai intorno a me. Il volto di Clelia non era lì presso a sorridermi."

LI

"Il sarcasmo di cui mi stordiva, ricadeva sopra di me medesimo.

Non andò molto che all'affanno cieco succedette la riflessione. Allora solo conobbi quanto fossi stato fino a quel punto ingiusto verso di Clelia. Misurai la nobiltà del suo animo, il suo affetto per me, la sua confidenza che avrebbe dovuta ingrandirla ai miei occhi, e che pure io aveva pagat d'ingratitudine.

 

Avviene di me ciò che avviene di molti, che quando il cuore sanguina la ragione smarrisce le vie del sillogismo; ma non appena esso si raccapezza e mi parla la sua voce eloquente, la tempesta mia si rasserena d'un tratto e non amo di meglio che ravvedermi. Però da quell'ora mi raccostai a Clelia mansuefatto, e le palesai la mia riconoscenza adoperandovi ogni mezzo, e la colmai di carezze pauroso ch'ella soffrisse ancora della durezza dei miei modi d'un tempo. Pur che mi sorridesse, io era raggiante di gioja.

La buona creatura non mi serbava rancore; era felice che io non l'avessi abbandonata, e mi diceva che nessuno ci aveva mai disgiunto, nè avrebbe potuto mai disgiungerci in avvenire.

Ricominciò la serenità dei giorni passati, ricominciò più bella, più tenera, più apprezzata-il timore di averla perduta per sempre ce ne aveva rivelato il valore-oramai diventavamo avari, avremmo custodito gelosamente il nostro tesoro.

Allora fui anche giusto verso Eugenio. Egli forse non aveva indovinato il sentimento ispirato a Clelia-se mai l'aveva penetrato o diviso, la sua partenza era proposito-e il proposito virtù somma. E mi dolsi amaramente d'essere stato freddo con lui, e d'essermi lasciato vincere puerilmente dalla gelosia, ed avervi sagrificato l'amicizia. Immaginai Eugenio sulla tolda d'un bastimento veleggiare verso Civitavecchia e spingendo lo sguardo nell'orizzonte ricercare la terra che abbandonava e l'amico perduto. Io non gli aveva detto addio, non me l'ero stretto al cuore prima di lasciarlo partire-avea così spezzato bruscamente quella catena affettuosa che stringeva da tanto tempo i nostri cuori.

Una notte sognai che Eugenio s'era pentito ed era tornato sui suoi passi presso di me, e che io lo abbracciava con tenerezza. Cicerone in un cantuccio ci guardava sorridendo e con un lembo del suo manto si rasciugava una lagrima.

Ma questa volta destandomi incontrai il volto di Clelia presso al mio; e il suo sguardo melanconico e dolce come quello di un angelo che sospira l'infinita distesa dei cieli."

LII

"Ritrovai la mia Clelia, ritrovai il mio cuore.

La felicità è generosa e perdona al passato; noi dimenticammo assai presto le giornate di sventura. Se talvolta ci rifacevamo a percorrere la via che avevamo lasciato dietro di noi, sorvolavamo senza rimirare le impronte che i nostri passi avevano segnato di sangue.

E tuttavia lo studio di non ritentare più quelle ferite era anch'esso una ferita-nube lieve in un'immensa serenità di cielo, ma fatta anch'essa di vapori, maturava anch'essa il fulmine nel suo grembo.

Un giorno per l'appunto oziavamo colle nostre reminiscenze; richiamavamo cento inezie, cento fantasime leggiadre e care al nostro cuore, poichè ogni cosa è cara al cuore di coloro che si amano. "Ti ricordi? ti ricordi?" Era una festicciuola di memorie-pochissime meste, nessuna di dolore.

Eravamo giunti a un tempo poco lontano, ad una notte vegliata festevolmente in tre-Clelia, io ed Eugenio. Ed Eugenio-nessuno voleva dire questo nome; ella voleva risparmiare a me la melanconia delle idee che vi si associavano-io del pari. Ci guardammo in volto, poi chinammo gli occhi entrambi. Da quel punto il nostro cicaleccio languì; la festicciuola ebbe fine ben presto.

Ahimè! avevamo fidato troppo sulla nostra ragione; il cuore serbava ancora la cicatrice. Ricordavamo ancora di lui, fors'anco pensavamo ancora senza dirlo e senza avvedercene a lui.

Fu senza dubbio lotta gagliarda per mentire a noi medesimi; fu lotta virtuosa; accettata con nissuna speranza di vittoria, come gli inermi condannati accettavano nel circo la lotta colle fiere, ma fu menzogna. Da quel giorno la nostra apparente indifferenza non ci ingannò più. Il pallore delle mie guancie spuntava traverso la maschera gioviale; l'amore tradiva la gelosia. Così questo serpe fatale era arrivato per altra via sino al mio cuore, e vi infiggeva un'altra volta il suo dente avvelenato."

LIII

"Clelia ammalò. Da qualche tempo io non aveva più visto fiorire sul suo volto le rose della salute. Non vi aveva posto mente da prima, però che l'abitudine di vederla ogni giorno mi aveva impedito d'osservare il mutamento che avveniva in essa, più tardi la reputai cosa passeggiera e pensai si sarebbe presto ristabilita. Non appena però appresi quanto il suo male fosse grave e come la costringesse a letto, mi rimproverai di aver lasciato correre sì lungo tratto di tempo senza richiedere i soccorsi della scienza, e malgrado le sue riluttanze volli chiamare un medico.

Il medico venne; non era cosa grave: una pleurisia falsa che non avrebbe resistito ad una breve cura.

Come udii questa buona novella respirai più libero, Nell'uscire il medico mi domandò se mai Clelia patisse qualche dolore, o ne avesse patito. E siccome non gli risposi subito, tentennò il capo ed uscì.

Rimasi sull'uscio immobile. "Dolori!" Sì, ella ne aveva patito; io stesso glie ne aveva cagionato di molti; io stesso dunque ero la causa del suo male.

Se non che il mio demonio mi suggerì un pensiero terribile ad accrescere il mio cordoglio. Forse ella amava ancora colui, ed era straziata dalla sua passione; la lontananza, anzi che spegnerla, l'aveva forse alimentata, e il prepotente imperio del cuore la faceva piangere lui assente in segreto.

Ciò che si passò dentro di me non è forse concepibile; l'angoscia di non essere amato, la gelosia di un rivale che mi rapiva il pensiero di lei che amavo tanto, che esercitava da lungi un fascino fatale al mio povero amore, il dolore di vederla inferma e la paura che mi venisse a mancare facevano tale strazio di me quale mai uomo ebbe a provare nella vita.

Ma poi che io l'amavo più della mia vita e della mia felicità stessa, la compassione vinse in me ogni altro sentimento.

"Ch'ella non muoja, dissi a me stesso, che il mio angelo non mi sia rapito; se anche il suo cuore non saprà più darmi altro affetto che quello della gratitudine, io ne sarò pago ugualmente; avrà compassione di me, e saprà rassegnarsi, e consentirà che io la guardi e l'adori; ella sarà per me come una santa memoria vivente."

E siccome le mie stesse parole mi avevano intenerito e quasi mosso a pietà del mio stato, caddi in ginocchio lagrimando, e domandai al cielo ch'ella vivesse."

LIV

"Il grido del dolore giunge qualche volta lassù. Ben presto la salute di Clelia parve migliorata alcun poco.

Io aveva vegliato al suo capezzale colla trepidanza di chi vegga la sventura approssimarsi a lui e voglia deviarne il cammino o ritardarne i passi. Avevo spiato ansioso ogni sospiro delle sue labbra, ogni tremito del suo corpo, ogni moto lieve delle sue mani e del suo capo. Quando essa mormorava nel sonno qualche rotta parola, mi pareva che dovessi apprendere ad ora ad ora una novella triste-e tuttavia paventavo meno di me che di lei.

Talvolta ella si destava di soprassalto-e fissava i grandi occhi spaventati nei miei, e teneva per gran pezza il suo sguardo immobile senza ravvisarmi.

Altre volte si gettava nelle mie braccia, e stringeva nelle sue mani la mia testa colmandola di carezze.

Ella non sapeva allora ciò che si passava dentro di me, nè come le sue dimostrazioni d'affetto scendessero sul mio cuore come elemosina sulla mano tremante d'un mendico. Ella non sapeva i gemiti soffocati sotto il sorriso, non indovinava la terribile certezza che aveva soggiogato l'audacia delle mie speranze. Ella non sapeva nulla di tutto ciò-poichè giammai, io penso, mano di uomo mortale pesò sul petto a soffocarne i singhiozzi, come la mia in quelle ore; nè maschera di ipocrita fu mai così fortunata nel muovere la pietà, quanto la mia nel celare l'affanno che avrebbe fatto pietoso lo stesso cinismo.

Una mattina io era uscito per affari; avea lasciato il suo letto con rammarico, benchè ella stesse assai meglio e me lo assicurasse sorridendo furbamente come avesse immaginato una gherminella.

Al mio ritorno la trovai in piedi, coperta d'un ampio sciallo turco che io le aveva regalato nel giorno del suo onomastico. Mi venne incontro colla bambina per mano; e come se dicesse: "vedi, io sto pur ritta, sono sana", senza dir parola mi porse la mano.

Io m'era oscurato in volto al vederla; e mi disponevo a farle rimprovero, ma ella mi prevenne con grazia irresistibile; e non appena feci atto di aprir bocca per parlare, appoggiò le sue mani affilate sulle mie labbra, e invocò collo sguardo non la sgridassi.

Poco stante mi consegnò una lettera pervenuta durante la mia assenza.

–Per me? le domandai.

–Per te, rispose, e si chinò ad accarezzare la piccina.

Guardai la soprascritta. Erano i caratteri di Eugenio.

Per un momento non provai altro che un'emozione viva, ma incerta come cosa che sta tra il piacere e il dolore.

–La leggerò, dissi ponendo la lettera in tasca-E mi rivolsi a Clelia che continuava ad accarezzare le guancie della piccina."

LV

"Una lettera per te." E non aveva aggiunto "d'Eugenio" pure ne conosceva i caratteri, e doveva aver visto che veniva da Roma.

Clelia si era attaccata al mio braccio-passeggiavamo in silenzio.

"E s'ella aveva taciuto quel nome, era arte; l'indifferenza lo avrebbe pronunziato."

"La mia dissimulazione adunque s'era tradita; ella mi aveva letto nel cuore e aveva compreso la mia battaglia, e aveva visto nascere i nuovi sospetti, e la gelosia più straziante-ne aveva pietà, voleva risparmiarmi ogni motto che mi rammentasse quell'uomo."

La guardai; indovinava ella questi pensieri che mi passavano in mente? mi sorrise, le sorrisi.

"Se pure, proseguii fra me medesimo; se pure ella non mi nasconde il suo segreto, e quella riluttanza a pronunziare il nome di lui, anzi che un riguardo alla mia debolezza, non fu frutto della sua."

È raro che di due pensieri che giungano allo stesso tempo, il più doloroso non sia più fortunato. E so che non mi tolsi più di capo questo martello-e più cercavo di vincere il mio timore colla ragione, e più la ragione aguzzava i suoi strali contro di me. Mi tornarono in mente cento inezie, cento saldi ragionamenti nuovi a ribadire la fatale convinzione che Clelia amava tuttavia Eugenio.

Le lagrime frenate mi ricadevano goccia a goccia sul cuore-Clelia continuava ad appoggiarsi sul mio braccio-mi sorrideva ed io le sorridevo."

LVI

"La lettera di Eugenio era piena di cortesie. Non mi rimproverava di averlo lasciato partire senza salutarlo-il suo animo generoso se n'era dunque dimenticato. Gran buona ventura la mia. Ma più avventurato di me lui che aveva trovato in quei freschi benedettissimi un affar d'oro.

Prima di finire col bacio dell'amicizia, buttato lì con noncuranza, v'era scritto un saluto per lei. Compitezza schietta davvero. Dissi a Clelia del saluto.

–Ha egli trovato che l'affare dei freschi gli convenga?

–A meraviglia.

Non se ne parlò altro; e il volto di lei e il mio non dissero di più."