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Due amori

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LXVI

Da qualche tempo io lottava per non lasciarmi vincere dal sonno. E fui preso da quel vago sopore dello spirito che non è dormire, ma sognare.

Tristi sogni quelli delle veglie notturne al capezzale d'un caro infermo.

Un orologio battè le due ore.

Scossi bruscamente il capo per tenermi desto, mi venne in mente la contessa che m'avea pregato di farla avvisare a quell'ora, e pensai che non sarebbe stata carità il farlo.

Guardai il volto di Clelia. Era sereno. Appoggiai il capo al guanciale di lei.

Non so quanto tempo trascorresse di tal guisa; io mi era ridato un'altra volta a fantasticare. I miei pensieri erano meno tristi. Pensavo a Clelia, mi lusingavo che sarebbe guarita; mi proponevo di farla felice, di dimenticare e di farle dimenticare. In quel momento io era buono, avevo pietà dello strazio patito da Clelia, ed avrei voluto aggiungerlo al mio. Ne sarei forse morto, ma nelle sue braccia, felice di pagare a questo patto la felicità di lei.

All'improvviso sentii la mano di Clelia stringere più forte la mia.

"Ella si desta" pensai.

Mi rizzai, vidi il suo labbro muoversi mormorando qualche parola.

"Incontrerà il mio bacio" e la baciai sulla bocca. Quelle labbra erano fredde, un alito lieve lieve come quello d'un bambino sfiorò le mie guancie.

Attesi, invano. Pensai allora che sognasse, ritrassi il capo, per non svegliarla.

Un gemito, un orribile gemito, partì dal petto della meschina, il suo corpo si rizzò a mezzo sul letto e cadde rovesciato fra le mie braccia.

"Clelia! Clelia!"

Le sollevai la fronte, le toccai il seno e i polsi.

"Clelia! Clelia!" gridai un'altra volta disperato.

Non mi rispose, non mi avrebbe risposto più mai-era morta.

Caddi senza pensiero, senza vita, sul letto, col corpo di Clelia stretto fra le mie braccia.

Quando mi svincolai da quell'amplesso, l'alba penetrava attraverso i vetri…

Charruà bocconi per terra, la contessa immobile a piedi del letto, – piangevano entrambi.

Io guardava la luce del giorno che batteva sulla fronte della povera morta: ma i miei occhi non avevano lagrime."

LXVII

"Poichè il mio cuore non si spezzò in quel giorno, io penso che il dolore sia impotente ad uccidere.

Vi fu un istante in cui mi parve che non avrei resistito a quell'urto, e me ne compiacqui; la morte non mi faceva paura, la invocavo come un benefizio, però che assai più duro strazio m'era il sopravvivere a lei. Egoismo mascherato di amore e di sacrifizio!

Dimenticavo la piccola Bianca che era ciò che mi rimaneva di quell'angiolo, e che io avrei lasciala orfana se fossi morto. Accettai la vita con amore; l'avrei spesa tutta ad apprendere alla mia figliuola a benedire la memoria di sua madre.

Sua madre! l'innocente la chiamò a nome tutto quel dì; e si fece vicino al corpo freddo di lei, e volle baciarla sul viso, e senza comprenderne la cagione pianse perchè ci vide piangere. Le dissero che la mamma dormiva, credette-più tardi la contessa la fece accompagnare alla sua abitazione, e volle che io la seguissi per sottrarmi ad una vista penosa. Io non seppi staccarmi da quel letto di morte-rimasi.

Vennero ad inchiodare la bara; la baciai per l'ultima volta e volli dirle "a rivederci," ma le lagrime fino a quel punto represse mi rigarono il volto e bagnarono le sue guancie cadaveriche, e senza volerlo mi venne detto "addio" – più triste, più affannosa parola, e più propria.

"Addio, benedetta creatura, addio." Il martello inesorabile batteva i suoi colpi monotoni, ma il braccio che lo reggeva era tremante, e gli occhi di quell'uomo inumiditi. Avrei abbracciato quell'uomo.

Rimasi solo daccanto a quella bara chiusa; più volte fui tentato di riaprirla colle mie mani per vederla ancora.

"Forse ella vive!" Terribile pensiero! audace e pazza speranza!

Il domani vennero per portarmela via; mi volli opporre. Un prete mi si fè vicino. Io non lo aveva fatto chiamare, lo avevano chiamato, era venuto.

"Credete che le vostre preci possano crescere le sue ali per farla salire lassù? gli domandai senza sarcasmo.

Quel prete aveva aspetto d'uomo sensibile; comprese quanto la mia fede fosse diversa dalla sua, e mi guardò sereno.

"Lassù, mi rispose con voce lentissima, lassù si conta ogni cosa-e le preghiere valgono meglio che le lagrime."

Egli diceva forse queste parole con convinzione; io non dissi altro. Ma quando vidi uscire il mesto corteo e salutai dell'estremo saluto quella bara, e volli unire anch'io le mie preci a quelle degli altri, i singhiozzi mi ruppero le parole. Oh! se Iddio vede nel cuore degli uomini, è impossibile che il mio dolore abbia pesato nella sua bilancia meno delle preci di quel prete."

LXVIII

"Andai in quello stesso giorno al cimitero, e domandai della sua fossa, e vidi le zolle mosse di recente, e una piccola croce di legno confitta per indizio, e sovr'essa quel nome adorato.

Baciai quella terra con religiosa pietà, e la bagnai delle mie ultime lagrime.

Il tramonto mi sorprese nella stessa attitudine; i miei occhi erano asciutti; le mie guancie arse, a parevami di sentire dentro di me il mio scheletro.

Lasciai quel luogo a passi lenti; e mi rivolsi più volte a contemplare quella piccola croce.

Ahi! il mio cuore era seppellito là sotto.

Per via incontrai una donna vestita a bruno. Camminava innanzi a me, nè io poteva vederne che le spalle.

Quella donna doveva essere mesta, dovea aver pianto al pari di me qualche cara perdita. E mi affrettai, e le venni a fianco, tratto da quella simpatia improvvisa e prepotente che è inspirata da uno stesso dolore.

Mi ero ingannato. Il volto di quella donna era florido, giocondo e bello; e pareva più bello sotto quel velo nero e in quell'abbigliamento; era un giglio sopra il manto di una bara.

Se ne avvedeva, se ne teneva.

E che mai, mio Dio, era ella andata a piangere in quel luogo?

La guardai negli occhi-non aveva pianto; e come vide che io l'osservava, affrettò il passo volgendosi con civetteria, come a dirmi: "seguitemi".

Triste cosa quella civetteria! Io avrei voluto dire a quella bella e vacua creatura, che la mia Clelia era stata più bella di lei, e ch'era morta."

LXIX

Raimondo tacque, e lasciò cadere la testa fra le mani, come oppresso dalla folla di memorie che aveva risuscitato più vive col suo racconto.

Io lo aveva ascoltato con tristezza; aveva seguito avidamente il suo dire, ora amaro, ora dolcemente passionato; era penetrato in lui, avevo vissuto della sua vita e patito dei suoi dolori.

E m'ero fatto mesto anch'io; però non feci motto, e durai alcuni istanti in quel silenzio.

La luce incerta del primo mattino penetrava dai vani delle finestre socchiuse; il fuoco del caminetto, trascurato da qualche tempo, s'era spento; le fiammelle del candelabro brillavano pallidamente.

Poco stante Raimondo si rizzò in piedi, e passeggiò a gran passi per la camera; il suo viso conturbato tradiva l'affanno d'un pensiero importuno.

Allora solo mi sovvenne che io non sapeva ancora tutto, e che se mi aveva fatto chiamare con tanta premura, non poteva essere certamente per sola vaghezza di farmi la narrazione del suo passato.

–Egli viene; mi disse dopo breve tempo, accostandomisi.

–Chi? – ma la mia mente avea pensato: Eugenio!

–Eugenio-aggiunse Raimondo con voce cupa.

E passeggiò ancora agitato per la camera; poi sedendosi un'altra volta daccanto a me, proseguì con ironia:

–Il mio buon amico ha mandato a termine l'affare dei freschi; ha pensato che a Roma si sta meno bene che a Milano, e s'è ricordato del suo amico d'infanzia.

–Tutto ciò è naturale-gli dissi severo come a fargli rimprovero del suo sarcasmo.

Comprese, e tentennò il capo.

–Ma non vedi tu dunque, come il suo ritorno debba farmi male in questo momento? Eccolo qua, il Don Giovanni virtuoso; mi ha risparmiato il disonore allontanandosi, ed ora sa il pericolo cessato e ritorna.

–Tu sei ingiusto, ribattei; se pure Eugenio ebbe in mente, allontanandosi, di non turbare la tua pace, non fu altrimenti che un uomo virtuoso…

–Di' piuttosto un uomo orgoglioso. E sapeva egli se Clelia lo amasse, e ch'io fossi geloso di lui? Non vò dire che la sua partenza sia stata un'ingiuria; piuttosto, che il ritornare così presto dopo la morte di Lei sia un dirmi palesemente: "vedi, l'affare dei freschi fu un pretesto, ho voluto sagrificarmi per te, siimene grato." Ora, poi che egli ha voluto essere tanto generoso, avrebbe dovuto risparmiarmi questa vergognosa gratitudine.

–La gratitudine non è mai vergognosa, se il benefizio non è menzogna.

–E lo è; non solo, ma inganno. Qual benefizio ho io ricevuto da lui? Vicino, Clelia si sarebbe fatto forza, l'avrebbe forse dimenticato più presto; lontano, ciò divenne impossibile; egli s'ingrandì coll'apparenza d'un atto virtuoso agli occhi dì Lei; esercitò da lungi lo stesso fascino, ma più terribile, più fatale per il cuore di quella santa creatura. Vicino, egli non avrebbe avuto altro che un po' d'amore, combattuto, dissimulato, forse vinto in breve; lontano invece fu amato con abbandono, con pienezza; e se vi fu lotta, fu lotta debole, paurosa, perchè non avvalorata dal pericolo. Parlami pure della sua generosità e della mia ingratitudine. Ma se tu ti fossi trovato al capezzale di Clelia, e avessi letto nel suo ultimo pensiero, e indovinato nel suo ultimo sorriso l'idea e l'immagine di lui, e il suo nome associato teneramente al mio, oh! tu stesso mi diresti di non perdonare a colui che mi ha conteso l'esclusivo dominio di quel cuore adorato. Gratitudine! E via! per avere spezzato i miei affetti ed essersi posto fra me e il mio amore, per avermi rapito ciò che io aveva di più caro? – Oh! per Iddio, no; fin dove il suo alito giungeva, egli ha avvelenato la mia vita; fin dove giungevano le sue mani, egli ha lacerato e rubato. Se le sue braccia fossero state più lunghe, e il suo alito più potente… Si arrestò a mezzo.

 

Io non gli risposi. Vedevo l'esaltazione del suo spirito, e comprendevo che le mie parole non sarebbero state che un alimento alle sue ingiuste rampogne. Egli aveva pur dianzi dimostrato troppo chiaramente la stima in che teneva la virtuosa indole d'Eugenio, perchè io dovessi tormi sul serio la briga di contendergli uno sfogo di bile ingenerosa che sarebbe stato necessariamente seguito dal pentimento.

Il mio silenzio valse meglio che il rimprovero.

Non andò molto che Raimondo si rasserenò, e facendosi più d'appresso a me:

–Tu pure dunque lo difendi? mi disse con voce tranquilla-e vedendo che io non gli rispondeva, aggiunse melanconicamente: anche il mio cuore si ribella a me stesso e mi condanna, e difende lui che pure m'ha fatto tanto male.

Per qualche istante grave silenzio.

–A che ora arriva egli? domandai.

–Fra due ore.

–Tu lo vedrai dunque?

–Nol voglio. Io posso perdonargli, amarlo non mai; e mi pare che il vederlo mi toglierebbe anche la virtù del perdono.

–Egli non ti ha offeso.

–Qui, nel cuore… ribattè senza amarezza; il sasso che ci fa inciampare per via non è la causa della nostra caduta; è soltanto l'occasione cieca, inconscia, fatale. Tuttavia nissuno saprebbe amare quel sasso.

E proseguì dopo breve meditazione.

–Io posso essere ancora tranquillo se non felice; posso vivere della memoria di lei, illudere il mio povero cuore e fargli credere d'aver posseduto solo tutto il suo amore; posso dimenticare che un altro… Vedendo lui, rivedrei il passato, che io vorrei pure obliare per foggiarmene uno a mio modo; subirei le torture di memorie strazianti. E non sarei più solo…

S'interruppe.

–Che intendi?

–Non sarei più solo a piangere sulla sua tomba, ad evocare in segreto il suo fantasma adorato. Egli mi contenderebbe l'unico bene che rimane agli sventurati, la vita del pensiero, la religione delle memorie-dimezzerebbe un'altra volta il mio amore, questa pallida larva d'amore che mi rimane dacchè ella è morta. Egli vorrebbe la sua parte di queste melanconiche gioje che mi inebbriano. È una triste cosa l'amore degli estinti, ma è tutto per me-e mi vorrebbe togliere anche questo.

–Credi tu dunque che Eugenio abbia amato Clelia?

–Lo temo.

–E se anche fosse, chi ti dice che egli vi pensi ancora?

–Il cuore, questo cuore lacerato che non m'inganna mai… "Il segreto dell'eternità dell'amore è la morte…" aggiunse come parlando a sè medesimo.

–Non in tutti i casi.

–Ma nel mio. Amar Clelia è morire d'amore.

–Tu dunque non vedrai Eugenio? domandai.

Fece atto di no.

–Lo vedrò io.

–Tu! diss'egli con slancio; volevo pregartene.

–Sono passati quindici anni; non lo riconoscerò.

–Vedilo; e m'indicò un albo di ritratti.

L'apersi, e lo sfogliai rapidamente; m'arrestai all'immagine d'un giovine.

–È lui! esclamai con convincimento interrogando a un tempo Raimondo collo sguardo.

–È lui, ripetè Raimondo guardando alla sfuggita.

–Ne so abbastanza, io vado.

E strinsi la mano a Raimondo come per lasciarlo. Mi rattenne indeciso.

–S'egli non l'avesse amata, s'egli almeno non l'amasse!

Quelle parole mi scesero al cuore come un gemito. Lo guardai in volto come a dirgli: "devo io ritornar solo?" Ma egli non mi comprese.

–Ritornerò io solo? dissi a bassa voce.

Parve lottare un poco dentro di sè; e non rispose. Lasciai la sua mano ed uscii…

–Ti aspetto, gridò egli seguendomi.

Mi rivolsi, il mio sguardo gli diceva la pietà.

LXX

Due ore dopo io rientrava nelle camere di Raimondo.

Lo incontrai abbandonato sopra un seggiolone a bracciuoli, cogli occhi fissi sul suolo, e colle braccia incrociate.

Al vedermi, si rizzò in piedi e mi venne incontro.

–Solo? domandò ansioso.

–Eugenio è arrivato, gli risposi.

Raimondo fu sorpreso della apparente freddezza delle mie parole-e passeggiò agitato per la camera arrestandosi tratto tratto a me dinanzi come volesse interrogarmi e l'animo non gli bastasse.

–Non ti ha detto nulla? domandò qualche istante dopo con titubanza.

–Molte cose.

–E ti ha parlato di me? non ha egli cercato di venire a trovarmi?

–Aveva sperato di vederti prima, gli risposi in tuono di rimprovero.

–Dunque?..

–Egli lo desidera…

–E dove è egli?..

–Poco lungi, e ti aspetta. Vieni…

Raimondo pareva arrendersi alle mie parole, ma un improvviso pensiero mutò l'animo suo.

–Non lo posso, non lo posso; esclamò levando le mani al cielo come a chiamarlo in testimonio del suo strazio.

–Addio dunque… e feci atto d'allontanarmi.

–Addio, mi rispose con voce spenta.

M'arrestai sull'uscio, e mi volsi a contemplarlo-egli s'era gittato sopra un divano e soffocava i singhiozzi sopra i cuscini.

–Lo chiamai dolcemente: "Raimondo!"

Levò il capo, e non fè atto per nascondermi le sue lagrime.

–Tu dunque non mi abbandoni? balbettò.

–Io sarò sempre teco; ma lui…

–Eugenio…

–Sì, Eugenio.

–Ascolta, mi disse afferrandomi il braccio-io posso ancora accostarmi a lui… ma ch'io sappia s'egli non l'ha amata… Va…

E mi spingeva verso l'uscio, eccitandomi più che colle parole coll'eloquenza degli sguardi.

–È inutile-interruppi-Egli l'ha amata.

Raimondo chinò il capo abbattuto.

–E l'ama? insistè poco dopo guardandomi in viso paurosamente.

–L'ama.

Si lasciò cadere fra le mie braccia, ed appoggiò il capo sul mio omero.

–Andiamo-gli ripetei-sii generoso e forte; la tomba non ha gelosie; l'eternità non si misura, non si frantuma, non si impoverisce mai; ogni frammento è eterno come il lutto di cui è parte; amerete e sarete amati entrambi; le vostre memorie saranno di entrambi e di ciascuno; non divise o spezzate, ma concordi.

E spingendolo innanzi a me con dolce violenza lo trassi nella prossima camera.

Raimondo non aveva avuto tempo di riflettere, di conoscere l'inganno, che si trovava innanzi ad Eugenio.

Lo guardò un istante più commosso che meravigliato; e si gettò piangendo nelle sue braccia.

LXXI

… Ci inoltravamo taciti e mesti.

Raimondo andava innanzi, Eugenio ed io a fianco l'un dell'altro. Nevicava. Il terreno imbiancato aveva aspetto d'una lapide immensa, e le croci nere parevano un epitafio scolpito…

Stampavamo l'orma dei nostri passi sulla neve, e ci inoltravamo taciti e mesti.

Ci arrestammo innanzi ad una lapide di marmo bianco, su cui non ancor rose dal tempo si leggevano le parole bibliche:

PERCHÈ MI HAI TU ABBANDONATO?

FINE

REMINISCENZE D'UN ARTISTA
DI SALVATORE FARINA

 
"Il est doux de fixer les joies
qui nous échappent ou les larmes
qui tombent de nos yeux, pour
les retrouver, quelques années
après, sur ces pages, et pour se
dire: Voilà donc de quoi j'ai
eté heureux! Voilà donc de quoi
j'ai pleuré!"
 
A. De LAMARTINE.

IL SIGNOR ANTONIO

Da oltre un'ora io non aveva sollevato il capo; andavo tracciando sul terriccio con un ramicello di quercia alcuni circoli bizzarri, nè mi accorgeva chi altri fosse spettatore dell'opera mia. Senonchè mi volsi, e vidi all'altra estremità della panca un ometto assai vecchio, ma robusto ancora per quanto consentivano i quattordici lustri che mi parve potergli attribuire, il quale con due occhietti scintillanti mi guardava in volto con tale espressione di malizia da impermalosire tutt'altri al mio posto. Ma così come l'antipatia ha le sue esigenze, la simpatia s'induce facile a largheggiare-e so che si perdonano talora gravi colpe a chi non ha altro titolo alla nostra benignità che quello d'un volto piacevole. Onde io non così lo vidi, che fui favorevolmente disposto verso il vecchierello, sebbene per un istante l'amor proprio si affannasse a farmi scorgere nel suo contegno qualche cosa che arieggiasse il dileggio. Ma ciò che pareva dileggio doveva essere ingenuità-almeno così credetti-se pure non era interessamento. Anzi, pensandoci, mi pare ora di potermi attenere a questo, e di giurarci senza titubanza, quando non si voglia asserire che le creature umane nulla hanno di comune che la specie-e affeddiddio, che io mi dannerei per provare il contrario!..

Come mi vidi oggetto d'osservazione pel vecchio, io dal mio canto non seppi ristarmi; e abbandonate le fantasticherie-chè da quel punto n'ebbi perduto il filo-mi diedi ad osservarlo. Incominciò allora una vicenda di sguardi reciproci ed interrotti. Curiosi certamente entrambi, nessuno di noi voleva parere, e s'adoperava a celare ciò che gli passava dentro. Senonchè, malgrado gli sforzi, sentivamo ad ogni istante-argomento da me di lui-che il terreno delle ostilità si andava perdendo per entrambi a vista d'occhio.

Ho scritto ostilità-ma ostilità, a dir giusto, non erano. E pure in quell'istante io ero preso da un dispetto insolito-certo contro me stesso-sì che per ingannare la coscienza, fui ad un pelo di credere a qualche vecchio rancore mio con quell'uomo che vedeva per la prima volta. Avrei dato dieci luigi-e non so bene s'io ne avessi uno in scarsella-per chi mi avesse fatto leggere a puntino nel mio cuore; ma non osavo chiarirmene gettandovi l'occhio da me stesso. E tuttavia con una risoluzione animosa lo feci; e quel che aveva temuto avvenne, poichè arrossii della piccolezza dell'umana natura, e mi corrucciai più forte, e mi rimbrottai più acerbo.

"Che cosa adunque ti trattiene figlia del cielo dal seguire gl'impulsi tuoi?"

(Notate che nelle grandi circostanze questo richiamo adulatorio, misto di querela, mi torna assai acconcio coll'anima mia. La quale-convien dirlo-ha pur essa i suoi capricci-e non ne farei niente senza questo stratagemma).

"Che è questo raggomitolarsi quotidiano come il serpe, questo starsene pauroso come un tapino che mendica per isfamarsi, ed è chiamato importuno? Oh che! le anime anch'esse dovranno piegare a queste stupide norme sociali? – e il violarle una volta sarà poi delitto così grave?.."

In così dire, tutto mutato nel viso e nei modi, mi volsi con proposito fermo-e Dio mi è testimonio che io lo aveva lì, sulla punta delle labbra, un discorsetto caldo… Ma il guaio volle-e a questo non aveva pensato-che il mio vecchietto anch'esso si voltasse in quel mentre, e con aria appunto da farmi credere che volesse essere il primo a parlare-nè io domandava di meglio, e tacqui in attesa. Ci guardammo buon tratto, ma nissuno di noi disse verbo. Io mi trovava evidentemente impacciato; e più ancora parendomi che il vecchio non si sgominasse punto punto. Egli guardava me, la punta delle sue scarpe impolverate, e poi ancora me-e sorrideva; ed il mio occhio correva per attrazione da lui alle sue scarpe, e dalle sue scarpe a me…

Ripigliai la mia bacchetta di quercia, e per darmi aria disinvolta mi rifeci da capo ai miei circoli-meschina occupazione certamente per uno che si trovava faccia a faccia colla parte più recondita della sua natura.

Ridotti a questo termine non si poteva andar oltre, pena il ridicolo. Conveniva venire a una: o allontanarmi, e sarebbe stata sconvenienza e debolezza di cui non avrei saputo darmi pace-ovvero fare quel che si doveva da principio: riaccostarsi mansuefatti, e ridere candidamente di queste ritrosie poco degne di uomini-e, quel che più monta, di uomini di spirito, come tutti, arguti o scemi, ci vantiamo d'essere. Io sentiva che ogni minuto che passava aumentava il mio imbarazzo; onde la scelta fra i due partiti-e non poteva essere luogo a dubbio-fu tanto repentina, che quasi non corse tratto fra il concetto e l'esecuzione. E pare che le stesse cose si fossero passate in mente al mio vicino; poichè nell'atto che io mi volgeva a lui, lo vidi aprir bocca-e questa volta non fui in tempo ad arrestarmi a mezzo, così che le nostre parole si confusero. E da capo a sorridere.

"Ormai il nodo è reciso, pensai fra me e me; quando due persone che siedono alla stessa panca e che non hanno aspetto da galuppi-e sbirciava di nascosto il vecchio per accertarmi proprio che non lo adulassi-si hanno ricambiato due volte il sorriso, non è mezzo a stare in forse-la natura ha guadagnato la partita. Se pure non vogliono parere uomini eccezionali-la più grama genìa che io mi conosca fra quanti vestono panni-conviene assolutamente che esse si riaccostino."

 

In questa mi volsi, e con mia sorpresa le distanze erano sparite. Senza volerlo io mi era avvicinato un par di braccia-il mio vecchietto poco meno-così che i nostri sguardi s'incontrarono per la prima volta tanto da vicino, che la corrispondenza non poteva da quel punto essere meglio stabilita…

* * * * *

Quella notte dormii agitato. L'immagine del vecchio, le sue parole dolci, quella tinta di dolore e di rassegnazione che ne facevano un vero filosofo, mi ritornavano alla mente coi vivi colori della realtà. Io sentiva una strana attrazione verso quell'uomo, un desiderio intenso di rivederlo, di apprendere la narrazione dei casi della sua vita.

E con una di quelle improvvise determinazioni così frequenti nella mia natura, balzai di letto, accesi la lampada, e trassi da un armadio alcuni abiti polverosi da caccia e un fucile a due canne che mi aveva sempre risparmiato il rimorso della carnificina. Indossai le vesti, e cinsi ad armacollo con certa grazia l'arma formidabile, sì che io stesso poteva per un istante illudermi e credermi divenuto da senno un Nembrot consumato.

–Così adunque si parte? – prese a dire la Prudenza, mentre io, dopo aver spento il lume, m'incamminava per uscire-e dove si va?

–Oh! bella! rispose piccata la Vanità-È presto veduto. Si va a caccia.

–Ad ammazzare; aggiunse contorcendomi le labbra in una smorfia il Coraggio. Già oramai tutti i filosofi sono d'accordo; la vita è una strage armonica. Chi ammazza di più serve meglio ai decreti misteriosi della natura.

Ma, ch'io mi sappia, la Prudenza non porta tanto alto le sue mire; sibbene incurante di filosofi e di sistemi, anzi che cederla in tirannia, tende a sopraffare le sue sorelle carnali, usurpando l'amministrazione degli affari più intimi di famiglia. Onde una vecchia ruggine e una dispettosa e sorda guerra che non è certo il minor danno che nella vita ti tocchi sofferire. Ad ogni modo questo giova ritenere, che raramente interviene che la Prudenza ceda le armi, e che il papà-il nobile Egoismo-si addimostra assai pago della sua figliuola primogenita.

Nè questa dovea essere un'eccezione-però che alla povera Vanità toccassero invece parole assai aspre, e dette con quell'accento di dileggio di chi si tenga sicuro del fatto suo. Oltre a ciò, quasi non bastasse, si aggiunse la Poltroneria e l'Avarizia a farle contro-onde un parapiglia, un dibattere arruffato, da cui Domine Iddio scampi il più possibile ogni galantuomo.

Sola spettatrice stavasi in un cantuccio la Pazienza.

"Guai se la mi scappa," pensai.

E per buona sorte la tapina tenne duro. Quando ogni articolo fu discusso: "Dio sia benedetto, dissi, ora posso partire."

–Possiamo partire-aggiunse timidamente la Rassegnazione.

E poichè parevami che la Prudenza accennasse a volersi rifare da capo a nuovi ammonimenti, afferrai la maniglia della porta, tirai il catenaccio, e fui all'aria libera.

* * * * *

Era un ampio carrozzone antico, rifatto alla moderna; ma sebbene fosse fornito di ruote massiccie e dondolasse graziosamente sulle molle ad ogni lieve spinta, avevano voluto, con un nome che adesca il viaggiatore, battezzarlo: il Veloce.

"Non sarà la prima menzogna di questa natura" pensai.

E pare che l'automedonte mi leggesse in mente, poichè distraendosi un pochino dalle sue occupazioni: – Gli è un po' vecchierello, un po' patito, ma in fondo è stoffa senza confronti; e affè mia, che quando l'avrò finito di lavare, vedrete che farà anche la sua brava figura, il nostro Veloce-e, così curvato com'era, tuffava e rituffava la spugna nel secchiello, guardandomi nel viso per invitarmi ad assentire.

Mi costò poco il farlo, ed egli ne fu oltremodo lieto.

–Gli abbiamo messo nome noi-un bel nome, non è vero? Veloce! e gli adatta a meraviglia, perchè è lesto come un daino.

E siccome io mi stava zitto, egli insistè collo sguardo.

–Non vi pare che ciò potrebbe dipendere anche un pochino da chi lo tira?

–Senza alcun dubbio. E vi so dire che abbiamo due cavalli a dovere, e che galoppano come la cavalcatura delle streghe. Osservateli là…

Io mi rivolsi per compiacerlo-ma in questa due creature bellissime attrassero la mia attenzione. Erano due bambini, e si tenevano per mano. Non aveva la maggiore più di dodici anni, e il minore poteva contarne nove a dir molto. Biondi e ricciutelli entrambi-ad entrambi errava sul viso una espressione fantastica di sofferenza.

E non so come io mi sentissi all'improvviso serrare il cuore a quella vista, e si suscitassero nell'anima mia tristi e desolate le immagini della vita. Pensai ai miei primi anni, così mesti anch'essi; risalii alle prime memorie, alle prime melanconie, e mi sentii commosso da quell'evocazione. Allora carezzato da tutti, ignaro del mondo, e pur spoglio della balda confidenza di quell'età-oggi sperimentato degli affanni, deserto d'affetti, lacerato da dubbi, pressocchè avvizzito d'anima e di cuore-allora ed oggi mestissimo.

… Il piccino mi andava guardando stupito. Che concetto ei si facesse di me e quali impressioni io suscitassi in quell'anima vergine, avrei avuto caro sapere. Me gli accostai amorevole e lo carezzai curvandomi alquanto. Egli mi porse le mani. Non so ch'io mi abbia provato altre volte dolcezza più ingenua e più santa-lo sollevai fra le mie braccia e lisciandogli i capelli sulla fronte:

–Non hai tu paura di me?

Rispose con un filo di voce non averne-ma più col sorriso.

–Povera anima-dissi: ed appiccai un bacio sulle sue labbra scolorate-Come ti chiami?

–Ercole-balbettò.

–Ercole! – e mi corse l'occhio alle sue membra esili, alle sue guancie scarne e giallognole. Senonchè io aveva dimenticato la piccina, la quale a pochi passi mi guardava sott'occhi col capo chino. E parvemi che la timidezza vincesse in lei la meraviglia; e non osasse, ma si struggesse dal desiderio di avvicinarsi. Ond'io me le accostai tenendo Ercole per mano-e ciò valse a farle sollevare il capo sorridente. Quanta espressione in quel sorriso, e quanta leggiadria in quel volto! – To' un bacio, le dissi-e ritirando le sue lunghe anella appoggiai le labbra sulla sua fronte.

La poveretta non rispondeva, ma ne pareva lietissima: e mi restituì il bacio senza schifiltà e senza ritrosia-e addirittura sulle labbra.

"Beata l'innocenza, pensai. Che cosa è mai un bacio? Qual parte di noi si perde o si acquista in un bacio? pure la malizia dell'uomo lo ha proscritto con arte raffinata, e ne ha fatto l'interprete d'amori clandestini. Il bacio fraterno è diventato un delitto. Ipocriti! Ipocriti! Un bacio di meno-strana avarizia… – dico io-o che tesoreggiate forse di colpe? Ecco un furto fatto senza rimorso alla virtù per largheggiare col vizio."

Tant'è poichè mi veniva da una bambina-poco più certamente-pensai di non arrossirne. Il cinismo ha osato bruttare del suo fango le cose più sante, e si è spinto fino all'innocenza-ma non così oltre, parmi, che io debba profanare, per legittimarlo parlandone più a lungo, la memoria di quel bacio.

Abbracciai a un tempo dell'occhio il gruppo di quelle due teste leggiadre, e mi arrestai ad osservarlo. Quei due visi avevano la stessa impronta, le stesse linee, la stessa mobilità di nervi-se non che la bambina pareva più estatica, ed Ercole più mesto.

–Siete fratelli? domandai.

Ercole mi rispose di sì.

–E vi amate?

–Molto. – E fu ancora Ercole che rispose; la sorella taceva e mi guardava, e pareva non avere inteso la mia domanda. In questa una voce rauca chiamò dalle scuderie. Ercole prese per mano la sorellina; e questa si lasciò condurre come cosa inanimata, ma senza staccare tuttavia gli occhi da me, e salutandomi colla mano.

–Povere creature!

Il cocchiere mi udì.

–Povere creature davvero, interruppe. Sono due buoni figliuoli, Minerva in ispecie.

–E chi è Minerva?

–La piccina. Non lo sapete voi dunque? non glie l'avete domandato? Ma che dico! essa non avrebbe potuto rispondervi-è sordo-muta.

–Sordo-muta!

–La è nata così.

E seguitava a contarmi come quei bimbi fossero figliuoli dell'oste suo padrone, e come l'oste suo padrone fosse un uomo che amasse molto i vini, e si chiamasse Narciso.

–Era meglio Bacco-dissi io.

–È vero-rispose il cocchiere con quell'aria d'uomo che non ha capito.

–O quanto meno attenersi all'acqua per esser logici.

E qui parve comprendermi; e fe' una smorfia che voleva dinotare assai chiaro la dispiacenza di non essere del mio avviso.

–Bravo il mio Mercurio, gli dissi, e battei confidenzialmente della mano sulle sue spalle.

Il buon uomo sorrise e si compiacque; ma protestò di non chiamarsi Mercurio.

–Come ti chiami tu adunque, e come hai tu potuto sfuggire alla tirannia dell'Olimpo?