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Due amori

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XLI

"Un'altra volta ritornando a casa, ove sapeva d'essere aspettato da Eugenio, entrai in sala all'improvviso. Eugenio era seduto sopra una sedia daccosto al tavolo. Clelia sul divano in attitudine d'ascoltare.

Al vedermi Clelia fè un atto di sorpresa-non m'aveva udito ad entrare perchè era distratta-non poteva essere altrimenti. Però sorrisi della sua debolezza-essa arrossì in volto e non sorrise. Non vi badai gran fatto, e mi rivolsi ad Eugenio.

–Che cosa narravi a mia moglie? gli domandai scherzoso.

Eugenio mi porse la mano.

–Parlavamo di pittura-le facevo una proposta che tu devi farle accettare.

–Sentiamo…

–Voleva fare il ritratto ad entrambi, prese a dire Clelia.

Eugenio assentì collo sguardo.

–La buona idea! dissi io, converrà bene accettare mia cara.

–Prima però faccia il tuo, disse Clelia.

–Non sarà mai, prima il tuo…

–Via, sii buono…

–Sii buona…

Fu stabilito che Eugenio avrebbe incominciato al domani il ritratto di Clelia."

XLII

"Il domani un cavalletto da pittore collocato dinanzi ad una finestra, un'ampia tela fermata sovr'esso, la tavolozza appesa ad un chiodo, e uno sgabello a tre piedi, attendevano la prima seduta.

Eugenio non solo fu puntuale all'ora segnata, ma anticipò di una buona mezz'ora per preparare le sue matite e i suoi pennelli. Clelia si acconciava a malincuore all'idea di doversene stare immobile per un pezzo-il suo corpicino era tutto foco.

–Lo vedi, mi disse ella-oggi non posso star ferma, sono una pazzerella-il signor Eugenio dirà assai male in cuor suo di me, e sciuperà il suo tempo inutilmente-se incominciasse da te-la tua gravità, ne son certa, convertirebbe meglio la mia leggierezza.

Non le posi mente, e nulla fu mutato al programma. Clelia nel sedersi mi guardò fisso, e volle che io mi ponessi di rimpetto ad essa perchè potesse vedermi senza volgere il capo.

Accondiscesi.

Eugenio non diceva mai parola; in quel momento egli non era più uomo, veleggiava pei campi ideali dell'arte-era assai lungi da noi. Guardava Clelia come non l'aveva guardata mai; con uno sguardo ardente, penetrante, come chi voglia ritenere a lungo l'impressione della forma, e indovinare e tradurre in una forma il sentimento. Clelia sotto l'impressione di quello sguardo pareva imbarazzata; guardava me e sorrideva senza muovere le labbra; io solo leggeva quel sorriso-Eugenio non l'avrebbe penetrato mai; non era il sorriso dell'arte, il sorriso della natura fredda, ma il sorriso dell'amore-io mi sentiva più grande d'Eugenio; la sua arte non poteva dargli ciò che poteva darmi il mio amore; le frenesie dell'artista sfiorano appena il cuore; quelle dell'amante lo passano."

XLIII

La prima seduta fu lunga, nojosissima per Clelia-non per me. Io m'ero posto dietro le spalle d'Eugenio e portando gli occhi ora sopra Clelia, ora sopra la matita di Eugenio, aveva visto da quel fondo bianco uscire mano mano la fisonomia adorata della mia compagna-erano i suoi occhi, i suoi grandi occhi, la sua bocca leggiadra, sorridente, i suoi capelli lucenti-ogni traccia di carbone era un soffio novello che infondeva sempre maggior vita in quella fantastica creazione.

Una creazione, sì, la idea che s'incarna è sempre una creazione-non invidiarne a Dio la facoltà di creare; per quanto è in noi, per quanto può giovare ai nostri bisogni, alla nostra fantasia, noi siamo creatori al pari di lui. Se non possiamo spingere i mondi a roteare nello spazio, noi possiamo dire al nostro spirito d'errare più lontano di quei mondi.

L'arte è forma, ma la forma è pur essa una creazione. Trasformare è creare-gli elementi esistevano prima dell'uomo-l'uomo ne ha mutato le linee; ecco tutto-Ma quanta immensità in ciò! Il sasso da cui Pigmalione traeva Galatea esisteva mille e mille anni prima di lui; ma Galatea non era ancora. Nacque in lui, visse di lui, alimentata nella sua mente; era un sorriso d'amore, un fantasma vagheggiato, tutto suo-la divinità non vi aveva posto nulla, e tuttavia quel fantasma viveva la vita dell'idea. Essa aveva aspettato, sepolta in quel sasso, l'artista innamorato. Il martello dell'arte, con colpi febbrili di braccio illuminato, ricercò la donna sotto il marmo-e Galatea fu.

In quel giorno stesso la fisonomia di Clelia fu interamente sbozzata. Uno strano sentimento mi nacque in quel punto. Contemplando quella tela parevami d'essere innanzi a qualche cosa di vivo, di reale, come se il pennello di Eugenio mi avesse rapito una parte di Clelia per rinchiuderla in quelle linee. Come mai poteva essere che quella tela assomigliasse a Clelia, senza che ne avesse qualche cosa? – V'hanno forse nella natura somiglianze di forma, senza partecipazione d'essenza? Fissandomi in quel pensiero, la mia illusione crebbe sempre più; io continuava a rimirare quel quadro con una specie di gelosia; non poteva corrervi dubbio, quelle linee si muovevano, sotto quelle tinte v'erano delle fibre e delle vene, e nelle vene il sangue, la vita, la vita della mia Clelia. Quest'ultima idea mi atterrì; io mi volsi guardandomi attorno-Eugenio ripuliva i pennelli, facendosi presso al balcone su cui batteva l'ultima luce del giorno-Clelia mi guardava sorridendo della mia muta contemplazione.

Lo dirò io? La stanchezza che dava a Clelia un molle languore, la luce incerta e povera che le imbiancava le guancie rinvigorirono la mia allucinazione. E vi fu un momento in cui mi persuasi che quell'onda di vita che errava su quell'abbozzo fosse realmente involata alla vita di Clelia, e che di tanto ne andasse diminuita la vitalità del mio amore, quanta era la vitalità di quel quadro.

Io guardava Clelia, non era più quella di prima-guardava quell'immagine ancora informe, e vi rinveniva qualche cosa di Clelia-parevami che se avessi d'un solo tratto visto innanzi a me le due figure, il fantasma di Clelia, come io l'aveva avuta fino a quel punto, si sarebbe ricostruito nella mia mente; ma senza di ciò ogni mio studio era vano.

Charruà entrò portando un candelabro acceso-la nuova luce diradò la folle visione e i vaneggiamenti della fantasia conturbata."

XLIV

"Passarono alcuni giorni. Eugenio era venuto regolarmente alle sue sedute; Clelia anch'essa non aveva mancato; pareva svogliata, stanca, ma sapeva di farmi piacere e non si lamentava.

La tela era oramai al suo termine, il volto e le mani erano finite con cura, ci si vedeva entro la vita; si poteva girare attorno alla sua persona, e l'aria dietro il capo scherzava coi suoi capelli. Se fossero stati sprigionati, avrei creduto di agitarli col mio respiro.

Era una bella tela, da inorgoglire qualunque gran maestro ne fosse stato l'autore. Eugenio pareva compiacersene; durante le sue sedute egli rimaneva talora alcuni istanti immobile a guardare Clelia, poi volgeva l'occhio sul lavoro, e il suo volto non accennava lo sconforto. Ma non accennava tuttavia l'orgoglio, e sebbene quel silenzio parlasse assai chiaro, la soddisfazione dell'artista che sorride alla sua creazione non si palesava in altro modo.

Talvolta Clelia pareva imbarazzata di quegli sguardi lunghi, penetranti, e si volgeva a me come se io potessi temperarle quella noia. Talvolta io stesso non poteva risparmiarmi un pensiero di gelosia, e avrei voluto dire ad Eugenio che non guardasse Clelia in quel modo, ma per vergogna invece lo avrei nascosto a me medesimo.

Un giorno Clelia impallidì d'improvviso sotto l'impressione d'uno di quegli sguardi, mi guardò, vide che io l'osservava e mi rivolse un gesto come a dirmi che ella si sentiva venir meno. Balzai in piedi e le fui dappresso. La stanchezza, l'immobilità le avevano fatto male. Era così fragile il suo corpicciuolo di libellula!"

XLV

"Da quel giorno Clelia mancò alle sedute; se ne sottrasse per alcun tempo col pretesto di non star bene; in seguito con mille altri, mendicati giorno per giorno.

Questa improvvisa determinazione si associava ad un mutamento del suo contegno verso Eugenio. Era fredda e riservata con lui, lo accoglieva gentile, ma senza accordargli più quella confidenza amichevole che era stata già frutto di molte lotte.

Eugenio anche questa volta non s'accorse di nulla, o almeno non fe' cosa che dinotasse di essersene accorto. Era sempre buono e dolce, sempre mesto, sempre egualmente amante dell'arte sua.

Ricominciarono le mie smanie d'un tempo; ma poi che io mi era abituato all'armonia che faceva felice la corrispondenza delle nostre anime, ne soffrii più acerbamente, e dal soffrire più acerbo passai all'essere più insofferente di quella nuova e più strana ingiustizia di Clelia, e a dirglielo con accento di rimprovero. La poveretta non mi rispondeva e chinava gli occhi.

–Voglio dire, soggiunsi un giorno più esacerbato del solito, voglio dire che assai meschina scusa al capriccio è l'Amore, e che se il tuo affetto basta al mio cuore di sposo, la tua condotta con lui ferisce il tuo spirito e lo accusa di picciolezza; e le anime nobili e generose davvero, aggiunsi con accento più dolce per temperare la durezza delle parole, e le anime nobili non si comportano di tal guisa, e se hanno stimato altrui una volta, lo stimano sempre.

Clelia proruppe in lagrime. La lasciai col cuore spezzato dalla tenerezza, ma colla mente agitata. E quel giorno, per la prima volta, io fui severo e crudele, e lasciai che piangesse senza confortarla.

Quando la rividi un'ora dopo, aveva la faccia sfigurata dalle lagrime, e piangeva ancora."

FINE DEL PRIMO VOLUME

DUE AMORI
RACCONTO DI SALVATORE FARINA
VOLUME II

XLVI

"Quella notte Clelia ebbe la febbre.

Io non saprò dipingere mai lo stato del mio animo in quel giorno fatale. Pensavo ad Eugenio, alla stranezza della condotta di Clelia verso di lui, alle parole brusche che io le aveva diretto; mi sentiva commosso dalle lagrime che aveva visto, pauroso dello stato in cui Clelia si trovava, e poichè tutte queste sensazioni si avvicendavano così rapidamente da confondersi, e non concepiva colla mente il nesso che le legava, io me ne rimaneva sbigottito meglio che offeso, senza avere la forza di perdonare, e senza sapermi dare ragione della mia durezza.

 

Aveva ella pianto per i miei rimproveri, ovvero per la cagione stessa che li aveva provocati? Se le mie parole erano state dure, ella doveva comprendere troppo bene che non v'aveva parte il mal animo-nè io le aveva detto cosa tanto acerba da cagionarle così gran dolore-e se ella aveva coscienza dell'ingiustizia dei suoi modi, il rimprovero doveva parerle meno amaro. La colpa subisce il rimprovero, l'innocenza solo ha diritto di piangerne. E come se questa matassa non fosse ancora ingarbugliala abbastanza, a crescere lo scompiglio del mio cuore agitato, mi rifeci al primo pensiero che m'era venuto, e domandai a me stesso perchè mai Clelia si mostrasse ancora insofferente di Eugenio-e me ne strussi indarno.

Nè d'altra parte io era certo di non illudermi-potevo aver scambiato i suoi sentimenti e falsatane la natura-quell'apparente freddezza con cui ella accoglieva Eugenio, poteva essere un effetto indiretto d'un'altra causa ignorata. E quale era mai questo segreto? e perchè un segreto con me? d'onde mai era venuta la forza che aveva separato l'inseparabile, disarmonizzato l'armonia perfetta, allontanato i nostri cuori che avevano per tanto tempo confuso i loro battiti e diviso tutta la loro potenza d'amore?

Ebbi la febbre anch'io-la febbre del dubbio; e mi trassi al capezzale di Clelia coll'anima lacerata.

Clelia dormiva; un sonno agitato, convulso. Io stetti buona pezza a rimirarla commosso-in quel momento non dubitai più che le mie parole fossero state la causa del suo dolore, e me ne feci rimprovero.

A poco a poco l'ansia del suo petto si fè più calma, la sua respirazione più regolare, il suo sonno più tranquillo.

Allontanai la lampada perchè la luce non la destasse, e mi assisi dinnanzi ad un tavolo. Una melanconia profonda mi prese in quell'ora e non so perchè io mi sentiva come impaurito; il mio avvenire, che è oggi questo povero presente, non mi sorrideva più come prima; io non osava più abbandonarmi come un tempo a quel confidente fantasticare che si alimenta di speranze e di promesse.

Le ore corsero veloci; io ne udiva ad ogni tratto i rintocchi agli orologi delle chiese-d'improvviso mi parve udire una parola pronunziata a bassa voce-mi rivolsi come per rispondere; e allora conobbi che quella voce veniva dal letto di Clelia. Me le accostai. Dormiva… agitava le labbra… sognava forse di me, e un sorriso animava il suo volto. Era bella; di quella bellezza fantastica che i poeti, eterni ed ingenui sognatori, hanno immaginato per ingemmare la fronte della Musa.

Posi il mio labbro presso al suo labbro, rattenendo il respiro per non destarla. La sua bocca sorrise e mormorò ancora una parola… un nome… il nome d'Eugenio… Il sangue mi corse al cuore che batteva a schiantarmi il petto-un sudore freddo mi spuntò sulla fronte, il mio corpo tremò e fui per cadere.

"Quel nome nel sogno è nulla, dissi a me stesso-può bene il delirio ricevere le manifestazioni più strane senza che risponda all'intimo sentimento dell'anima. E poi che cosa è mai un nome? e qual senso si rinchiude in esso-e in quale mai lo pronunciava il suo labbro?"

Ahi, che la mia ragione stessa mi torturava! fossi io stato in quell'istante un insensato! Ma avere una mente e domandare ad essa l'inganno, è follia maggiore di tutte. Ragionare è accettare la lotta, è combattere-l'istinto mi aveva fatto indovinare il veleno, il sillogismo me ne accostava la coppa alle labbra.

Se vi era illusione che potesse alimentare ancora la mia pace, conveniva non porla a cimento colla riflessione; così come io lo aveva udito, quel nome poteva avere un significato indistinto, fors'anco non averne alcuno; pensandovi, egli si aguzzava come la punta micidiale d'una freccia. Era una rivelazione involontaria, era un sospiro sfuggito all'ansia d'un petto conturbato, era fiamma dissimulata e tradita.

I miei occhi si offuscavano, mi tintinnivano le orecchie, e un'onda ardentissima mi saliva fluttuante alla testa.

Un lamento indarno soffocato mi uscì dal petto, e mi lasciai cadere bocconi ai piedi del letto, nascondendo la faccia fra le pieghe del lenzuolo.

Quanto tempo passasse di tal guisa non so dire-parevami che qualche cosa di strano avvenisse intorno a me; io teneva sempre gli occhi aperti, e parevami di sognare-mille figure bizzarre danzavano capricciose carole in un'atmosfera di fuoco-mi urtavano, mi portavano innanzi come un frammento di macigno sospinto da una valanga-e in mezzo a questo scompiglio io udiva ancora il monotono oscillare del pendolo nella camera, e il respiro lento di Clelia. E vedevo il suo volto pallido, e le sue braccia candide abbandonate sopra il guanciale, e i suoi capelli disciolti, e le sue labbra di rosa, e sulle sue labbra quel sorriso e quella parola: Eugenio

Mi sollevai sbigottito, ebete, senza quasi aver coscienza di me medesimo. Mossi alcuni passi-senza avvedermene camminavo sulla punta dei piedi per non svegliarla-poi me le accostavo e la guardavo sorridendo; dimentica d'ogni cosa, la mia anima pareva volesse volare incontro alla sua ad abbracciarla, e che un segreto ammonimento la ritenesse e le dicesse con dolcezza: "zitto, ella dorme."

Avrei voluto illudermi, e m'illudevo senza saperlo-ma per breve ora. Arrestandomi ancora dinanzi ad essa, io vidi il suo labbro aprirsi un'altra volta, vidi un'altra volta quel sorriso…

Fuggii per non udire quella parola.

Nell'altra camera c'era Charruà; il poveretto aveva vegliato; vedendomi così stravolto mi si fece da presso. Io vidi su quella faccia nera la pietà che ricercavo, e caddi nelle di lui braccia, piangendo come un fanciullo."

"Vidi sorgere l'alba attraverso le lagrime. Triste cosa quell'alba. E tuttavia una speranza mi rianimò il petto; e il pensiero che io potessi essere in inganno tornò a sorridermi con insistenza. Clelia mi amava, mi aveva amato sempre-me ne aveva dato prova fino a poche ore prima; e poi, qual fede meritava una rivelazione del delirio? ed era poi una rivelazione? "Eh! via, una parola, un nome, non è in fin dei conti che un nome-dovrò io tessere sovr'esso una sventura con tanta sicurezza?"

Ritornai a Clelia con animo più calmo. Dormiva ancora; aspettai.

Poco dopo ella aprì gli occhi; mi vide e mi sorrise. Come mi fece bene quel sorriso! Pure ella aveva sorriso nello stesso modo poc'anzi.

XLVII

"Non dissi lo strazio del mio cuore; lo serbai come un segreto; e con quell'avidità fatale che spinge l'uomo alla scienza della propria sciagura, spiai ogni gesto di Clelia per avvalorare di certezza il mio sospetto.

In quel giorno Clelia fu calma, amorevole, quasi lusinghiera.

Ignoro se ella mi leggesse in viso le traccie dell'affanno, o se io riuscissi a dissimulare tanto da ingannare l'occhio suo indagatore-so bene che ella mi guardava fiso e lungamente, e che il sangue mi correva più celere a quello sguardo, e che mi sentiva riconfortato, e quasi vergognoso d'aver dubitato del suo amore.

Venne Eugenio. Malgrado i miei ragionamenti fui freddo con lui-egli con me fu come per lo passato.

Clelia mi stette vicino-non si allontanò come io temeva. Ella dunque poteva guardare in faccia Eugenio senza arrossire, ed egli del paro. Buon pensiero che durò poco.

Non poteva forse per parte di Clelia essere questo un riguardo ai miei desiderii, così stoltamente manifestati? e forse che Eugenio avrebbe potuto interrompere le sue visite, senza palesarsi?..

Eugenio partì-il mio saluto non fu meno freddo. La giornata passò tristamente. Clelia non mi domandava conto del mio malumore; non se ne avvedeva ella? Non era possibile; ne conosceva dunque la causa, e lo sapeva ragionevole. Ahimè! non vi era più dubbio. Come fu presso all'imbrunire la pregai che andasse a letto; il riposo le avrebbe fatto bene. In vero ella era molto abbattuta; passeggiava per le camere, ma ad ogni tratto era costretta a sedersi.

Alla mia preghiera rispose con mestizia non averne voglia, la lasciassi ancora qualche ora. Non risposi.

Eravamo seduti a qualche distanza l'un dall'altro-ella sul divano, io sopra una seggiola a bracciuoli-tristi entrambi e muti.

Fece più volte atto di rivolgermi la parola, ma si pentì e si rattenne a mezzo ogni volta; ruminava in mente qualche cosa, levava il capo per guardarmi, e come io mi accorgeva dei suoi sguardi, li rivolgeva ancora al suolo e ve li teneva fissi gran tempo.

A poco a poco succedette al tramonto la notte; le ombre circondarono tutti gli oggetti che ci stavano intorno, i nostri volti sfuggivano alle ricerche dei nostri sguardi, fatti più audaci dalle tenebre.

–Raimondo-chiamò Clelia dolcemente.

–Che vuoi? risposi e mi feci presso a lei intenerito.

–Che tu segga daccanto a me.

Vi era in queste parole un accento così carezzevole e così afflitto, che mi ritornarono in folla alla mente le dolci memorie dei nostri giorni d'amore. Il mio cuore, rimasto così a lungo solo, versò all'improvviso la sua tenerezza. Le cinsi il collo d'un braccio, e coll'altra mano cercai la sua mano.

Clelia mi amava ancora. Lieto di questa certezza io dimenticai quasi ogni primitivo timore. Era stato un delirio il suo; ma più folle delirio il mio di alimentare d'un sospetto lo spasimo del mio cuore.

Per pagarla della mia freddezza fui tenero oltre l'usato. Ad ogni parola affettuosa che io le dirigeva sentiva la mia mano stretta più forte nella sua e il battito del suo petto accelerarsi. E allora avrei voluto scorgere nel suo viso l'espressione del suo animo; ma benchè me le accostassi tanto che le nostre labbra s'incontrassero, e aguzzassi del mio meglio lo sguardo, quella notte senza luna era inesorabile, nè mai un filo di luce che penetrasse nelle nostre stanze.

Charruà non portava i lumi; volli chiamarlo; afferrai il cordone del campanello; Clelia trattenne il mio braccio senza dir motto.

Gran parte della notte si passò di tal guisa; mai coppia d'amanti fu più ardente e commossa.

Parlammo di cento cose con abbandono; ma tuttavia era chiaro che ciascuno di noi nascondeva qualche cosa all'altro, e che struggendosi di parlare adoperava i più strani giri per arrivarvi senza lasciarne parere il desiderio.

–Domani sarà una bella giornata, mi disse Clelia.

Conobbi che questa era da parte sua l'ultima via per giungere alle spiegazioni, e che il suo partito oramai era preso. Che mi avrebbe detto ella mai?

Anch'io convenni che il domani sarebbe stata una bella giornata.

–E la campagna sarà sorridente di fiori e di profumi…

Io non ne dubitavo-e tuttavia non sapevo ancora a che volesse arrivare.

Non disse altro.

"Si è pentita," pensai.

Ma mi era ingannato; sentii la sua bocca accostarsi al mio orecchio e dirmi sommesso:

"Mi ci condurrai, non è vero?"

"Dove?" mi domandai, e prima che avessi tempo di rispondere, la mia mente aveva corso gran tratto il campo delle fantasticherie.

E mi parve d'udire il respiro affrettato di Clelia, e di sentire fremere il suo corpo vicino al mio. Allora il capo mi si confuse affatto; nuovi sospetti scesero nel cuore a straziarlo, e non osando più profferire parola, perchè pauroso di provocare una novella che non avrei saputo sopportare, tacqui.

–Raimondo, proseguì Clelia con voce più calma, la primavera è così bella! non vorrai tu che noi andiamo per qualche tempo sul lago?

–Vi andremo, risposi sbadato.

Ma pensando dopo breve tratto alla mia risposta, e per essa alla domanda di Clelia, mi riconfortai. – Vi andremo-soggiunsi con voce più ferma-è vero, la primavera è così bella! Ma perchè mai non attendere l'estate?

–La primavera è così bella!

–Hai ragione.

–Soli, non è vero?

–Soli! – Ahimè, che il terribile segreto mi si svelava tutto e le mie paure risorgevano più gagliarde.

–Eugenio vorrà forse venire con noi, balbettai coll'istinto di accertare la mia sciagura.

Attesi invano una risposta. Cercai la mano di Clelia che mi era sfuggita, cercai il suo corpo tentoni con ansietà inesprimibile. Sfiorai il morbido velluto dei suoi capelli, sentii il freddo marmoreo della sua fronte appoggiata al cuscino del divano, e alcune lagrime scorrermi fra le dita.

La gelosia vinse in me ogni altro sentimento; mi drizzai furibondo, col cuore che ruggiva una bestemmia. Il tremito del mio corpo, l'ansia del mio povero petto dovevano pur giungere fino a lei e farsi palesi anche nell'oscurità. La poveretta non faceva motto, e piangeva.

 

Ripiombai abbattuto sul seggiolone, cacciandomi le mani nei capelli.

–Raimondo, amico mio, salvami; pietà di me, in nome del nostro amore…

Può il cielo serbare alle sue creature uno strazio più crudele! Io non risposi, non piansi, non imprecai.