Za darmo

Due amori

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

XXIV

Nei giorni successivi io non vidi Raimondo. Mi era recato più volte da lui, ma Charruà aveami detto che il suo signore non era in casa.

Anche Charruà parea sempre più tetro; l'ultima volta che io gli avea parlato aveami risposto con un mugolio strano che non giunsi ad intendere. Argomentai però giustamente dal contegno di lui, dello stato di Raimondo. Charruà era come uno specchio dell'anima del suo signore; non subiva altre impressioni, non amava altri affetti, non pativa altri dolori che quelli del suo protettore. Così egli chiamava Raimondo, e il suo occhio si addolciva pronunziando questa parola, come se gli ridestasse in mente una memoria assai mesta. Né io seppi mai che cosa lo legasse con tanta riconoscenza al mio amico, ma della riconoscenza non incontrai certamente e non incontrerò più mai sulla terra immagine tanto viva.

A poco a poco il mio demonio andò cacciandomi in mente che Raimondo non volesse vedermi, e che perciò mi facesse dire che non era in casa. E da prima pensai che egli non volesse essere turbato nel suo dolore e che io subissi la sorte di tutti-e me ne dolsi amaramente pensando alla nostra amicizia, e ai diritti ed ai privilegi che io credeva mi spettassero; ma più tardi andai oltre a credere che egli cercasse di fuggirmi accusandomi d'essere stato io la causa delle sue afflizioni. Però, siccome io mi teneva innocente e l'ingiustizia mi accende il dispetto nel cuore, stetti alcun tempo senza far ricerca di Raimondo, fingendo non curarmi di lui.

Se non che il mio proposito venne meno a poco a poco; in pari tempo che il mio sospetto andava dileguandosi; né corsero quindici giorni, che mi recai in casa della contessa sotto il pretesto di farle visita, ma in realtà coll'animo pieno di speranza di sapere dalla sua bocca qualche cosa dei cinque anni che erano passati.

La contessa mi rivide con gioja-mi parlò di Clelia con molta mestizia-e mi chiese notizie del "povero Raimondo."

Ella accentuò con dolore queste ultime parole, e mi parve di leggervi il compianto e quasi un rimprovero d'essere stata dimenticata da lui.

Non avevo adunque nulla ad apprendere da essa. In quei cinque anni Clelia e Raimondo erano stati spesso nelle sue sale. Le erano parsi entrambi felici, fino agli ultimi mesi, nei quali Clelia avea cominciato ad ammalarsi-d'allora in poi li aveva veduti più di rado-nelle ultime ore di vita della povera Clelia, s'era trovata al suo capezzale-non sapeva dirmi altro.

Mi tornò in mente il vecchio generale; e siccome parevami che io avrei potuto saperne di più da lui, ne chiesi alla contessa.

Tentennò il capo, e mi disse ch'era morto. Poco dopo le nozze della sua Clelia era stato colpito di gotta una prima volta, e n'era guarito in tempo per poter tenere al fonte battesimale la piccola Bianca che egli chiamava teneramente la sua nipotina. Poi siccome un nuovo accesso del suo male gli avea tolto l'uso delle gambe, e lo aveva costretto a vivere nel suo sepolcro imbottito, com'egli aveva battezzato in un momento di buon umore il suo antico seggiolone di cuojo verde, s'era dato all'assenzio. Alla momentanea forza che egli ritraeva da questo liquore doveva le sue ore più gaje; e però in breve ne abusò. I medici pronosticarono che seguitando di tal passo non avrebbe vissuto più di qualche mese; egli lo sapeva e se ne compiaceva. "Non vedo l'ora, soleva dire, di potermi rizzare dal mio sepolcro imbottito-in quei di sasso, scommetto, ci s'ha a star meglio." Quando fu agli estremi di vita volle gli si recasse un bicchiere d'assenzio, e siccome quello che gli veniva apprestato non era ricolmo, pregò lo si colmasse. Poi lo sollevò, e lo tenne alcuni istanti innanzi agli occhi, dicendo: "come è bella la luce traverso questo bicchiere!"

Queste erano state le ultime sue parole, ed era morto nelle braccia di Clelia e di Raimondo.

La contessa narrandomi questo triste avvenimento non poteva arrestare le sue lagrime.

Nell'uscire ella mi domandò se io avessi notizie del signor Eugenio S. pittore, amico di Raimondo.

–Eugenio S., sclamai, egli dunque fu qui!

–Non lo sapevate? È circa un anno che egli è ripartito per Roma; ma visse a Milano alcuni mesi.

Quella notizia sconvolse la mia testa. Io non avevo saputo dell'arrivo di Eugenio a Milano; nè Raimondo me ne aveva parlato. In ciò non era certamente nulla di straordinario, ma tuttavia io mi domandavo senza frutto perchè Raimondo non mi avesse parlato d'Eugenio. Era stato calcolo o dimenticanza? E se il suo dolore consentivami quest'ultima interpretazione, come spiegare il suo silenzio quando io era ancora in Sardegna e Clelia viveva? E perché non mi aveva prevenuto di ciò? perché Eugenio stesso non avea cercato di farmene prevenire o di prevenirmene egli stesso? Tutto quel dì m'affannai in tale pensiero.

Il giorno successivo incontrai Raimondo per via-era il cielo che lo inviava; io non aveva ancora cessato di pensare ad Eugenio; però me gli accostai con animo di domandargliene novelle.

Al vedermi, Raimondo non mostrò sorpresa; mi venne incontro benevolo, si sforzò di sorridere e si scusò meco della sua condotta. Ciò valse a dissipare i miei primi sospetti, né io vidi più in lui l'ingrato, ma soltanto l'infelice.

La sua fisonomia s'era come allungata dal dolore; il suo passo era grave, teneva il cappello assai calato sugli occhi, e l'abito nero abbottonato fin sotto la gola.

Poco stante gli parlai d'Eugenio e gli domandai se ne sapesse qualche cosa. Mi parve che impallidisse, e stentasse alquanto a rispondermi; poi mi disse che Eugenio non gli aveva scritto da molto tempo.

Siccome io mutai subito discorso, egli mi guardò in volto sospettoso, ma parve rassicurarsi. Non mi sfuggì quello sguardo e ne penetrai il senso-però da quel punto ebbi fermo in mente che Raimondo mi celava un segreto.

XXV

Un segreto! E di qual natura poteva egli essere questo segreto che resisteva all'amicizia? O forse che io non ero più l'amico di Raimondo? ovvero la sua fede nell'amicizia s'era affievolita tanto da farlo rinunziare alla confidenza?

Per gran tempo mi dibattei in questi pensieri. Vi è qualche cosa che ci avvelena più che un inganno in amore, ed è un amico perduto-e quel dubitare d'un amico, quel vederselo innanzi, ma non più sotto l'aspetto d'un tempo, quel ritentare il passato e trovarlo muto, e vedere un seno una volta aperto agli entusiasmi confidenti chiuderci gelosamente il suo segreto, non è certamente meno doloroso. Avanza melanconica e tenace la memoria, ma essa stessa è tortura; si rimane avviticchiati come un'edera dissecata ai rami spenti d'un olmo montano – ma la vita non corre più fra le loro fibre; e quel freddo amplesso è un supplizio.

E tuttavia io non voleva credere che Raimondo fosse mutato verso di me; e lottavo meco medesimo per persuadermi che la sua amicizia aveva sopravvissuto alla distruzione del suo cuore. Domandavo questa fede ad ogni cosa, ad una stretta di mano più lunga, ad un saluto più affettuoso, ad un sorriso più confidente. Quando io gli era vicino, e potevo vederlo e parlargli, mi confortavo in cuore, però che mi paresse di riconoscere ancora il Raimondo d'un tempo; ma come io mi allontanava, la sua immagine si alterava nella mia mente; non era più lui.

Non dirò se io ne soffrissi. Raimondo se ne accorse e venne più spesso da me; talvolta si trattenne meco, ma poi che non mi sfuggiva lo sforzo che egli vi poneva, gliene fui grato, ma disperai d'arrestare il fantasma della nostra amicizia che si era oramai dileguato.

Mi ricordai d'Eugenio. Forse verso di lui io era assai colpevole; ma la lontananza non avea reso lui meno colpevole di me. Non ci avevamo scritto che poche lettere-la nostra vita intima ci era ignota a vicenda. Pure Eugenio aveva un cuor buono, e in quelle giornate di solitudine, sconfortato dei miei affetti, timoroso di vedere distrutte le ultime corde armoniose del mio seno, pensai a lui con desiderio, e gli scrissi con abbandono.

Mi rispose una lettera mesta; si scusò del suo silenzio; mi parlò dì Roma e d'arte; ma non mi disse nulla di sè medesimo, del suo passato. Gli aveva parlato a lungo di Raimondo per eccitarlo a ragionarmi del tempo in cui egli s'era trovato a Milano, ma non ne fe' cenno. Mi lasciò sperare che sarebbe venuto a stabilirsi vicino a me ed a Raimondo, la cui sciagura appresagli per la prima volta dalla mia lettera avevalo afflitto acerbamente.

Questa lettera d'Eugenio non rischiarò punto le mie tenebre.

Mi raccolsi in me medesimo; ricercai la solitudine, e domandai conforto al lavoro.

Passarono così alcuni mesi; Raimondo veniva a quando a quando da me; il suo dolore aveva perduto d'acutezza, ma non era perciò meno intenso o meno profondo; si era rassegnato al suo destino, ma alla guisa dell'albero che, incurvato dalla bufera, rinnova la corteccia e riprende la sua vita, ma non dirizza mai più i suoi rami.

Una sera io me ne stava seduto accanto al caminetto, avvolto nella mia veste da camera, contemplando alcuni tizzoni che crepitavano scherzando colle loro lingue turchine. La neve scendeva a larghi fiocchi; il ghiaccio avea disegnato a bizzarre fioriture le vetrate del mio balcone.

D'improvviso venne picchiato al mio uscio. Era Charruà. Il suo signore mi pregava di recarmi da lui; aveva bisogno di me, e che io vi andassi subito se non mi fosse grave.

Buttai in un canto la mia veste da camera; indossai un soprabito, e mi recai in compagnia di Charruà in casa di Raimondo.

XXVI

Lo incontrai seduto sul suo letto. Egli mi aveva atteso con impazienza ed avea temuto che per qualche incidente io non avessi potuto arrendermi al suo desiderio. Però appena mi vide balzò da letto e mi corse incontro; si acconciò in furia e mi trasse d'accanto al camino.

E mi disse come fosse stato male tutto il dì, e come avesse avuto in mente per molte ore di farmi avvisare, ma non fossegli bastato l'animo di farlo prima. Aveva molte cose a dirmi, delle confessioni a farmi, dei consigli a chiedermi.

 

Era nelle sue parole tanto dolore, e tanto e così sincero pareva il pentimento della riservatezza usata meco fino a quel punto, che se anco io vi avessi visto una colpa, ed in quel momento la mia mente rabbonita era assai lungi dal pensarlo, non avrei domandato di meglio che di perdonargli.

Lo confortai, e gli dissi che io mi era accorto che egli mi celava qualche cosa, e che mi aveva punto al vivo non già il desiderio di conoscere i fatti suoi, nè il dubbio d'aver perduto la sua amicizia, ma il timore d'essere stato io la causa di qualche suo dispiacere che ignoravo. Sapevo di mentire, ma lo facevo con tanta sicurezza come se compissi un dovere-e forse non ebbi torto.

Raimondo fu lieto delle mie parole; parve meditare alcun poco, poi come se, vincendo gli ultimi attacchi della sua titubanza, avesse preso il suo partito, accostò con un moto risoluto la sua seggiola vicino alla mia, poi ordinò a Charruà d'accendere un candelabro.

Poco stante, a conciliare la mia attenzione, mi prese le mani, e le strinse nelle sue.

XXVII

-Ho aspettato fino ad oggi, prese egli a dire con voce commossa, e avrei forse aspettato ancora; sarei disceso nella mia tomba senza che l'amicizia avesse potuto guardare nel mio povero petto-ma oggimai è impossibile indugiare; io non trovo dentro di me tanta forza per determinarmi ad un partito; ho bisogno dei tuoi consigli: a tal patto ti svelerò l'animo mio.

"Non ti offenda questo sentimento d'egoismo; poichè gli è forse meno biasimevole che tu non pensi; fors'anco non è egoismo. So di non frodarti nulla tacendo; so pure che la confessione che io ti farò scemerà il mio affanno-se v'era dunque colpa in me, era quella di voler essere solo a soffrire; se v'era egoismo nel mio contegno, egli era certamente un egoismo assai strano-l'egoismo del dolore.

"Non è un segreto il mio, non è una colpa-è un dolore. Se ti dirò cosa che tu ignoravi, non credere che per contenderti questa scienza io abbia taciuto finora. Altri avrebbe potuto dirti la stessa cosa, nè io me ne sarei afflitto. Ma ciò che nissuno poteva dirti, è ciò che io solo conosco, ciò che io ho serbato per me solo fino ad oggi gelosamente, lo strazio del mio cuore.

"Io solleverò per te questa cortina che ho calato sul mio passato per isolarlo, ed isolarmi in esso-dividerò teco l'affanno patito e quello che mi rimane a patire-il mio strazio sarà il tuo.

"Ho lottato molto per arrestare questo giorno; oggi mi arrendo, ma fui già vincitore. Io era riuscito ad abituarmi a me medesimo, a questa solitudine che mi era odiosa, a questo martello inesorabile del pensiero che mi raffigurava il mio martìrio; era riuscito a creare una colpa per fare di me un colpevole, e aver diritto di riversare sopra di me l'opera fatale della sorte. Ho provato dei rimorsi, dei rimorsi incessanti, inauditi-e li aggiunsi all'anima mia con compiacenza.

"Di tal guisa ho perpetuato il mio dolore-e me ne tenni lieto. Il mio dolore! Avrei temuto di perderlo, perchè era l'unica cosa che mi rimaneva di Clelia.

"Oggi vi rinunzio. E che altro potrei far io, povera creta? So io che faccio? Posso io dire al mìo cuore: batti più forte, – poss'io dire alla mia mente: raccogliti, sii calma? Oimè! lo sento, qualche cosa si è spezzato nel mio organismo-un nonnulla forse, una mollecola spostata-ma è tutto; io non ritrovo più il filo che dirigeva questo fantoccio-me lo sono lasciato sfuggire di mano-in nome del cielo ditemi dunque se queste sono le mie gambe, se queste sono le mie braccia…"

Raimondo si tacque. Aveva pronunciato con tanta vivacità queste ultime parole, che io lo guardai per un istante atterrito. Non andò guari che egli mi sorrise e proseguì più calmo, ma con accento di mestizia profonda:

–L'ho pensato anch'io, l'ho desiderato, l'ho perfino sognato. Impazzire! rinunziare alle idee-non serbarne che una per tutta la vita, non volere e non potere averne mai, nè un solo istante, un' altra-essere sempre con Clelia, accanto al suo letto di morte, la sua testa incadaverita vicino alla mia, i suoi sguardi immobili fissi nei miei, le sue labbra gelide appoggiate alle mie labbra, e baciarla avidamente, d'un bacio lungo, profondo;… L'ho pensato, l'ho desiderato.

"Ma se la pazzia mi contendesse l'ultimo raggio di luce dell'intelletto, e che non vi rimanesse neppure la memoria! Questo pensiero mi ha atterrito.

"È forse meglio non essere pazzo: posso guardarmi in faccia e domandarmi conto – e penetrare nel mio seno per vedere se le ferite sono sempre profonde, e lacerarle perchè non guariscano. E quando la mia mente avrà cessato di vivere del pensiero di lei, io potrò pagare due scudi perchè s'inchiodi la mia bara; e dire all'anima mia: vattene in pace, non hai più nulla a fare quaggiù-credilo, non ci hai più nulla a fare."

Ammuttolì d'improvviso e si cacciò il capo fra le mani con un moto disperato. Compresi come il risvegliarsi di quelle memorie così tristi lo avesse commosso. Però mi tacqui, pensando che forse ciò gli avrebbe guadagnato un intervallo più lungo di quiete.

Non andai errato nel mio pronostico; e siccome io aveva continuato a guardarlo sott'occhi, vidi ben tosto che egli risollevava il capo.

Aveva il ciglio asciutto, nè vi si scorgeva traccia di lagrime versate; pure egli aveva pianto. Alla guisa del leone ferito che cancella il sangue caduto sulla sabbia del deserto, egli aveva nascosto il suo dolore.

Raimondo aveva del leone e del fanciullo – ruggiva o piangeva. Arcano impasto di gagliardia e di debolezza, le sue guancie conoscevano il rossore della vergine, i suoi occhi avevano i lampi della collera. A quel subitaneo e risoluto drizzarsi della sua testa orgogliosa, a quel guardarmi in volto fisso, alla frequente ansia del suo petto, mi si rivelò tutta la selvaggia natura di quell'anima di fuoco. E pensai quanto dovesse essere grande il suo dolore, perch'ei ne fosse così vinto, quanto grande l'amore che egli aveva educato nel suo cuore per Clelia, e quanto atroce la sciagura che gliela aveva ritolta per sempre.

E tuttavia io non fui pago; e dissi a me stesso che ciò non era tutto, che la battaglia di cui io vedeva le rovine aveva dovuto essere non solo tremenda, ma lunga – che la potenza dell' urto improvviso era grande, ma che il petto di Raimondo vi avrebbe resistito, se una lotta continuata non ne avesse prima travagliato e paralizzato le forze.

Per qualche tempo Raimondo non disse motto; io dal mio canto taceva. Le fiammelle del candelabro guizzavano dinanzi ai nostri occhi, mescendo il loro debole crepito al nostro respiro.

Mi trassi più presso al mìo amico, ed appoggiai le mani sulle sue ginocchia. Egli mi guardò, lasciò cadere il capo un istante, poi lo rialzò d'un tratto, e prese a narrarmi la storia del suo dolore.

XXVIII

"Sono oramai cinque anni-te ne ricordi? Ci separavamo con mestizia, ma senza gran dolore, – la felicità mi facea sentire meno l'affanno della tua partenza-il pensiero di sapermi felice e un cotal poco la compiacenza d'essere tu la cagione della mia pace ti rendeano forse meno amara la solitudine in cui andavi a cacciarti.

Non ho mai dimenticato quel giorno; non lo dimenticherò forse mai; e tuttavia sebbene io tenti talvolta a gran fatica di rappresentarmene agli occhi l'immagine, non so riuscirvi-al mio quadro manca sempre qualche cosa. Che mai? un po' di pallore sulle tue guancie e un po' d'abbandono nei tuoi passi vacillanti forse… no in fede mia non è questo. Io so troppo bene che un pittore non potrebbe aggiungere un solo tocco di pennello a completare la mia immagine-ma tuttavia è imperfetta. Forse è l'anima mia che è monca; forse il velo dietro cui si è celata la mia esistenza è troppo fitto, e il passato che io scorgo attraverso non difetta che di luce. Ah! quest'ombra immensa, questa nebbia che mi circonda, che mi preme come una cappa di piombo, e di cui la mia anima neghittosa si compiace! Invano ho tentato talvolta di sollevarmi, di uscire dalla bigia atmosfera in cui vivo per guardare ancora una volta il sole. E mi sono detto che vi ha forse ancora qualche dolore più grande del mio che trabocca dal petto degli uomini, e che io devo portarvi il mio cuore a raccoglierlo. Ma anche l'entusiasmo del sagrifizio si è spento in me-sono diventato egoista, non già per paura, ma per inerzia-ingeneroso senza essere malvagio; incapace di gran male, ma incapace ad un tempo di bene.

Giammai, io penso, trasformazione più ingrata è avvenuta nella tempra gagliarda degli anni giovanili. La rovere orgogliosa si è spogliata della ruvida corteccia, ha barattato i suoi rami rozzi e tenaci colle pieghevoli fronde del salice che piange senza lagrime.

Talvolta penso che ho torto di lamentarmi-non ho avuto io la mia giornata? – sia pure un'ora sola nella vita, che importa se almeno in quest'ora si ha vissuto? Quanti più sventurati di me non bevettero mai alla coppa della felicità! Ho amato potentemente-fui potentemente amato-l'amarezza ha seguito la pace-e sia-cotesta è la legge degli uomini. Il dolore segue i nostri passi e cammina veloce. Quand'ei ci avrà raggiunto più nulla-tant'è: procuriamo che ciò avvenga più tardi che sia possibile, e sopratutto non voltiamoci indietro per via.

Ma il sillogismo si è spuntato contro il mio cuore codardo; lungi dal ricingermi di forza per resistere e soffrire, ho imprecato alla natura; mi son detto che quando la carriera delle rose è finita, non conviene andar oltre un passo, ma seppellirvisi per sempre-che se il calice non può darci altro che amarezza, la mano dell'uomo deve allontanarlo dalle sue labbra e buttarlo nel mondezzajo, perché nissuno più lo raccatti.

Comprendo quanto egoismo si nasconda in questi principi; e che se pensassero tutti di tal guisa, il mondo rassomiglierebbe ad uno sterminato deserto, e i palagi e le ville sarebbero covili e tane tortuose, e gli uomini serpenti raggomitolati. Ma anche di quest'immagine talora mi compiaccio-e in verità che tra la bava del rettile, e l'adulazione che ci circonda, io non so dire quale più bassa e più oscena-nè se dal confronto l' uomo possa uscirne a miglior partito e col vantaggio dalla sua.

Vorrei poterti rappresentare al vivo lo spettacolo della mia felicità d'un giorno perché tu potessi comprendere lo strazio che ho patito.

Io non so se mai altr'uomo abbia sentito voluttà così intense e tanto profondamente-l'amore, l'abbandono soave e tenero di due anime, quella confidenza totale che accomuna e confonde le esistenze, quel palpito concorde che accende le fiamme del desiderio e avviva la sete perenne di baci. Io ho provato tutto ciò; ed è rimasta nel mio petto un'impronta indelebile di quella vita, e quasi un'eco del passato che vi ridesta a quando a quando un sussulto povero e mesto.

Sì, io fui felice; quant'uomo può immaginare, quanto fantasia di poeta, o sogno d'innamorato può creare. Clelia, il fantasma rosato che io aveva vagheggiato spasimando per tanto tempo, era finalmente mia, fra le mie braccia-era mia, palpitante, carezzevole, lieta delle mie carezze. La nostra vita fu per gran tempo un idilio, uno spasimo dolce, una festa d'amore.

Nei nostri slanci d'affetto ci chiamavamo coi motti più teneri; a poco a poco i nostri stessi nomi si corruppero nelle nostre labbra in cento vezzeggiativi, e ne vennero fuori due parole bizzarre, senza senso, ma che per noi ne avevano uno dolcissimo. È con quel nome strano che io la chiamo nei vaneggiamenti delle mie notti insonni, e mi pare ch'ella risponda alla inia voce e che susurri alle mie orecchia in una favella misteriosa la sua risposta.

Ci eravamo abituati al piacere d'essere insieme, di vederci ad ogni istante, e tuttavia noi sapevamo rinnovare tutti i giorni al nostro cuore lo stesso giubilo, colla stessa potenza di vita, colla stessa frenesia; insaziabili sempre l'uno dell'altro, quando eravamo lontani ci pareva d'essere incompleti. Le più strane e sciocche paure si affollavano nella mia mente s'egli avveniva che io dovessi separarmi per poco da lei; diffidavo della mia felicità; parevami che il più leggiero soffio l'avrebbe fatta svanire.

Quando eravamo dappresso deliravamo di contentezza; se mi accadeva d'uscire un istante, essa correva al balcone per seguirmi collo sguardo-e siccome sporgeva il corpo dal davanzale per vedermi più a lungo, io mi voltavo cento volte trepidante, e le faceva segno di ritirarsi. Ella sorrideva, i passanti ci guardavano e sorridevano anch'essi-ma quel riso non mi feriva. Ed io penso che gli uomini si affannino invano per avvelenare col ridicolo la felicità degli amanti, e che faranno invece assai bene ad arrestarsi a benedire e a scongiurare il nugolo dalle loro teste-nè mai voce di preghiera sarà salita tanto alto, però che l'ara benedetta dell'amore darà vita alla famiglia che è cosa santa.

 

In casa eran cento follie-me la toglievo spesso sulle braccia alla sprovveduta, e con quel fardello correva pelle camere ansante. Ella mandava un piccolo grido di sorpresa; poi appoggiava il capo sul mio omero e lasciava pendere le braccia dietro le mie spalle frammettendo al continuato scoppiettio delle sue risa, alcuni accenti di rimprovero più dolci delle carezze. Il più spesso io arrestava la mia corsa d'innanzi ad uno specchio, perchè potessi vedere più al vivo lo spettacolo della mia felicità e compiacermene. Allora ella coglieva il momento per scivolarmi tra le braccia, e fattomi un bacio, e dettomi: "cattivo" se ne fuggiva nelle sue camere, giurandomi con una grazia adorabile che non l'avrei colta più mai.

A tavola gli era un perturbamento quotidiano di tutte le leggi della simmetria gastronomica. Il nostro cuoco, uomo che si teneva molto del suo ministerio, s'adoperava con molto garbo a disporre in bell'ordine la nostra mensa, e poichè non eravamo che due, Clelia ed io, egli pretendeva, non so per quali regole euritmiche, di collocarci dirimpetto l'uno all'altro. Ora siccome la tavola era ampia, avveniva che noi nell'ora di pranzo eravamo in certo modo separati bruscamente. La prima a sottrarsi a questa catena fu Clelia, e un bel giorno alle frutta abbandonò il suo posto e mi s'assise d'accanto. In seguito fummo entrambi-per il primo quarto d'ora stavamo alle leggi del cuoco; ma non più oltre.

Charruà ne era lietissimo; ma il cuoco, sebbene si adoperasse a fare anch'egli tanto da parerlo, in fondo in fondo ci soffriva, e non andò molto che si dimise dalle sue funzioni-nè io saprei immaginare altra causa se non quella del poco rispetto alla sua scienza.

Insisto su questi particolari perchè mi pare di gustare ancora quelle gioie e respirare il profumo di quella pace.

Il viaggiatore che attraversa per la prima volta il deserto, appena è se si arresta alle poche oasi che incontra, però che egli ne ignora l'eccellenza-ma quando le sabbie ardenti e i raggi del sole gli hanno appreso la durezza del cammino, egli ripensa con desiderio al tetto che lo copriva; e se mai gli avviene di avventurarsi per le stesse vie, ricerca avidamente il povero rezzo della palma, e non sa abbandonarlo senza un sospiro."