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Due amori

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XIV

Il mio amico s'era posto sulla via delle arditezze; al giorno successivo, dopo che ebbe rimuginalo mille progetti in mente, prese il partito di scrivere a delia.

Ecco la sua lettera.

"Io sono una specie di selvaggio, un essere che sta tra il nuovo e il vecchio mondo, ma che non appartiene a nessuno dei due. Voi dovete ricordarvi di me, perchè so d'avervi raccontato le mie peregrinazioni fra le tribù indiane.

"In quel racconto v'ha un mistero, qualche cosa che non era nei miei viaggi, ma traboccava nel mio cuore e voleva corrermi alle labbra.

"Sappiatelo adunque: io vi amo.

"Non vi offendete di questa confessione e della ruvida franchezza con cui la faccio.

"Non deridete il mio orgoglio. Io ho fatto di tutto per vincere me stesso, per soffocare una passione senza speranza.

"So di non essere avvenente, di non potermi appigliare a nulla per accarezzare l'ambizioso sogno d'essere amato da voi.

"E so pure che l'anima vostra è bella, che il vostro corpo è leggiadro, che l'abisso dei vostri occhi è profondo.

"Tuttavia io vi amo.

"Ho scongiurato con ogni mezzo questa sciagura; ho pianto ed imprecato; ma il mio culto s'è ingrandito ogni giorno nel mio seno, e la stessa lontananza volontariamente impostami, ha ravvivato nel mio pensiero la vostra immagine.

"Una volta posto il piede nell'abisso, vi si è attirati da un fascino misterioso. Ah! voi non sapete quanto l'abisso dei vostri occhi è profondo.

"La mia colpa adunque, se pure io ne ebbi mai una, è quella di avervi veduta- ma anche il non vedervi non era in mie mani.

"Vedervi e non amarvi-guardare il sole e non esserne illuminati. – Impossibile, impossibile.

"Che potrebbe egli fare un uomo? Distoglierne le pupille… tant'è: il calore che gli sferzerebbe la fronte risusciterebbe nelle sue tenebre la luce.

"Così io potrei rinunziare a voi, e non vedervi, e non parlarvi; ma non potrei rinunziare alla memoria di voi; non potrei rinunziare al mio amore, a questo amore che è cosa mia, perchè io l'ho nutrito nel mio seno e mi dà vita.

"Potreste fuggirmi-io non cercherei di raggiungervi; dappertutto ove io andassi, mi seguireste egualmente. Io vi ho collocata nel più lucido orizzonte della mia intelligenza; colà mi sorridete e vi sorrido, mi amate e vi amo, siete mia.

"Cotesta vi parrà audacia; fors'anco impertinenza- pensatelo pure inesorabilmente, ma pensate pure che è amore. "Vi ho dato il mio segreto. Se voi sorriderete del mio orgoglio, o compiangerete la mia sciagura, non so. Forse l'una cosa e l'altra insieme; poi che il mio orgoglio è grande, ma non meno grande la mia sciagura, e forse più grande la bontà del vostro cuore…

"Quest'ultima idea ravviva in me una speranza.

"Più vasta dei deserti, sconfinata come la distesa dei mari, inesplorata come le vie degli orizzonti, è la speranza. L'anima dell'uomo si fa gigante in essa.

"Io spero.

"Un vostro cenno, e m'avrete schiavo; un vostro cenno, ed io fuggirò dal vostro sguardo; mi ricaccierò in quelle inospiti terre che mi han visto per tanti anni.

"Porterò fra quei selvaggi raminghi l'immagine mesta e bella di colei che ha fatto battere la prima volta il mio cuore, e ne popolerò la mia solitudine.

"Ma avrò il coraggio d'affrontare la mia sorte, poichè l'anima dell'uomo sa essere gagliarda nel dolore."

Raimondo riuscì a far pervenire questa lettera a Clelia in quello stesso giorno. Com'ebbe compiuto questa impresa, si sentì venir meno tutte le forze: almanaccò sulla riuscita, e ne trasse motivo di sconforto. Parevagli d'aver troppo oltre spinto la sua baldanza, ed ora d'aver pallidamente dipinto il suo stato, ed ora d'essersi reso ridicolo. Per due giorni fu nuovo strazio. Al terzo giorno ricevette per posta questa lettera di Clelia.

"Signor Raimondo.

"Apprezzo i sentimenti che vi hanno inspirato la vostra lettera. Voi siete un uomo leale e mi parlate il linguaggio della franchezza e della modestia.

"Non v'imiterò nella modestia; non tenterò neppure di farlo perché non saprei riuscirvi; le donne sono molto più vanitose degli uomini-e voi forse degli uomini il meno vanitoso. Ma l'esempio della vostra candidezza deve essermi scuola; io devo mostrarmi a voi quale sono, colla verità sulle labbra.

"Non è un mistero che io vi andrò rivelando, non è neppure un segreto; ma è cosa che non si palesa che a chi ha diritto di farcene domanda-ed io penso che voi lo abbiate. Se l'affetto che voi dite di nutrire per me non è mentito, nè io vi credo capace di simulazione, è mio dovere farvi conoscere il mio passato.

"È una storia semplice e mesta, come se ne ascoltano tante; ma forse l'animo vostro ne andrà profondamente mutato.

"Voi, signor Raimondo, avete avuto una madre.

"Non è egli vero che è una buona creatura la madre?

"Si ricordano le sue carezze e i suoi baci, e i suoi dolci rimproveri che vanno ai cuore-e s'intende risuonare per lungo tempo all'orecchio l'eco d'una canzone del paese natale che la poveretta canticchiava daccanto alla culla-e pare sempre di vedere un viso dolce chino sul guanciale. Oh! la è pure una buona creatura la madre!

"Il padre è più accigliato, più severo, ma affettuoso anch'esso. Egli ha sgridato talvolta il suo piccino; aveva una voce robusta che incuteva un po'di timore, ma quando veniva dal suo lavoro, si lasciava frugare nelle tasche. Il buon uomo le aveva riempite a bella posta di zuccherini per far felice il suo bambino. Egli avea del criterio fino il povero padre, e sapeva che in quell'età i zuccherini fanno felice.

"Non è egli vero, signor Raimondo, che dovrebbe essere un gran dolore se ci si togliesse d'un tratto la memoria degli anni infantili, se spingendo lo sguardo nel nostro passato, noi non potessimo arrestarci sopra l'occhio sereno dei nostri poveri genitori?

"Cotesto dolore io l'ho provato. Non conobbi mìa madre; ella morì troppo presto perchè io potessi serbarne memoria. Mi dissero però ch'era bella, ch'era giovine e poveretta, che aveva pianto tanto, e che prima di morire volle baciarmi. Io l'amo molto mia madre; la sogno sovente, ma in un modo confuso, diverso da tutto ciò che si può vedere nella vita, diverso anche da ciò che si può immaginare. Però quando mi sveglio io non serbo più la memoria di quel fantasma.

"Di mio padre so nulla; da principio credeva che io non lo avessi mai avuto; mi assicurarono però che Iddio ne dà uno a tutte le sue creature.

"Le mie memorie più remote risalgono a quattordici anni fa. Io aveva allora quattro anni; mi ricorda d'una bella signora, assai bella, che io chiamavo mamma, e mi baciava e mi regalava dei confetti perchè io la chiamassi con quel nome.

"Tutti gli altri la salutavano con rispetto-io sola sedeva sulle sue ginocchia.

"Altra persona di cui serbo memoria, era un uomo abbastanza vecchio, ma assai robusto, almeno per quanto pareami allora, il quale mi sollevava di terra con una mano sola e mi reggeva seduta sulla palma e mi portava di stanza in stanza fra le risa mie e i paurosi rimbrotti della mamma.

"Quest'uomo è oggi il generale R., quella donna era la marchesa sua moglie.

"Venendo più in giù, trovo la memoria d'una notte mesta. Non erano ancora due ore da che io ero stata messa a letto, che un affaccendarsi di servi per le camere mi destò all'improvviso. La mamma era stata colta da paralisi; si agitava convulsivamente sul suo letto senza parlare-i medici tentennavano il capo sfiduciati. Dopo alcune ore di spasimo, la poveretta morì.

"Così rimasi sola col generale. Fui posta in un collegio e vi passai ìa vita fino a sedici anni; poi mi ricongiunsi al mio benefattore.

"Eccovi il mio romanzo. Se devo giudicare dal concetto che io mi sono fatto di voi, non avrò a temere che sia per scemare la vostra stima a mio riguardo.

"La vostra stima, la stima degli uomini che vi assomigliano mi basta.

"CLELIA."

Raimondo venne a me ebbro di gioja. Mi fe' leggere la lettera di Clelia, e mi ripetè cento volte che egli era il più felice degli uomini.

Se non che non sì tosto fu quetato in lui il primo impulso di letizia, e il suo cuore venne in certa guisa abituandosi a quella felicità da prima insperata, che la naturale incontentabilità degli amanti risvegliò mille timori da capo, e diè vita a pretese fino a quel punto ignorate.

E sì rifece a rileggere quella lettera da cima a fondo per rintracciarvi smaniando una parola di conforto. Indarno io tentai di ridonarlo al suo giubilo persuadendolo che l'avergli scritto, l'avergli confidato il suo passato, l'avergli detto d'apprezzare i suoi sentimenti, non poteva essere un atto di pura cortesia.

Egli non mi contrastava in questo, s'ingarbugliava con mille parole, ma finiva per crollare la testa sconfortato. M'accorsi che aveva fatto un passo innanzi, e non contento che Clelia accettasse l'amor suo, pretendeva d'ispirargliene, anzi d'avergliene inspirato; e poi che conosceva l'assurdità delle sue pretese, soffriva per non dirlo.

Provai a dirgli come io pensassi che già prima Clelia si fosse presa di lui, e come l'avessi vista ad arrossire quando egli era apparso nelle sale della contessa, e come avessimo parlato di lui, e Clelia avesse ascoltato assai attenta. – Di cotal guisa conobbi la verità del mio sospetto; Raimondo stesso dovette confessarmi che quella lettera gli era parsa insufficiente, che essa non gli diceva quali sentimenti avesse egli suscitato nell'animo di Clelia.

Riconfortato dalle mie parole, ma più ancora dallo stesso bisogno che egli sentiva di speranza, afferrò una penna e scrisse a Clelia in questi termini:

"Vi ho benedetta per il bene che mi avete fatto. La vostra confidenza ha alimentato le mie illusioni. – Io posso ancora sperare d'essere amato da voi. Così vi ripeto un'altra volta: "Volete voi esser mia?" Un solo cenno e volerò ai vostri piedi.

 

"RAIMONDO."

Clelia rispose il giorno successivo:

"Il generale mi ha parlato di voi; stima l'indole vostra, quasi direi che vi ama. Ciò mi ha fatto piacere. Gli ho mostrato la vostra lettera, ed ha sorriso.

"CLELIA."

Raimondo non attese un minuto, e replicò:

"Che il generale mi stimi, e mi ami, e sorrida delle mie lettere, è cosa lusinghiera. Ma in nome di quanto avete di più caro al mondo, ditemi: volete voi esser mia? posso io lusingarmi d'avervi inspirato una favilla sola di questa fiamma inestinguibile?

"RAIMONDO."

A quest'ultima lettera non ebbe risposta.

Aspettò alcuni giorni-lo stesso silenzio. Venne a me col volto contristato.

–Credimi, gli dissi io; va a far visita al generale.

–A che farci? mi domandò imbroncito.

–Credimi, va a far visita al generale.

Quel giorno stesso Raimondo andò a far visita al generale.

XV

Otto giorni dopo, il mio amico era in grandi faccende. Mi chiamò a sè e mi recai nella sua abitazione. Lo trovai in mezzo ad una faraggine di mobili e di tappeti. Appena mi vide, mi venne incontro-il suo volto spirava la gioia. Raccomandò a Charruà sorvegliasse alle opere degli artefici, e mi trasse nella sua camera.

Non ebbi tempo d'interrogarlo, che egli mi pose a parte con una parola della sua felicità: sposava Clelia.

Pensate se n'era lieto. Aveva fatto addobbare di nuovi arazzi le camere; aveva cercato d'indovinare quanto poteva riuscire gradito ad una donna, e lo aveva accumulato con ogni cura nelle sue sale. Egli aveva ancora la testa piena di progetti; qua era una statuetta da collocare, colà un amorino, una tenda, uno specchio.

Guardai fisso Raimondo-l'anima gli brillava nel volto; mi pareva un altro uomo.

La gioia e il dolore ci trasformano e si contendono bizzarramente il dominio dello spirito.

Alla sera volle lo accompagnassi dalla contessa. Da qualche giorno io l'aveva trascurata; però acconsentii volentieri.

Clelia e il generale vennero anch'essi. Ogni mio studio fu di penetrare nell'animo di Raimondo e di vedere se la sua guarigione era sicura, e se non fosse a temersi una ricaduta nelle prime melanconie. Ma ogni mio dubbio cessò ben tosto.

Assolutamente la felicità ci trasforma-assolutamente la felicità è nell'Amore.

Com'ebbi così conchiuso, salutai la contessa, il generale e la signorina Clelia; strinsi la mano a Raimondo, e lusingato del buon esito della mia cura, andai a cacciarmi fra le coltri.

Io non amavo, però dormii sonni profondi; e siccome la contentezza di Raimondo si rifletteva nel mio cuore, sognai che avevo una bella, e che la mia bella mi faceva una carezza.

XVI

Di quei giorni m'ammalai. Da gran tempo mi aspettavo a questo; avea preveduto il mio male, lo avea sentito serpeggiare per le vene, e mi ci ero rassegnato. Il medico ne fece carico ai nervi, ed io penso che non s'ingannasse. Sorpreso a quando a quando da tremiti improvvisi alle gambe e sentendomi ogni dì più debole, fui costretto a tenere il letto. La mia ripugnanza per quell'inerzia forzata cui era condannato mi fece parere insopportabile quel supplizio. Siccome però la mia testa era libera, e la mia intelligenza conservava la sua lucidità, a poco a poco mi abituai.

Raimondo era venuto ogni giorno a vedermi. Un dì venne a me più lieto del solito. Tutto era pronto; fra otto giorni Clelia sarebbe stata sua. Siccome io gli presi la mano e gli sorrisi con tristezza, egli mi baciò in volto.

–Tu interverrai alle mie nozze, mi disse con accento di fiducia.

–Lo credi? domandai con quella ingenua speranza che è propria degli infermi.

–Ne ho la certezza. Mi pare perfino che tu oggi stia meglio; ti trovo meno pallido.

Non era vero che io stessi meglio, e se il mio viso non era pallido conveniva accagionarne una febbricciatola lenta che da alcuni giorni non mi abbandonava un'istante. E tuttavia io mi lasciai andare assai facilmente alle illusioni; ne aveva bisogno.

Alla vigilia del matrimonio di Raimondo volli provare a farmi forza, e balzai da letto. Non avea mosso due passi, che mi si piegarono le ginocchia e dovetti appoggiarmi per non cadere. Il pronostico di Raimondo andò fallito: io non assistetti alle sue nozze.

In quello stesso giorno venne il medico; trovò che io stava meglio, ma ad assicurare la guarigione consigliavami i bagni di mare. La stagione era propizia; confortavami ad affrettare; sperava il mutamento d'aria avrebbe contribuito a ridonarmi la salute.

Ne feci parola a Raimondo e sebbene gli dolesse che ciò mi avrebbe allontanato da lui per qualche tempo, approvò l'idea del medico. Determinai adunque che non appena mi fossi potuto reggere in piedi sarei partito per Genova.

Tre giorni dopo potei fare alcuni giri attorno alla mia camera senza l'aiuto del bastone; non aspettai altro-il domani sarei partito.

Charruà venne, com'era uso, a chieder mie notizie.

Feci conoscere per mezzo suo a Raimondo la mìa risoluzione, e come fossi dolente di non poter salutare prima della mia partenza la sua sposa; avrei aspettato lui, e mi sarei servito del suo braccio.

Il mattino successivo assai di buon'ora Raimondo e Charruà erano nelle mie camere. Simplicio, il portinaio, era salito prima ancora da me e m'avea preparato le valigie ed aiutato a vestire; così che in un istante io fui spiccio, e col sostegno del mio amico e di Charruà scesi le scale.

Una carrozza era ferma; feci per salire, e una mano candidissima uscì dallo sportello per aiutarmi; guardai dentro con occhio di meraviglia-era Clelia.

Non dirò la mia sorpresa, nè se più grande fosse in me la riconoscenza o il piacere.

Mi fece sedere al suo fianco, mi domandò della mia malattia, e dissemi con accento di sincerità che se n'era afflitta anch'essa-così dicendo guardava con tenerezza il suo Raimondo.

Compresi come essi fossero felici, e quanto intensamente si amassero. E per una antitesi naturale mi portai col pensiero a quei giorni di tetra mestizia che tanto aveano impoverito l'anima di Raimondo. Quale diversità nell'espressione dei suoi sguardi, e quale nuova e soave armonia nelle linee tranquille del suo volto! Dove era il segreto della sua pace, dov'era il culto che gli mancava, il tempio in cui rinverdisse la sua fede inaridita? Egli l'aveva cercato da per tutto, fuorchè nella sua casa. Ed ecco l'angiolo della sua casa gli aveva sorriso, e gli aveva dato un cuore vergine e un affetto sereno invece delle lusinghiere e fallaci passioni della colpa.

Poc'anzi la solitudine colle sue paure, colle sue ire, coi suoi dubbii perenni; oggi un viso amoroso che si specchia nelle sue pupille, un corpo snello e pieghevole che si serra al suo petto, un cuore che battè col suo-due sguardi, due sorrisi, due anime che si confondono.

Non più quell'eterno smaniare, quel portare dappertutto la noja, quel domandare ad ogni cosa l'amore e riceverne il cinismo. Il mondo gli apriva le sue sale dorate, quelle sale ripiene di mille incantesimi, di mille follie, quelle sale dove s'incontrano uomini che, stringendo la mano e bisbigliando all'orecchio di ognuno la maldicenza, offrono a tutti una larva d'amicizia; e donne dagli sguardi infuocati, dai sorrisi affascinanti che barattano con essi una larva che chiamano amore-egli ne ha ritirato il piede. Poteva carpire cento baci di fuoco che ardono e distruggono, e s'appagò di quell'uno che purifica. La virtù, la pace, la felicità erano nella scelta-ecco il segreto che ha trasformato Raimondo.

Per via io guardava Clelia con un sentimento di mestizia indefinibile. Era pallida e bella, di quella bellezza buona che è l'ideale dell'artista.

Chi si è sentita in petto una inspirazione, ed ha vagheggiato lungamente un tipo, ed ha creduto rinvenirne le forme nelle perfezioni della materia, colui non strapperà giammai all'arte il suo segreto. La natura lo ha creato copista e farà bene a non guardare più in là. Il mondo delle cose ha le sue rivelazioni, ma sono limitate, imperfette nella loro immensità. Un frammento di colonna che toccasse le nubi non sarebbe tuttavia una colonna.

Il mondo delle idee si perde nel cielo; l'arte, che è figlia del cielo, sarebbe cosa morta senza l'idea che le soffiasse dentro il fuoco divino.

La bellezza è la perfezione della materia-la bontà è la perfeziono dello spirito-bellezza e bontà unite sono la perfezione dell'arte.

Io guardava Clelia con espressione di mestizia-giovine, bella, amata; che mancava alla sua felicità? Non sapevo dirlo a me stesso; vedeva la sua letizia, la dolce serenità dei suoi occhi, udiva il suo gajo cicaleccio, e tuttavia parevami che io dovessi compiangerla, e venianmi dal cuore non so quali indistinte parole di conforto.

Mi par oggi, e son passati tanti anni, che io le diedi quell'addio, e che, stringendomi la mano, essa mi rispose: a rivederci. E si fermò sulla parola, dicendomi come sperasse che ciò sarebbe stato assai presto.

"Dipende da voi" aggiunse-e fu l'ultima sua parola.

"Dal cielo" pensai.

In quella fu dato il segnale della partenza. Mi gettai nelle braccia di Raimondo, salutai ancora una volta delia, e partii.

XVII

Una sera io me n'andava errando lungo la spiaggia. Da qualche tempo i miei nervi mi permettevano le lunghe passeggiate; direi anzi che le esigevano. Avea volto le spalle ai rumori della città e muoveva lento verso San Pier d'Arena. La brezza marina increspava leggiermente le onde che a volta a volta si spingevano a lambire i mìei passi distratti; io era mesto d'una mestizia dolce che assomiglia a contemplazione, e che non ha nulla del dolore.

Quando mi sentii stanco, m'inerpicai sopra uno scoglio e m'assisi.

Ricordai allora ciò che il signor S. aveami detto la sera innanzi dell'isola di Sardegna, e il suo invito di recarmivi con lui per alcuni giorni. Ma poichè tutta quella notte io m'ero travagliato con codesto martello, e n'ero uscito saldo come prima nel mio proposito di non ritornare mai più alla mia patria, volli respingere questo pensiero e sorriderne. E così feci; e per meglio riuscire, volli divagare il mio pensiero, e girai gli occhi all'intorno per trovare qualche cosa che mi suggerisse nuove idee.

La spiaggia era deserta, sabbiosa e seminata di conchiglie, quelle stesse conchiglie che fanciulletto io raccoglieva nei lidi solitarii deila mia patria. Il mare frangeva il suo lamento sovra gli scogli con ritmo severo, come l'aveva udito per tanti anni. Così io mi vidi riportato alla mia infanzia-la mia infanzia era la mia patria. E allora mi parve che io fossi un ingrato; e pensai che quella terra ch'io fuggiva m'avea pure data la luce, e m'avea nutrito coi frutti delle sue selve feconde. Né a me che avea respirato le sue aure profumate d'aranci si conveniva di rinfacciarle le sue miserie, fruito più di sventura che di colpa.

Però da quel punto seguii senza resistervi il corso dei miei pensieri.

Mi ritornò alla mente il volto sereno di mia madre, e i suoi grand'occhi neri-e i fili d'argento che incorniciavano la fronte rugosa della povera nonna, la vecchia amica della primissima mia vita. Ripensai i tripudii sognati sulle sue ginocchia, e le cento storielle delle bigie notti d'inverno, e i fantasmi del focolare. Salii le note scale, mi aggirai per le note stanze del tetto che mi avea visto nascere, e rividi i volti noti che m'aveano prodigato i loro sorrisi. Udii lo scampanare che mi destava ridente nel mio letticciuolo e le grida assordanti, e lo sparo dei mortaretti che festeggiavano la buona santa del villaggio; e vidi riversarsi per le vie sassose una folla variopinta, vestita a cento fogge, sorridente e gaja come una mattinata d'aprile.

–Così dunque io non rivedrò più quei luoghi che serbano tanta parte di me medesimo; io non vedrò più le figure abbronzate dei miei compaesani, non percorrerò più quelle vie, non udrò quelle canzoni e la nenia di quelle cetre notturne. E non sarebbe certamente un gran disagio l'andarvi. Quindici giorni; che sono essi quindici giorni per un artista che non ha altra legge che il suo capriccio?

–Vediamo-non è che fantasticare, ci s'intende, io ho giurato di non andarvi e non ci andrò. L'ho giurato! A chi? Perchè l'ho giurato? e qual danno se io mancassi al mio giuramento? Non è che io voglia patteggiare colla mia coscienza; ma in fede mia se io non ci andrò, non è certamente il mio giuramento che deve arrestarmi. Io partirei domani col signor S. – quel signor S. è una buona persona, che mi ha dell'affetto; per viaggio non sarei solo. Arriverei fra tre giorni, rivedrei qualche amico, e lo troverei mutato, rovisterei dapertutto ove io sapessi celata qualche corda che potesse risvegliare un'armonia sopita nel mio cuore; visiterei come in mesto pelegrinaggio la mia vecchia casa una volta popolata da tante fantasie-e i tugurii dei poverelli che erano un tempo gli amici della nonna-e vedrei forse aprirsi quelle porte tarlate alla notizia del mio arrivo, e venirmi incontro qualche vecchierella che si ricorderebbe di avermi portato in braccio, per baciarmi sulla bocca. Poi m'inoltrerei per un mesto viale, e salutate le mura di un solitario ricinto, andrei silenzioso a ricercare la tomba de' miei cari per appoggiare sovr'essa la testa e deporvi una ghirlanda… però che io non dormirò l'ultimo sonno accanto a te, povera madre mia.

 

A poco a poco era scesa la notte; il mare fremeva languidamente alla guisa d'un cuore innamorato che si stringe al petto della sua donna-la notte è la negra amica del mare.

Mi ritrassi dalla spiaggia e ritornai sui miei passi.

–Oibò, conclusi dopo alcune ore dacchè andavo voltandomi e rivoltandomi sui fianchi nel mio letto; oibò! io sto saldo come una piramide; non ci andrò. E giuro che se questa dannazione mi dura ancora, io farò le mie valigie all'alba, e fuggirò questa città senza voltarmi indietro.

–Io fuggirò questa città senza voltarmi indietro, ripetei un'ora dopo.

–Per via di mare, bisbigliavami il mio demonio.

–No, in fede mia, viaggerò per terra. E partirò senza neppur vederlo questo signor S. a cui devo tanto supplizio.

–Ma egli se l'avrà a male.

–Tanto peggio per lui.

–E partirà senza i tuoi augurii-e pensa se il mare gonfiasse le sue tempeste.

–Buon per me che avrò evitato il pericolo.