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Due amori

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XXXV

"Eugenio veniva sovente di buon mattino per andarne insieme a passeggiare lungo i bastioni dei platani. Egli amava la natura, e diceva sempre di volerla sorprendere appena desta; quelle passeggiale all'alba fecero assai bene alla mia mente, e rinnovarono le mie forze. Ma per Clelia erano un martirio; s'era fatta una legge di non farmene più rimprovero, ma io mi accorgeva ch'ella ne soffriva.

–Tu finirai per dimenticarmi, mi disse dopo alcuni giorni, piangendo.

Le risposi con mille carezze, con mille giuramenti; io mi sentiva così innocente dei suoi rimproveri, che doveva far forza a me stesso per non lasciarmi vincere dal dispetto. Il mio spirito voleva ribellarsi a quel giogo, e diventava più insofferente ogni giorno; avessi io avuto una colpa, il rimorso non mi avrebbe fatto tanto male quanto il sapermi accusato senza ragione. Tuttavia ella era così buona, così dolce, così debole, che io ne sentiva quasi compassione, e trovava forza ogni volta di rispondere ai suoi rimproveri colle mie carezze. Se ne accorgeva e me n'era grata, e mi sorrideva talvolta fra le lagrime, e nascondeva il suo volto nel mio petto, dicendomi che la perdonassi. Allora il mio cuore si allargava; mi felicitavo d'essere stato paziente; ma non andava molto che queste scene si rinnovavano.

Com'era naturale, Clelia aveva concepito una strana ripugnanza per Eugenio. In cuor suo lo accusava di rapirmi a lei, d'aver posto fra le nostre anime un intervallo che prima non esisteva, e d'essercisi cacciato in mezzo lui colla sua amicizia, coi suoi sogni pazzi d'artista, colle sue fantasie.

Io comprendevo tutto ciò, e pure mi ostinavo a parlarle d'Eugenio; parevami che perchè io l'amavo anch'essa dovesse sentirne a parlare volentieri. Essa mi ascoltava talvolta in silenzio, ed io interpretando in buon senso quell'attenzione, coglievo l'opportunità di dirle ciò che io soffrissi vedendo l'ingiustizia con cui essa giudicava del mio amico. Quando io tacevo, lusingandomi di aver toccato il suo cuore, ella sì volgeva a me colla stessa aria distratta di prima, e come vedeva salirmi al volto qualche segno di collera, mi si buttava fra le braccia, ripetendomi cento volte che mi amava.

Ignoro se Eugenio si accorgesse allora di questa antipatia bizzarra, irragionevole, che avea destato in Clelia. Egli era così poco vanitoso ed avea così povero concetto di sè medesimo, che forse non si meravigliava punto che altri gli addimostrasse freddezza. Fors'anco si era accorto di tutto; ma, o ne avesse compreso le ragioni, o avesse temuto di recarmi dolore facendomi intravvedere il suo sospetto, non ne lasciò apparire alcun segno.

Una mattina Clelia si attaccò al mio braccio scherzosa, e volle che la conducessi per le camere come una volta. Mi diceva un mondo di cose; s'era svegliata di buon umore, mi amava più del solito, voleva che io l'amassi altrettanto. Le passavano in mente mille capricci, ma ne sorrideva subito ella stessa, e mi avvertiva di non darle retta perchè quel giorno amava d'essere pazzarella.

All'improvviso si arrestò, e guardandomi in volto, e circondandomi delle sue braccia, volle che io le accordassi un favore. Io era felice di poterla contentare, e glielo dissi.

–Bianca, disse a voce bassa, la piccola Bianca, la nostra creatura che è laggiù, e mi additava la camera della balia, impallidisce, vien magra…

–Che dici mai! t'inganni; ieri appena era rosea come un amorino.

–Ed oggi non lo è più, ribattè con un sorriso furbo che parea domandare dì non esser colto in fallo.

–Ebbene?

–Ebbene, la poveretta ha bisogno di muoversi, di veder la campagna, di sedersi sull'erba, di raccogliere le piccole margherite, di salutare la primavera che è così bella…

–La nostra creatura sedersi sull'erba, raccogliere le piccole margherite!.. ma ti pare?.. e avrei continuato nella mia meraviglia, se non avessi visto Clelia sorridermi collo stesso sorriso di prima.

–Ho inteso, dissi, ho inteso tutto, pazzarella; ma perchè ricorrere a questo sotterfugio?..

–Ti ho prevenuto; questa mattina ho voglia di scherzare. Acconsenti?

–Acconsento.

–E lascerai a me la scelta del luogo?

–Al tuo capriccio.

Fece un piccolo salto di contentezza, e mi baciò nel volto.

–Ma non è tutto, soggiunse poco dopo. Io voglio che noi siamo soli…

–Soli! e la piccola Bianca che è pallida e che immagrisce?.. bisognerà condurre anche la balia…

–Senza dubbio-non è questo-non farmelo dire: io so che tu ci soffri…

–Eugenio…

Clelia chinò gli occhi senza dir motto.

–Noi saremo soli, le dissi imbronciato.

–Ma tu diventerai più lieto, non è vero? Non vorrai già tenermi il broncio per questo? E perchè non saremo noi soli una volta, a nostro agio? e perchè non potremo noi carezzarci e sorridere senza essere visti da un'estraneo?

–Eugenio non è un estraneo; un amico non è un estraneo, interruppi. Gli uomini onesti apprezzano troppo i loro sentimenti per umiliarli e tradirli in questo modo. Voi donne non conoscete amicizia-chi nol sa? – però io ho sempre dubitato se voi donne abbiate il cuore fatto come il nostro.

Clelia non rispose-piangeva.

Allora la tenerezza, vincendomi il cuore, mi fè correre in mente il dubbio sulle mie stesse parole, il dubbio sopra di me, sopra i miei sentimenti. Mi rimproverai di disconoscere l'amore di Clelia, di non apprezzare come meritava quello stesso ingiusto contegno con cui essa trattava Eugenio. Era gelosia, era egoismo d'amore, ma era amore. Dovevo io farle una colpa d'amarmi di tal guisa? E il volere il suo amore, tutto il suo amore, ma rifiutare ad un tempo ciò che in esso vi era di affannoso, non era egli egoismo più grande? e non avrei io distratto di tal guisa quell'affetto che mi era così caro?

Tutti questi pensieri turbinarono un brevissimo istante nel mio capo-mi accostai a Clelia, e le dissi che avrei fatto il suo volere, che non era desiderio di contraddirmi, ma dolore di vederla così ingiusta verso un amico sincero che mi avea suggerito parole così aspre; mi perdonasse. Mi perdonò.

Si fecero i preparativi per la gita in campagna-furono presto fatti-non recavamo nulla con noi, saremmo andati alla ventura-era il volere di Clelia.

–E da qual parte ci volgeremo?

Clelia pose l'indice attraverso la bocca, con aria di mistero. Era un segreto.

Noi stavamo per uscire di casa, quando Charruà venne ad avvisarmi che Eugenio mi aspettava.

Guardai Clelia in volto; si trastullava col suo ombrellino con aria apparentemente distratta.

Uscii dalla camera e andai incontro ad Eugenio; lo accolsi freddamente, egli non se ne accorse o attribuì ad altro il mio contegno. Gli dissi che io uscivo; che sarei andato in campagna con mia moglie.

–Per molto tempo? domandò meravigliato.

–Ritorneremo questa sera. E ad evitare che egli si proponesse per compagno, gli domandai come avrebbe passato la giornata.

–Contava passarla teco, mi rispose indifferente; ma poichè tu vai in campagna…

Come potevo io non dirgli che venisse con noi? In un baleno pensai ogni mezzo per evitarlo-non ve n'era alcuno. S'egli avesse proseguito a parlare, se avesse detto due sole parole di più… ma egli taceva. Lo invitai. Era impossibile che egli non indovinasse lo sforzo con cui io gli faceva questo invito-ma s'egli non dubitava di nulla, a che mai attribuirlo? Mi domandò se non sarebbe riuscito importuno-gli risposi diamine, ma freddo. Eugenio comprese che la sua compagnia in quel giorno non era desiderata. Mi strinse le mani, e sorridendo ingenuamente: "io sono un pazzo, mi disse; volermi cacciare framezzo a due sposi che vanno a scampagnare; non accetto l'invito; per quanto tu faccia, io comprendo che vuoi esser solo."

Lo avrei abbracciato; invece, poichè mi vedevo oramai al sicuro, gli ripetei l'invito con qualche insistenza.

–Saluterò tua moglie, soggiunse Eugenio, ostinandosi nel rifiuto.

–È di là, e corsi ad avvisarla.

La trovai intenta a spogliarsi di una veste di mussola a scacchi che aveva indossato per la campagna.

–Che fai? le domandai un po' stizzito.

–Lo vedi, e a temperare il mio dispetto mi venne incontro carezzevole chiamandomi: amico mio.

Le dissi che saremmo stati soli, che Eugenio non veniva, che si affrettasse che egli voleva salutarla.

–Davvero! esclamò battendo le mani; andremo dunque ancora in campagna, e saremo soli, e correremo nei prati!.. che piacere!

La interruppi e le ripetei che Eugenio aspettava per salutarla.

–Ben volentieri, disse con malizia; gli sono riconoscente a quel povero signor Eugenio.

Nell'uscire salutò cortese più del solito il mio amico; e ci avviammo per la campagna.

–Dove andiamo noi, domandai un'altra volta.

Ella pose ancora l'indice attraverso le labbra. Era un segreto."

XXXVI

"Uscimmo per la porta più vicina. Clelia era fuor di sè dell'allegria; si attaccava al mio braccio, e mi lasciava improvvisamente per correre ad accarezzare la bambina, la quale incominciava a muovere i primi passi da per sè.

La balia era una buona donna, che amava molto la piccola Bianca. Non aveva voluto lasciarci, non avevamo voluto che ci lasciasse e continuava a starsene con noi. Anch'essa era giubilante, seguiva attenta i passi incerti della bambina, e quando minacciava di cadere se la toglieva sulle braccia e correva inseguita dalla mamma.

Si andò a caso un gran pezzo.

–Dove andiamo noi, in fede mia?

Clelia non pose più l'indice attraverso le labbra, ma si fece presso a me sorridendo, e mi disse di non saperlo; e che la bambina aveva appetito, e da gran tempo rifiutava il latte; però bisognava cavarsi da quest'impiccio.

Per buona ventura lì presso, a un trar di sasso appena, era una bicocca mezzo sepellita dai gelsi; però fattomi innanzi, vidi penzolare un'insegna irruginita che non era avara di promesse a chi voleva tentare l'esperimento.

 

Proposi a Clelia di entrare in quella locanda; battè palma a palma le mani, e si fe' innanzi per la prima. Se un uragano avesse scoperchiata quella misera casetta, e una tempesta di napoleoni d'oro l'avesse colmata lino al tetto, io penso che quel buon diavolaccio d'oste non avrebbe avuto più piacevole sorpresa. E' ci venne incontro confuso, colle gote arrossate dal piacere, girando e rigirando fra le mani il suo berretto.

Quella fu una giornata benedetta; io me ne ricordo sempre con tenerezza, con dolore.

Ho riveduto più tardi quella casa, e il volto rubicondo di quell'oste. Egli mi riconobbe, e s'inchinò allo stesso modo, e fece girare allo stesso modo il suo berretto, offerendomi i suoi servigi… Ma io vi era andato per ritrovare un frammento della mia felicità seppellita, vi era andato per piangere."

XXXVII

"La giornata passò rapidissima; il piacere ha le ali leggiere, e corre veloce innanzi agli occhi dei mortali. Ritornammo a Milano dopo il tramonto.

Clelia non si saziava di dirmi che s'era divertita.

–Quanto sarei mai felice se potessi essere sempre con te in campagna!" mi ripeteva ad ogni tratto.

Le promisi che vi saremmo andati presto per fermarci alcun tempo.

–Soli?

Questa insistenza in un'idea che feriva ingiustamente il mio buon Eugenio mi afflisse. Tuttavia non me ne offesi.

–Soli, le risposi, e non altro.

–Così va bene, soggiunse Clelia; ma questa volta impensierita, come se temesse di aver ridestato il mio malumore e se ne pentisse, e scendendo in cuor suo comprendesse per la prima volta d'essere ingiusta.

–Oggi che non l'ho visto, sono più disposta a perdonargli, mi disse qualche tempo dopo scherzando.

–A chi? domandai distratto.

–E a chi se non al tuo amico, al signor Eugenio?

Le risposi con un sorriso; e finsi di non porvi gran fatto mente continuando a sfogliazzare un antico albo di paesaggi svizzeri, ma in segreto me ne compiacqui, e dissi a me stesso che se Clelia m'aveva detto quelle parole, doveva aver pensato fino a quel punto ad Eugenio; e che se vi aveva pensato, non poteva andar molto che anch'essa avrebbe apprezzato le virtù di quell'anima gentile.

Però mi lusingai che si sarebbe ravveduta.

XXXVIII

"Per tutto il dì successivo attesi inutilmente Eugenio. Quando fu presso all'imbrunire uscii sperando d'incontrarlo per via, mi recai alla sua abitazione, e seppi che era rimasto assente tutto il giorno.

Rifeci i miei passi-sulla soglia incontrai Clelia che m'avea aspettato dalla finestra. Le cinsi il collo del mio braccio, ella passò il suo intorno al mio corpo.

–Si sarà egli offeso? mi disse.

–E chi mai?

–Il tuo amico Eugenio?

Credevo di no, e glielo dissi."

XXXIX

"Il domani lo aspettai ancora senza frutto-andai in traccia di lui come nel giorno innanzi, ma senza poterne avere alcuna notizia.

Me ne ritornai a casa fantasticando mille cose senza riuscire ad appagare il mio spirito irrequieto.

Questa volta Clelia non mi aveva visto dalla finestra, però non venne sulla soglia ad aspettarmi. Charruà mi additò l'uscio della sala con una espressione che non sfuggì alla pratica che io aveva del suo volto. Egli aveva una buona notizia; sapeva di farmi piacere-ma siccome tutto ciò era stato indovinato, non voleva tradirsi. Mi appressai rapido all'uscio e udii una voce nota-entrai; era Eugenio.

Eugenio seduto accanto a Clelia, le narrava forse la storia della sua assenza, una storia mesta perchè Clelia pareva commossa. In quel punto io non pensai al piacere di rivedere l'amico mio, all'ansietà passata in quei due giorni, al timore di averlo offeso, tanto io era felice di veder Clelia così mutata verso di lui. E pensai alle cagioni che avevano potuto operare questa trasformazione, e mi rallegrai quasi dell'assenza d'Eugenio, poichè parevami, e forse non andavo errato, di dover attribuire ad essa sola questo miracolo.

Strinsi la mano d'Eugenio, e m'assisi vicino a lui, interrogandolo cogli occhi. Clelia risollevò i suoi verso di me e sorrise. Quel sorriso era un mondo di idee: una confessione vergognosa dell'ingiustizia con cui aveva sempre trattato Eugenio, una promessa di non farlo più; e quasi un dirmi: "vedi, t'ho obbedita-perdonami."

Quel sorriso meritava una risposta; le domandai dolcemente che cosa l'avesse commossa. Mi fè cenno della mano ascoltassi Eugenio. Ascoltai. E seppi allora come egli fosse stato assente a cagione dell'arte sua; e come un barone T… tedesco lo avesse chiamato presso di sè in una villa del Lago di Como per il ritratto d'una bambina morta. La piccina non aveva che tre anni ed era bella-Clelia aveva pensato a Bianca e s'era intenerita. Io stesso a quell'immagine melanconica mi sentii commuovere-se non che in quella udii nella camera prossima la voce argentina della nostra creatura. Ricambiai con Clelia uno sguardo d'intelligenza e il suo volto si rifece sereno."

XL

"Da quel giorno non ebbi più a lamentarmi di Clelia.

La mia vita si completò come per incanto; v'era stata fino a quel punto nel mio cuore come un'amarezza dissimulata; la mia anima s'era tenuta vacillante fra il contraddire palesemente a Clelia e il fare offesa all'amicizia; oggi il nodo era stato sciolto; i miei affetti che s'erano guardati gelosi, si stringevano la mano; le due fiamme si riaccostavano, si confondevano in una sola.

Io pensai più volte con animo pacato a quell'antipatia che una comunione d'affetti fa spesso nascere fra due cuori egualmente buoni, egualmente dolci e sereni; a quella gelosia che la generosità di due anime grandi non sa vincere, e non seppi mai penetrare gli arcani divisamenti della Natura. I buoni ne piangono come di una calamità; gli scettici ne accusano la provvidenza-nessuno può scoprirne le fila misteriose.

Però io che ne aveva sofferto così a lungo, mi sentii rinascere l'ardore dei miei vent'anni inesorabilmente perduti, e mi abbandonai con trasporto al mio amore che era il mio culto. Oramai io poteva palesare apertamente l'animo mio, poteva schiudere i battiti del mio petto tanto tempo repressi; io era libero d'amare.

Clelia non s'imbronciava più se desideravo Eugenio, se m'accompagnavo spesso con lui. A poco a poco divise in qualche parte la mia gioia, se ne compiacque.

Quando egli veniva presso di noi, ella non lo vedeva più di mal occhio; non lo accusava più di volermi sottrarre all'amor suo. Non andò molto che si abituò tanto alla vista di lui, che se avveniva ch'egli mancasse al solito convegno, ne era dolente per me poco meno di me medesimo. In breve famigliarizzò con esso come con un amico d'infanzia.

Eugenio pareva felice di vedersi così bene accolto; ma tuttavia non diede mai segno d'essersi accorto che fosse avvenuto qualche mutamento nel nostro contegno verso di lui. Forse per delicatezza finissima non voleva lasciar parere, forse egli avea dimenticato il passato, o avea voluto dimenticarlo per smarrire un termine di confronto. Giammai però che io potessi andare più in là di queste vaghe supposizioni; giammai sguardo, gesto o parola che desse vita ad un sospetto o avvalorasse l'uno meglio dell'altro.

Passarono alcuni mesi in questa guisa. Una sera noi ci eravamo raccolti in questa camera senza sapere perchè; ragionammo d'arte un gran pezzo; a poco a poco fummo tratti a risollevare i veli delle nostre memorie.

Eugenio aveva una vita avventurosa a narrarci.

Nato di famiglia ricchissima, alcuni rovesci di fortuna lo avevano tratto in rovina; però egli aveva abbandonato il collegio con animo di dedicarsi alla pittura per la quale aveva sentito fin dall'infanzia una potente attrazione. Gli rimanevano cento franchi, non un soldo di meno. Non era troppo, per intraprendere il gigantesco disegno che gli era balenalo in mente: recarsi a Roma ad apprendervi il disegno. Vi andò. Consumò i pochi quattrini che gli rimanevano, ma divenne allievo dell'Accademia Romana di belle Arti. Patì di fame, ma visse, e crebbe artista.

Questo racconto s'intesseva con cento episodii burleschi, ch'egli narrò sorridendo. Io ne ricordo pochissimi; quest'uno non mi è mai passato di mente.

Nei primi mesi che si trovava a Roma fu aperto il concorso per gli allievi di disegno di una classe superiore a quella in cui si trovava Eugenio. Il suo maestro lo consigliò di concorrere; si propose e fu accettato. Era un ardimento senza pari; lo avrebbe portato innanzi una classe, e gli avrebbe guadagnato un sussidio mensile di un prossimo comune.

Il concorso versava sopra una copia dal gesso, ed era stato concesso agli allievi un mese di tempo per compiere il lavoro. Eugenio si accinse con ardore, il suo lavoro avanzava ogni giorno, egli si compiaceva già dell'opera sua, si sentiva fremere nella mano una matita d'artista, e lavorava senza posa. Quindici giorni trascorsero in febbre; il suo disegno era quasi al termine; se non che all'improvviso egli scoprì d'aver errato; avea tracciato alcune linee inutili che la sua inesperienza e il suo entusiasmo gli avevano impedito per tanto tempo di scorgere. Si provò a cancellare quelle linee, e rovinò la carta su cui disegnava. Quella fu la più gran disgrazia che lo potesse colpire; aveva perduto quindici giorni, e gli mancava una lira per acquistare nuova carta. Giovinetto provò tutte le fitte della disperazione. Erano quindici giorni che egli viveva di pane nero e di speranze, oramai tutto gli falliva; egli disperava di raggiungere i suoi compagni, e condurre a termine nel breve tempo che gli rimaneva il suo lavoro; e quando pure lo avesse potuto, non avrebbe ritrovato in tutta la sua guardaroba di che provvedere quella lira che gli mancava. Non conosceva nessuno, tranne che un artista scultore; ma lo scalpello dell'uno non portava certamente invidia alla matita dell'altro: erano due povere creature entrambi; quale più non era facile determinare.

Trascorse il primo giorno in vane fantasticherie; alla notte egli aveva passato in rassegna tutte le cose riducibili ad una lira. Una lira! era un poema, e tuttavia Nababbo e Creso ne avevano avuto assai più; e se n'erano vissuti senza comprenderne l'importanza; e certamente nessuno mai poteva vantarsi d'averne analizzato così a fondo le virtù. Pure non una di queste monete così famigliari oramai all'intelletto di Eugenio era uscita dalle saccoccie di Nababbo o di Creso a confortare colla riconoscenza la paziente meditazione del povero artista.

Alla notte ebbe la febbre, la febbre terribile che assale una volta sola nella vita dei disgraziati sognatori d'arte e di poesia, la febbre dell'avvenire che accelera il corso del sangue impoverito dagli stenti, quando recisi i fili inargentati delle illusioni si volge la prima volta l'occhio all'intorno e si scorge la terribile solitudine che accompagna i passi della miseria.

Eugenio ebbe paura del suo avvenire, e pianse come un fanciullo. Tutta la notte pensò al suo passato, alle cure affettuose che avevano rallegrato i primi battiti del suo cuore, alla nonna incurvata, alla madre buona ed amorevole anche nei rimproveri; pensò quelle colpe ingenue e puerili che facevano sorridere la povera donna, quelle sale arredate con gusto, quei maestri così arcigni e tutte quelle cento inezie che popolano la vita inesperta e facile della fanciullezza.

Ma le grandi idee sono figlie della miseria, e non a torto fu detto che le lezioni del cencio e della fame siano le più eloquenti e le più feconde.

In quella notte Eugenio ebbe una idea…

E non fu appena sorto il mattino, che egli si vestì, mangiò un tozzo di pane che era avanzato dal suo pranzo ed uscì all'aria aperta, coll'aspetto d'uomo che ha assolutamente preso il suo partito, ma che prima di intraprenderne l'esecuzione, vuole riconfortarsi e quasi ribadire il suo proposito. La brezza mattutina doveva far quest'uffizio.

A capo d'un'ora passata a camminare su e giù innanzi alla chiesa d'un convento, affrettando il passo quando era lontano dalla soglia, e rallentandolo mano mano che vi si accostava, prese una risoluzione suprema ed entrò.

Non era stato da gran tempo in una chiesa, e coi sacramenti non si trovava certamente in buona armonia, tuttavia egli andò diffilato ad un confessionale, vi si inginocchiò, ed attese. Non andò molto che un frate lo vide, e venne a sedersi nel confessionale. Eugenio si sentiva battere il cuore; ma non vi badò gran fatto, e sbirciò sott'occbi il reverendo come cercando di leggergli sul volto il proprio destino. Il volto di quel frate era muto come una tomba. Eugenio allora pensò che egli era li per confessarsi, e fu per smarrirsi d'animo. Il frate lo prevenne, gli domandò se voleva confessarsi, e il povero pittore balbettò qualche cosa che rassomigliava ad un .

 

Allora incominciò il martirio; il frate volle sapere da quanto tempo il suo penitente si fosse accostato al sacramento, e il penitente non sapeva troppo bene se fosse da quattro o da cinque anni. Lo disse-e il frate ad esclamare scandalizzato, e a minacciare le pene dell'inferno; e il tapino a pentirsi-e poi una sfuriata d'interrogazioni e un rispondere affannoso di e di no-poi il frate volle recitasse il confiteor, e il penitente, a cui era passato di mente insieme al latino del collegio, a bestemmiare senza alcun riguardo le parole sacre-e il frate a scandalizzarsi da capo.

In fine dopo un'ora di tortura Eugenio era riuscito a convertirsi; dopo un'altra mezz'ora aveva mansuefatto totalmente il frate, il quale avendo appreso i casi del suo penitente, e premendogli di salvare la sua anima, lo assolvette con una mano, e gli diede coll'altra la lira sospirata.

Eugenio che finalmente respirava, ricevette con compunzione le due benedizioni, storpiò un'altra volta il confiteor, e se ne uscì col suo tesoro nel pugno, più ricco di Creso e di Nababbo.

Egli ci raccontò quest'avventura scherzando, e noi stessi ne ridemmo di cuore; anche ora pensandoci io ne sorrido.

Aggiunse poi che rimessosi al lavoro, nel termine fissato ebbe preparato il disegno pel concorso, e che ne riportò il premio stabilito. Ma per giungere a quel giorno egli aveva vissuto alcune settimane nella miseria; aveva sofferto il freddo, la fame; aveva lottato con una malattia di petto cagionatagli dal lavoro frenetico, e la scarsità di cibo consumandolo ogni giorno, lo aveva condotto agli estremi.

A questo racconto straziante che egli aveva cercato di fare colla stessa bizzarra noncuranza, ma che involontariamente aveva strappato dal suo petto un singulto e fatto brillare sul suo ciglio una lagrima, io me gli accostai più da presso, e come a pagarlo di ciò che aveva sofferto, serrai le sue mani nelle mie. Clelia lottò un istante dentro di sè, poi nascondendo il capo fra le mani scoppiò in singhiozzi.

Eugenio rialzò il capo, guardò Clelia, e poi me; passò ruvidamente la mano sugli occhi a detergervi le lagrime, e arrossì in volto come se vergognasse della sua debolezza.

Da quel punto la conversazione languì. Clelia si provò a sorridere, cercando i miei occhi che gli risposero tutto l'affetto del mio cuore. Ma Eugenio non levò lo sguardo dal suolo ove l'aveva fisso nuovamente."