Za darmo

Due amori

Tekst
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

–Giuseppe, risposemi; e pareva titubante e vergognoso di nome tanto volgare.

Poco stante trovò mezzo di riappiccare il filo e di parlarmi ancora dei cavalli e dell'oste suo padrone; e com'ebbe finito di lavare il carrozzone, levandosi ritto: – Che ne dite di Veloce? – mi chiese.

Nè io seppi davvero dirne nulla: ma pensando ad Ercole, a Minerva, a Narciso, non poteva certamente andare molto errato nel pronostico del mio viaggio.

* * * * *

Io aveva aspettato senza impazienza fino a quel punto; ma quando, come vollero i fati, il pesante carrozzone fu sull'avviarsi, ed io mi trovai rannicchiato nel mio sedile accanto ad un corpulento abate che pareva occupatissimo a distaccare con uno stecchetto gli avanzi della colazione rimastagli fra i denti, soltanto allora, volgendo l'occhio all'intorno, ripensai allo scopo del mio viaggio, e mi parve di vederlo miseramente fallire. E in un baleno m'accorsi che tutte le potenze dell'anima mia stavano per insorgere tumultuanti a farmi rimprovero della determinazione presa; nè io sapeva più a qual santo votarmi per scansare la taccia d'avventatezza che parevami incominciassi da senno a meritare.

Ma in buon punto a sviare la direzione dei miei pensieri, il carrozzone si mosse. Eran trabalzi d'ogni maniera; però vedendo dondolare al mio fianco l'enorme abate, e ad ora ad ora sentendomi attratto da qualche improvvisa scossa verso di lui, non potei frenarmi dal ridere. Tutti i viaggiatori, quale più quale meno, imitarono il mio esempio; solo il ministro di pace rompeva la monotonia di quell'ilarità con esclamazioni assai vivaci all'indirizzo dei santi del Paradiso. E i santi del Paradiso gli usino venia, però che neppure in fede d'uomo di lettere io potrei giurare che fossero rosari. Ma se non erano rosari quelli dell'abate, i trabalzi non erano certo benedizioni del cielo-e se la rassegnazione è una santa virtù, non bisogna poi porre un buon diavolo a cimento di perdere il suo latino. Da che mondo è mondo alla integrità del proprio cranio ogni uomo che ci abbia dentro del cervello ci tiene un pochino, e ad una buona digestione forse altrettanto-non parlo del ridicolo, chè a nissun conto, ch'io mi sappia, v'ha chi voglia torselo santamente sulle spalle. Ora il povero abate vedeva la sua digestione e il suo cranio compromessi; e con quel suo viso da luna piena, e con quella pancia che pareva il rifugio dei sette peccati, era proprio follia pensare che il nostro riso non lo toccasse da vicino.

Giuseppe dall'alto dell'imperiale sacramentava anch'esso contro la cattiva selciatura delle vie-ma io penso che non fosse così rabbioso come voleva parere. Però forse non aveva torto, poichè come si fu usciti fuori di città, il moto della nostra arca si fece più regolare.

Nè io ebbi tempo di fare quest'osservazione, che i cavalli si arrestarono.

–Essi vorranno pigliar fiato, pensai.

Ma questa volta era una calunnia che quei poveretti non meritavano-e come l'ingiustizia mi fa ribollire le vene-e più se io ne sono colpevole-fermai da quel punto di farne ammenda con tanta buona moneta di pazienza per lo avvenire. Proposito non inutile, senza dubbio-e chi ha viaggiato in diligenza può asseverare.

Erano due nuovi viaggiatori che venivano ad aggiungersi. E qui il cuore mi battè con violenza, però che io riconoscessi subito in uno di essi il mio vecchio amico della sera innanzi. Egli veniva a passi lenti, colla testa ricurva ed appoggiato ad un grosso bastone di nocciuolo. Altri arnesi fra le mani non aveva. Non mi vide o non mi conobbe sulle prime; ma quando gli porsi il braccio perchè vi si appoggiasse a salire, ed egli levò gli occhi per ringraziarmi, sentii la sua mano tremare nella mia, e giudicai che fosse commosso. Altro indizio non lasciò parere. Poco stante la carrozza partiva al piccolo trotto infilando la via postale di V… con uno zelo che in due povere rozze poteva credersi miracolo.

Il signor Antonio-non lo conobbi mai con altro nome-era seduto in faccia a me e mi guardava sott'occhi con mestizia.

–Voi qui? mi disse dopo breve tratto con accento tra domanda e meraviglia.

Gli risposi esponendogli il fatto mio-e come io intendessi recarmi ad M… dove mi chiamava un amico da gran tempo.

–Ad M…! interruppe egli; ma voi siete fuor di strada; noi andiamo a V…

–Non monta. Farò il giro. Le colline di V… sono amenissime e vi si trovano spesso le pedate della lepre. Aggiungete che io avrò la fortuna di fare il viaggio con voi.

Siccome questa era la vera ragione, io l'aveva posta ultima e come per incidenza; ma il vecchio comprese assai bene, e mi parve intenerito. Mise la testa fuori dello sportello, poi voltossi e presemi la mano. E me la strinse con tale una espressione di dolcezza riconoscente negli occhi, che il suo volto pallido ne fu ravvivato. Non disse motto, e parve ricadere nelle sue meditazioni. Io mi rannicchiai nel mio cantuccio, e così raccolto seguitai ad indagare su quella fronte severa, su quel volto nobile e dignitoso, le traccie d'un passato sconosciuto. In quel fantasticare senza legge io provava come un sussulto, come qualche cosa che mi parlasse d'un mondo lontano-riannodavo a quell'esistenza immaginaria mille fila diverse, mille memorie che io indovinavo in quel punto. E mancò poco che io non mi credessi un altro uomo, con altre passioni, con altro corpo, con altre idee-ma non con altro cuore; avvegnacchè io lo sentissi palpitare colla stessa misura, e comprendessi istintivamente che io serbava la stessa essenza perchè serbava lo stesso cuore. Lo stesso cuore! Buon Dio, e chi è mai che vorrebbe mutarlo? sapremmo noi rinunziare alla sola parte di noi che veramente ci appartenga-alla sola parte che noi abbiamo fatto uscire vincitrice dalla battaglia delle passioni-alla sola parte che, soccombente, serba alla memoria le traccie funeste della disfatta? Ho sentito spesso esclamare: "quante ricchezze! che nome illustre! quale avvenenza di forme! che bello spirito! oh! perchè la natura non mi ha dato altrettanto!" E m'avvenne pure di udire: "il tale ha un gran cuore, un cuore generoso;" ma null'altro-l'invidia s'era arrestata; non aveva osato varcare la barriera dell'anima, concepire col desiderio la distruzione della propria natura, la rinunzia del proprio cuore.

Un raggio di sole penetrando attraverso i vetri venne a battermi sugli occhi. E mi ridestai allora dalla mia estasi; e compresi come un lungo viaggio della fantasia sia il miglior farmaco per lenire le noie d'una corsa dispettosa in diligenza. Ma nel caso mio mi rammaricai d'essermi in siffatta guisa distratto, da dimenticare quasi il mio vecchio compagno. Egli era tuttavia pensieroso; appoggiava il mento sulle mani, e chinava gli occhi al suolo. Senonchè tratto tratto risollevava il capo con un moto risoluto; ed allora io vedeva, o mi pareva vedere nel suo ciglio un lampo di luce che, alla guisa di scintilla fra mezzo a ceneri spente, mi rivelava tutto il fuoco giovanile del suo passato. Ma ben tosto la scintilla moriva, e un pallore subitaneo copriva quel volto che un tempo aveva tradito tante interne battaglie, e su cui non doveva più mai specchiarsi altro che la calma e la rassegnazione-queste melanconiche e povere rovine della vita.

Come fummo giunti alla salita di V… le due povere rozze s'arrestarono di botto. Il corpulento abate ne fu mezzo subissato e ringhiò fra i denti un cotal suo Cristo abituale, che provava chiaro come la tonaca e il seminario non gli avessero istillato la santa virtù della pazienza. E siccome egli cominciava a farci una trista figura-e se n'accorgeva-fu il primo a porre il piede sul predellino e lasciarsi scivolare, meglio che discendere, sulla via. Secondo il costume tutti i viaggiatori ne imitarono l'esempio; così che a capo di pochi minuti io mi trovai solo col signor Antonio-però che l'età senile lui, la promessa d'una mancia me avessero dispensato da quel faticoso inerpicarsi a piedi, di che una caritatevole gentilezza avea introdotto l'usanza, e l'usanza la legge.

Io aveva contato con fiducia su quel momento per appiccare il discorso col mio misterioso compagno; ma mi tocca confessare che, nonostante l'esperienza del giorno precedente, io mi sentiva così come allora impacciato e dubbioso, se pure quanto io aveva già potuto apprendere sull'indole del mio personaggio, crescendomi l'interessamento, non avevami ad un tempo cresciuto l'imbarazzo. E so che ruminai un pezzo nella mente, e ci perdetti il mio frasario senza appigliarmi ad una. Ma in buon punto levando gli occhi m'incontrai in quelli del vecchio-mi sorridevano. Riconfortato da quell'espressione affettuosa che li animava, sorrisi anch'io; e siccome in quella il sole usciva ancora da una nuvola, frangendo i suoi raggi sui nostri sedili, io misi il capo fuori dello sportello, e guardai un istante all'intorno coll'anima commossa da quello spettacolo incantevole.

–Come è bella la natura!

Mi rivolsi. Il mio vecchio amico era intenerito; mi prese le mani, e le serrò fra le sue; poi con voce alquanto agitata per l'emozione, ma solenne ad un punto: "Dite piuttosto: come è bella la vita!-alla vostra età ne avete diritto. Non frodate a voi stesso il vanto della bellezza per farne dono alla natura. La gioventù è una gran luce-non frodate alla luce il vanto dei colori per consentirlo ai fiorelli del prato."

Tacque un istante; indi come se mi leggesse nell'anima e volesse rispondere al tumulto d'affetti e d'idee che v'aveva ridestato, proseguì più pacato e più mesto.

–Ho visto molte cose nel mondo-dall'assidua cura del ragno che tesse la sua tela, al cozzo rovinoso dei popoli; ho assistito come spettatore a molte battaglie d'uomini e d'idee: una ne combattei pur io-la lotta della vita. Lotta terribile, disuguale-e si finisce sempre col restar vinti.

–Sempre? interruppi scorato.

–Sempre; ripetè con amarezza-sempre. Non mi parlate della volontà, della coscienza. La volontà si fiacca al primo urto, si distrugge al secondo-la coscienza è una vigliacca che si appiatta nell'ora del periglio, ed infierisce spietatamente dopo la sconfitta.

 

–Credete dunque l'uomo una creatura così debole?

–Una creatura che ha passioni-troppo debole per resistervi-troppo forte quando ne è dominata. Nè io stimo migliore colui che ha minor numero di passioni a combattere-soggiunse come se parlasse a sè stesso-però che parmi si debba tener conto quando che sia delle forze di cui ogni uomo poteva disporre per mantenersi virtuoso, e misurarne la virtù dalla resistenza opposta, non dal numero degli assalitori o dalla frequenza degli assalti.

Per un istante parve pentito d'essersi abbandonato a questa espansione; per fermo le sue parole erano dettate da un'esperienza dolorosa; nè io poteva dubitare che gli si parasse in quel punto dinnanzi l'immagine degli affanni sofferti. Non tardò molto che n'ebbi la certezza; egli sollevò il capo e mi guardò fiso come se volesse scrutarmi il seno e leggervi per entro l'effetto delle sue parole. Il suo occhio velato s'accese, i nervi del suo volto si contrassero, e per un istinto portò le mani sul petto come a difesa. Parvemi in quel punto la statua della diffidenza. Ma non fu che un momento, il tempo di quattro pulsazioni-io le aveva contate sul cuore che mi batteva celerissimo.

–Sapete voi che cosa sia un vecchio? mi domandò all'improvviso.

–Un uomo che ha imparato molto.

–Errore; m'interuppe con violenza-errore. Dite un uomo che ha molto sofferto, e direte giusto. Dite un uomo che ha veduto morire le sue illusioni, spegnersi sul suo labbro i sorrisi, avvizzirsi al suo fianco gli affetti; dite un uomo che ha seppellito ad uno ad uno i fantasmi che danzarono alla sua culla festosi, e che guardandosi all'intorno si vede solo.

–E le memorie adunque?

Sorrise tristamente al mio richiamo.

–Le memorie! Credete voi che si possa vivere di memorie senza imprecare a sè stessi? Credete voi che si possa sempre, come a vent'anni, volgersi indietro e sorridere? È una dura scuola la vita. Vi si impara a conoscersi, a disprezzarsi. Un vecchio-ed abbassava la voce come impaurito-ha sempre qualche cosa di terribile a rimproverarsi nel suo passato. – E d'altra parte-aggiunse poco dopo-che valgono le memorie senza le speranze? Se pure esse possono darci qualche conforto, gli è quando abbiamo innanzi agli occhi un orizzonte di luce che possiamo popolare dei fantasmi più leggiadri. Spezzate l'avvenire, e il passato diventa un abisso che impaura. Or bene la vecchiaia non ha avvenire, non ha speranze… fuorchè una.

Compresi e non osai dir motto, nè levar lo sguardo sul vecchio. Senonchè io ne udiva il respiro affrettato, e indovinava l'ansia di quel povero petto. Per gran tratto di tempo nissuno di noi parlò. Quando il mio compagno sollevò il capo, mi parve di scorgere sul suo viso più penosamente impressi i solchi degli anni.

–Hanno fatto della vecchiaia-riprese egli con voce cui un tremito leggiero cresceva l'autorità-hanno fatto della vecchiaia l'età più venerata, e l'hanno circondata di rispetto. Se le sventure danno qualche diritto agli sventurati, questa pietà degli uomini è santissima. Ma non perciò crediate i vecchi più illuminati o più buoni. Hanno il cuore arido, l'intelletto malsano, il corpo vacillante. Avevano espansioni, confidenze, ebbrezze-non hanno più che egoismo. Non vincitori, ma vinti dalle passioni, mostrano talora essersene spogliati, mentre furono invece abbandonati con disprezzo. E se rimane in quei carcami qualche lurido avanzo delle passioni più meschine, vi rimane non più come un inquilino insofferente, ma come un padrone di casa bisbetico.

Sorrisi alla stranezza di queste parole.

–Oimè-interruppe sospirando-per quanto vi paia esagerato il mio dire, non è che troppo vero-e il cielo tolga che voi stesso ne facciate esperienza, poichè ripensando forse a questo vecchio che vi parla, vi farete persuaso come nella vita non vi abbia altro di generoso e di nobile, che la fede balda ed ingenua dei primi anni.

E siccome io non rispondeva.

–M'inganno, aggiunse. V'ha un'altra ora nella vita, sublime per magnanimi pensamenti, per generoso affrettarsi del cuore-l'ora che precede la morte.

Io non sorrisi più. V'era nelle sue parole tale un'impronta di solennità; spirava dal suo volto tanta fermezza di convinzione, che rimasi come sbigottito, e per un istante vidi crollare nel mio seno l'altare che vi aveva eretto alla vecchiaia. Ma più che l'argomento del suo dire, aveami cercato il cuore l'amarezza mista di rassegnazione che lo componeva a mestizia così profonda. Con quell'istinto che fa vaghi dell'ignoto, io cercava di risalire alla causa misteriosa. Mi pareva che se io avessi conosciute gli episodii, le traversie, fors'anco le colpe di quell'uomo, avrei aperto uno spiraglio di luce nella tenebra immensa del cuore umano.

Da quel punto fin presso a V… grave silenzio. Io sentiva che l'ora della separazione si avvicinava, nè sapeva rassegnarmi a questo pensiero. Un presentimento dicevami che non avrei più riveduto quell'uomo, che il nostro addio sarebbe stato l'ultimo.

–Abitate voi a V…? chiesi trepidante.

–Poco lungi. Dietro quel castello in rovina, che vedete laggiù, v'ha una casa oscura e modesta. Ivi una famiglia di alani, accosciata a piè d'un antico focolare, attende impensierita il ritorno del vecchio amico.

Disse queste parole con dolcezza-poi si fe' taciturno.

–Siete voi dunque solo?

–Solo! ripetè egli guardandomi in volto-no.

L'indecisione di questa vaga risposta non poteva oggimai appagarmi. Parevami che io avessi diritto ad una confidenza più ampia, ed insistei.

–Parenti?

–No.

–Amici?

–I miei alani sono fedelissimi.

Non voleva rispondermi-ammutolii. Era certo grave esigenza la mia di ostinarmi a conoscere i fatti d'un altr'uomo-e la ragione s'adoperava a persuadermene-tuttavia io non seppi dissimulare il mio dispetto, e il signor Antonio se ne accorse.

–Sia pure-pensai-non m'importa ch'egli mi legga in volto-sarò più franco di lui.

E poichè parevami che egli ne avrebbe pena, fermai per vendicarmi di non più parlargli. Ma come, giunti ad un crocicchio, m'accorsi che egli faceva arrestare la carrozza per discendere, l'interessamento fu più forte in me dell'amor proprio; così che dopo pochi istanti di fiera battaglia io mi rivolsi ancora al signor Antonio, e arrossendo di vergogna gli domandai se dalla parte del castello si trovasse della selvaggina.

Rispose di sì; ma pregavami non vi andassi.

–Volete voi dunque negarmi il favore d'esservi compagno per via? domandai più sorpreso che imbroncito.

–Non posso.

Disse-ma a temperare la durezza del rifiuto, mi porse la destra; e in quell'istante era nel suo volto tale un'espressione di nobiltà, che mi sentii inorgoglito d'essere così innanzi con lui.

–Mi rivedrete fra un anno-mi disse poi affettuosamente-non prima; non tentatelo neppure; ve ne prego.

–E dove potrò io vedervi?

–Là-e m'indicava col dito le rovine del castello. Vi aspetterò. Quanti ne abbiamo del mese?

–Undici.

–Tenetelo bene in mente-fra un anno.

E con una rapidità che mi fe' meraviglia, depose un bacio sulla mia fronte. Io non aveva ancor cessato di sentire l'impressione delle sue gelide labbra, che egli era già lontano.

Lo vidi avviarsi a lenti passi lungo un sentieruzzo che disegnava, come un lungo serpente, le sue spire sul verde tappeto dei prati. Lo accompagnai dello sguardo per lungo tratto, finchè le forme del suo corpo si confusero come un punto nero.

–Fra un anno? ripetei allora dentro di me con mestizia-fra un anno! – ed appoggiai sulle palme il capo affaticato…

FEBO E L'ALLODOLA

Il mio amico Augusto era un buon figliuolo. Doti d'intelletto e di cuore avea moltissime; e se gli falliva la modestia, vi era però nel suo dire ampolloso quasi altrettanta franchezza, quanta vanità-così che l'una pagava in certa guisa l'altra. Onde sebbene da principio quel suo eterno cicaleccio sovra argomenti assai spesso frivoli, paresse porre una barriera fra i nostri umori-e disperassi, o sdegnassi, di varcarla-non andò guari che, bandita la prima selvatichezza, io gli divenni famigliare. E tra la naturale arrendevolezza di lui, e la mia filosofica pazienza, in breve fummo inseparabili. Nè mai la giovialità e il sussiego fecero tanta pompa, cred'io, di perfetta fratellanza.

Povero Augusto! E parmi ora, pensando alla tua tomba così presto scavata, alla zolla che ha seppellito le tue giovani illusioni in una terra avarissima a te d'affetti e di lagrime, parmi che tu t'apponessi al vero-e non mettesse proprio il conto in quell'età di prenderla in sul serio colla vita, com'io faceva. Ma io non fui altro che un piagnuccoloso primaticcio, e tu di noi il vero filosofo-poi che vivesti e moristi come l'usignuolo, cantando.

Ma in quel mattino pareva avesse esaurito la vena del suo spirito giocondo; e mi camminava a fianco taciturno ed imbroncito, allungando il viso ad una smorfia grottesca da screditarne Eraclito. Perchè io da principio, stimando guarirnelo, feci sembiante di non porgli mente, e recatomi il fucile, a partirne il disagio, d'in sull'omero destro al sinistro, mi diedi a canticchiare fra i denti una vecchia canzone da caccia. E dappoi che questa era il solo frutto che io m'avessi ricavato dal breve commercio e dalle rare peregrinazioni venatorie, e la sola virtù che potesse darmi aria di cacciatore, non è a dire come io me ne deliziassi.

Ma pare che il rimedio non fosse opportuno, o ne avessi inavvedutamente esagerato la dose, perchè il dispetto d'Augusto crebbe fino alla stizza. E non sapendo con chi disfogarla-e smaniandone-allungò un calcio al nostro vecchio bracco, che stanco delle inutili ricerche di selvaggina in mezzo ai boschi, veniva in quel mezzo mendicando una carezza.

Il mal capitato animale guaì due volte lamentevole, e venne a riparare al mio fianco, come a quello d'un amico. E siccome le sue querele dapprima, e quel confidente appellarsi alla mia tutela da poi, m'avevano cercato il cuore-questo cuore così infaustamente aperto ai dolori-io mi feci, del mio meglio, a pagarlo di conforti.

Il poveretto non sapeva come rendermi grazie; e deposto il rancore, a testimoniarmi la sua gioia, venivami attorno con mille feste. Nè mai la riconoscenza ebbe fra gli uomini tanta eloquenza e spontaneità di linguaggio. Ond'io m'ebbi fermo in mente per tutto quel dì che la riconoscenza sia meglio una virtù di cani, che d'uomini-e a riconciliarmi coll'umanità avrei benedetto un argomento. Ma allora non mi giunse, e forse non m'è giunto tuttavia; così che si può supporre il vecchio chiodo mio, anzi che strappato, aver cogli anni acquistato saldezza.

Guardai Augusto, ed egli me-poi entrambi il cane.

Parvemi allora che un animale così generoso fosse ingiustamente condannato a camminare su quattro zampe-e che dovesse rizzarsi su due, e levare orgoglioso la fronte, e guardare faccia a faccia l'Umanità. Ed ora ne sorrido-ma in quel momento mi sentii muovere fino al fondo dell'anima; e rappresentandomi agli occhi come vera quell'immagine, temetti non l'uomo avesse dovuto rinselvarsi per celare il rossore delle guancie.

Senonchè il povero Febo (tale il battesimo del bracco) aveva indovinato il senso del nostro sguardo-e poi che egli non domandava di meglio, si trascinò col capo chino fino al suo padrone.

V'era nel suo atto tanta umiltà; ed agitava la coda, e si ripiegava sui fianchi con tanta rassegnazione, che la sua preghiera, cred'io, sarebbe salita all'Olimpo a disarmare Giove dei suoi fulmini.

Ma è raro che l'ingiustizia si arrenda, e non si ritorca dapprima in sè stessa, e non si dibatta come il serpe. Onde Augusto che era pentito e non voleva cedere tuttavia, se ne stava un pochino in sul tirato-da parere un amante imbroncito che non voglia fare una carezza alla sua bella, e se ne strugga.

Se ti intervenga di assistere a rottura fra due amici, e che tu voglia rappattumarli, non pretendere che quegli che s'ha il torto lo confessi; fa piuttosto che l'altro-e sarà sempre il più arrendevole, perchè più calmo-muova il primo passo, e s'addimostri in certa guisa carezzevole. E mentre in ogni altro modo andresti errato e non verresti a capo di nulla, così facendo ti troverai avere in mano un rimedio facile e sicuro. Però che ove la ragione sapesse discendere fino a vestire le apparenze del torto, il suo trono sarebbe, parmi, assicurato nel mondo.

E non andò guari che Augusto ebbe troncato ogni quistione con Febo. Nè le distillazioni di cento volumi filosofici avrebbero tanto potuto sull'animo suo, come la virtuosa mansuetudine di quel cane.

 
* * * * *

Io aveva indovinato alla prima la cagione del malumore d'Augusto. Ma o perchè non fossi passionato della caccia, o perchè mi avessi qualche altro martello nel capo-e il leggitore potrà decidere in appresso-la nostra disavventura m'avea trovato insensibile.

E tuttavia mi accorsi che il disagio del cammino, il caldo, la fame, e forse un cotal poco il dispetto, incominciavano a ribellare il mio spirito alla pazienza-e poi che ne feci motto ad Augusto, avvenne, ed era cosa naturale, che le parti si mutassero-e ch'egli si facesse a un tratto a sermoneggiare, ed io ad arrabbiarmi.

Ma non così che una folata d'allodole levatasi a volo a pochi passi da noi potesse parerne lieve ventura, e non giungessimo in tempo, o sdegnassimo di far con essa le prime prove. E in un baleno Augusto ebbe scaricato le canne del suo schioppo-io a brevissimo intervallo del pari; onde credendoci in buona fede aver costata la vita a quegli innocenti, tra la compiacenza e il rammarico venivamo aguzzando le ciglia per scorgere attraverso il fumo la caduta della nostra preda.

Ma pare che l'alata famiglia non patisse danno-nè se più parte vi avesse il miracolo o l'inettitudine nostra, per quanto v'abbia strologato, giunsi mai a decifrare.

Se non che i latrati di Febo, e a quando a quando un lieve dibattere d'ali, ci trassero da canto ad un roveto. Febo smaniava; allungava il muso tentando penetrare fra le spine, e si ritraeva vie più inasprito.

L'aspettazione era grande. Foss'egli da quel cespuglio venuto fuori colle fauci spalancate un cocodrillo, parmi non n'avremmo avuto stupore. Sì, n'ebbimo-e quanto ci costasse il disilluderci, pensi chi ha cuor pietoso-quando invece del coccodrillo ci apparve un'allodola sbigottita da parer l'immagine viva della paura. Essa si levava a piccoli voli, tentando scampare all'inevitabile disastro che l'attendeva; ma così malconcia com'era dalle zanne di Febo, i suoi sforzi non la soccorrevano a lungo, e ricadeva dopo breve tratto.

Non so più dire che mai si passasse in quel mentre nel mio cuore-e n'arrossirei; ma se non avessi temuto di parer debole-e forse questa fu vera debolezza-avrei perorato la causa di quella misera allodola. E se mai vi fu avvocato che avesse cuore gagliardo, sarei stato io quello-e non avrei avuto da invidiare a Demostene la sua eloquenza.

Ditelo voi potenze dell'anima, non è egli impeto gentilissimo quello che ci fa piangere dei mali altrui? E a quale altri mai se non a questa compassione benefica, laboriosa, ricca di conforti e di balsami, chiederà l'umanità sconsolata la parola che la incoraggi nel cammino faticoso? Che se gli Dei avanzano in ogni perfezione i mortali, dalle pietosissime lor viscere trassero, cred'io, quel po' di bene onde ne raddolcirono le amarezze della vita.

Ma ch'ei non ti venga detto giammai "sentimento sterile" di quella compassione così, in apparenza, passiva, da parerti non aver altro che lagrima. E se tu la incontri fra gli uomini, benedici-avvegnachè essa ti addimostri un terreno generoso, ove pur che l'agricoltore getti la semente, e non avrà più che ad affilare la falce per la messe.

No-il cuore aperto agli affanni non è mai sterile; e se tu vi versi, benefica rugiada, una lagrima sola, ei ti cresce e ti educa rigoglioso l'albero del sacrifizio.

Febo continuava ad assalire, e la lodoletta a schermirsi-ma poi che i Fati avevano così fermato, non vi fu più scampo per essa.

Ma non con lieve fatica Augusto giunse ad averla fra le mani, e credo vi contribuisse non poco l'opera di certo suo cappellaccio di feltro, lanciato a tiro opportuno su quella tapina.

–È finita-pensai sospirando.

–Tanto per così poco-borbottò Augusto, riponendo in testa il cappello e mostrandomi il corpiccino insanguinato dell'allodola.

–È vero-mi correva sulle labbra. Ma non lo dissi. Il mio sguardo s'era arrestato sovra quel povero animale. Avea gli occhietti velati, il becco semiaperto, e ne colava una leggiera striscia di sangue-un istante ancora, e gli ultimi nodi che lo legano alla vita saranno spezzati… "Ahi! era tutto per essa!" – esclamai con mestizia. Affannoso pensiero! E che monta egli che sia la vita d'un uomo o quello di un bruco? Lascia l'uno cittadi e castella, l'altro il musco ospitale. La vita poneva fra di loro un abisso-la morte, questa grande uguaglianza, segnerà negli eterni libri del tempo non più che due esistenze distrutte.

* * * * *

Avevamo ripreso la via postale, e ci affrettavamo verso M***.

Io pensava alle brune chiome d'Ortensia, ai suoi sguardi per languidezza lucenti, al suo corpiccino di vespa, alle movenze incantevoli onde s'abbellivano le sue forme leggiadre.

–Ed oserò io comparire innanzi ad Ortensia in quest'arnese, e col carniere così sprovvisto? E questa lodoletta meschina potrà essa pagare la mia vanità di cacciatore? Peggio, s'io penso che non mi viene che una parte della gloria.

Augusto che non aveva ancora saputo darsi pace della nostra sorte tristissima, interruppe in quel mentre il corso dei miei pensieri; e ponendomi sottocchio un'altra volta la vittima: – "E non è a dire che i miei colpi fossero male aggiustati. Vè, Giorgio, l'ho colpita nel petto."

Per quanto io fossi poco sicuro dell'efficacia dei miei tiri, parevami-e forse io non errava-avessero anch'essi lanciato buone quadrella; però quanta tracotanza fosse nelle parole d'Augusto, e come dovesse ferirmi nel vivo, non dico. E più perchè gli era già un buon tratto che l'amor proprio mi veniva susurrando all'orecchio non so quali argomenti a persuadermi io, non altri, essere il feritore-ed era stato in sul credervi-e fors'anco se avessi trovato un giro di parole mellifluo, non avrei resistito alla tentazione di menarne vanto.

Ribattei ironicamente, lasciando parere non so se più la beffa o il dispetto.

Ma poi che di due che non hanno prove di quanto affermano, il primo ad affermare ha sempre il sopravvento, Augusto non si affannò punto; ma con un contegno in apparenza affabile, tentennò il capo e sorrise.

Se mai vi fu avversario potente, che ti si avvinghi mani e piedi, ti seduca, ti vinca, e volga in canzonatura la tua disfatta, gli è quel sorriso disdegnoso che provoca la lotta e palesa apertamente il disprezzo dell'inimico.

E la mia anima ne fu agitata. Avrei voluto che la mente m'avesse suggerito ancora uno dei suoi mille sofismi, e sarei stato senza pietà. Ma il dispetto soffocava in me la ragione, la quale è molto se, a non addoppiare la vittoria d'Augusto, mi concedeva la dissimulazione.

Ma in quel punto-e fu ventura-Febo ritornava ansante verso di noi; nè mai farmaco più potente o più opportuno poteva scendermi nel cuore a serenarlo.