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Due amori

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LVII

"Non so se altri possa comprendere qual fosse lo stato della mia anima in quel tempo; nè se gli uomini possano giudicare con giustizia della natura dei miei sentimenti; so bene che i facili motteggiatori ricercano avidamente il marito e lo espongono alle beffe degli sfaccendati, e dimenticano l'uomo che s'agita e soffre, non pensando che se quella gelosia è meschina e ridevole che nasce da orgoglio, la gelosia che piange l'amore è cosa santa. E poi che gli uomini non conoscono il virtuoso benefizio della compassione, o sdegnano porgere questa elemosina che si dà senza impoverire e si riceve senza vergogna, dovrebbero almeno rintuzzare il sogghigno che avvelena il loro labbro mordace.

In quel tempo ho provato tutte le miserie della gelosia; piccole lame che mi passavano il petto e giungevano al cuore.

Un giorno mi venne sott'occhio un albo di ritratti che, siccome conteneva l'immagine di lui, io aveva puerilmente sottratto tempo prima, e collocato più tardi sopra uno scaffale in un angolo della camera. Era stato spesso a rivedere quell'albo, attratto non so se più da istinto di curiosità o di sospetto-nissuno l'aveva mai toccato, però conservava da qualche tempo la stessa posizione, e la polvere vi si era addensata a strati; in quel giorno l'albo era capovolto; i fermagli erano stati aperti, e non si aveva pensato a rinchiuderli; la polvere vi era meno densa e serbava tuttora le traccie della mano che l'aveva afferrato. Mi venne in mente Clelia, e ch'ella avesse voluto contemplare il ritratto di Eugenio. Quel giorno piansi come un fanciullo."

LVIII

"Più volte, entrando all'improvviso nelle camere di lei, erami parso che mi nascondesse qualche oggetto. Un giorno non mi rimase più dubbio; l'imbarazzo pinto sul suo volto dava impronta di verità al mio sospetto. Io sapeva che ella non mi avrebbe nascosto alcuna cosa che non avesse potuto parlarmi di lui, del suo amore… "Forse il ritratto! E l'aveva forse tolto all'albo!"

Non ebbi concepito questo pensiero che corsi ad assicurarmene.

Incontrai la piccola Bianca intenta a sfogliazzare un libro, l'albo; volsi lo sguardo allo scaffale; una seggiola appoggiata al muro aveva servito a quella scalata innocente.

Il cuore mi batteva violento per emozione; e interrogai arrossendo la piccola Bianca; e seppi da essa come già altra volta avesse collo stesso mezzo tolto quell'albo e rimessolo per timore di rimprovero.

Mi guardava timidamente; quella creatura benedetta ignorava il bene che ella faceva al mio cuore.

Aprii l'albo, e ricercai il ritratto d'Eugenio. Era lì, nella sua piccola cornice.

Se la gioia avesse manifestazioni che non fossero puerili, io mi vi sarei abbandonato follemente. Ma pare che la virilità segni il confine della gioja, però che i soli fanciulli possono palesare apertamente il loro animo lieto. Il dolore solo è d'ogni tempo, e chi arrossisce delle lagrime e le chiama indizio di debolezza, non sa che sia il dolore, nè come egli faccia gigante e nobiliti tutto ciò che lo circonda, e il tetto sotto cui si posa, e il cuore che strazia, e le bestemmie che fa prorompere fra i singhiozzi.

Abbracciai la testolina ricciuta della piccola Bianca, e la colmai di carezze."

LIX

"Tant'è, non poteva dubitarne; Clelia mi nascondeva qualche cosa."

LX

"Una mattina Clelia tardò a levarsi di letto oltre l'usato. Me le accostai e le chiesi se mai ella non si sentisse bene. Mi rispose non sentirsi altro che un po' di languore.

–Sarà appetito, aggiunse; da qualche tempo io sono diventata ghiotta. Mi leverò, e farò anticipare la colazione.

Si provò a rizzarsi sul letto; ma ricadde.

–Sono assai debole, assai debole… non posso.

–Manderò ad avvisare il medico. -

–Non farlo. I medici, i medici… costoro hanno l'anima fredda come cadaveri e pretendono dar la vita e la salute.

–Il nostro è un buon medico.

–Come tutti gli altri. E poi quale necessità di medico? non sono già malata io.

Non insistei per non affliggerla.

Tutto quel dì passeggiai agitato dinanzi al suo letto. Come fu la sera, mi accorsi che la sua fisonomia era alterata; toccai la sua fronte e la trovai ardente. Col cuore serrato dalla paura, e colla certezza che il suo stato era peggiorato le domandai se stesse meglio.

–Se tu mi sei vicino, rispose.

Mi posi al suo capezzale e vegliai finchè la stanchezza non mi fè chiudere gli occhi. Ridestandomi di soprassalto, incontrai alla sua mano fra i miei capelli; l'allontanai dolcemente per non svegliarla; ma ell'era desta e mi guardava con uno sguardo rapito alla benigna serenità di quella notte stellata.

Il giorno successivo feci avvertire il medico. Venne; si dolse di non essere stato chiamato il giorno prima.

–È dunque cosa grave? domandò Clelia inquieta.

Il medico parve imbarazzato.

–Vi hanno malattie, rispose, che senza minacciare un pericolo, devono tuttavia essere arrestate nei primi passi, altrimenti…

–Altrimenti?..

–Si fanno più ribelli.

Uscendo trassi in disparte il medico.

–Ascoltatemi, gli dissi; io sono forte, ho coraggio; ditemi francamente se Clelia vivrà.

–Lo spero.

–Non ne siete voi sicuro?

–La vita non è nelle mie mani.

–Qual genere di malattia è ella questa di Clelia?

–Una ricaduta della prima; io aveva guarito il corpo, non poteva giungere all'anima-tolsi l'effetto senza rimuovere la causa.

–Ed è?..

–Se voi l'ignorate, è un segreto; domandateglielo.

–Così farò, risposi lasciando cadere il capo sul petto.

–Siate forte-mi disse il medico ed uscì."

LXI

"Non era vero che io fossi forte; il pensiero che Clelia avrebbe potato mancarmi mi traeva fuor di me stesso. Rientrando, la incontrai seduta sul letto, cogli occhi fissi sulle lenzuola. Mi accostai tremante.

–Che hai?

–Ho tutto udito, mi rispose melanconicamente. Non negarlo; vi ho seguiti io stessa; ho voluto io stessa apprendere la mia sorte.

Quelle parole mi turbarono; che avrei io potuto dirle? le feci rimprovero d'essersi levata di letto e d'averci seguito malgrado la sua debolezza.

–Mi sono coperta d'uno scialle-e mi sono appoggiata ai mobili-e d'altra parte che potrei io perdere? non devo forse morire?

–Non dirlo, in nome di Dio. Il medico non ha detto ciò.

–L'ha pensato; e poi lo sento, mi rimane assai poco, assai poco.

Piangeva.

Io non ebbi forza di riconfortarla; la strinsi al cuore.

–Non lasciarmi, mi disse ella con esaltazione; non lasciarmi; tienimi stretta presso di te; quando sentirai che il mio cuore arresterà i suoi battiti, baciami in volto e mi rianimerai.

–Dio non può separarci, esclamai levando gli occhi al cielo.

–Dio lo vuole, disse ella tristamente.

Il suo stato andò peggiorando ogni giorno; e tuttavia io non rinunziai un istante alle mie speranze. Pregavo Iddio ogni sera; la sventura mi riavvicinava alla mia fede negletta. No, Dio non avrebbe dimenticato la sua creatura.

–Domani vo' levarmi, mi disse Clelia un giorno.

–Lo pensi, povero angiolo; tu sei così debole.

–Voglio levarmi, ripetè. Ho domandato al cielo questa grazia, il cielo è buono.

Venne il domani, ma Clelia non potè lasciare il letto.

–È doloroso, disse ella con mestizia; ci aveva contato; doveva essere un giorno lieto questo.

E volle che io facessi venire la nostra Bianca, e che mi sedessi ai piedi del suo letto.

–Tu non comprendi, mi disse scherzosa; pure questo è giorno di festa per noi.

Mi era passato di mente-era il quarto anniversario del nostro matrimonio. Triste anniversario! Mi comprese, e come a rispondere ai miei pensieri.

–Sta in noi che questo giorno sia festoso. Vedi io ti avevo preparato un regaluccio; ma non ho potuto finirlo di mia mano.

E così dicendo trasse di sotto al guanciale un ricamo in seta, colle nostre cifre intrecciate.

–Ed è questo che tu mi nascondevi? domandai commosso.

–Tu dunque mi spiavi? interruppe scherzando.

Ahi! quanto i miei sospetti erano stati ingiusti! e come avrei io pagato quell'anima buona dell'ingiuria che le avevo fatto?

S'ella aveva un segreto a nascondermi, non era certamente una colpa; se inganno v'era stato nei suoi modi, lo aveva suggerito la pietà.

I progetti di Clelia andarono falliti-quell'anniversario fu assai triste."

LXII

"Passarono alcuni mesi-passarono uniformi, desolati. La salute di Clelia non migliorò gran fatto; il medico era venuto assiduamente, ogni giorno, ma senza alimentare le mie povere speranze.

Clelia pareva rassegnata; non mi parlava di morire perchè ne avrei avuto pena; quando mi vedeva triste, mi diceva di sorridere. Mi assicurava che sarebbe guarita. Innocente inganno! Altre volte parlava del nostro avvenire seriamente, – si intratteneva in progetti ridenti. Allora sperava; si rinvigoriva delle sue illusioni, e mi diceva.

–È egli possibile che io muoja? Perchè dovremmo noi crederlo? Io sono qui, fra le tue braccia-sono giovine, e t'amo-e tu m'ami. La morte ha pietà di coloro che s'amano…

Verso la metà del mese d'ottobre, la malattia parve volgere alla guarigione.

–Vorrei veder la campagna, disse un giorno al medico. Deve essere bella, non è vero? Voi la vedete spesso la campagna. Come siete felice voi!

–Vi andrete, rispose il medico intenerito.

–Oggi stesso?

–Se lo volete.

Triste indizio la condiscendenza d'un medico. Ma nè Clelia vi aveva posto mente, beata del pensiero di poter uscire, nè io, parendomi proprio ch'ella stesse meglio.

Uscimmo in carrozza.

La giornata era serena; una brezza melanconica d'autunno incurvava i rami dei platani e gemeva fra le foglie degli ippocastani.

 

Bella giornata, ma mesta-ad ogni istante il soffio del vento distaccava dai rami d'una pianta ingiallita le foglie disseccate che scendevano lente sopra i viali, dove un altro soffio le spingeva ad inseguirsi l'una l'altra roteando.

Clelia guardava la natura con occhio smarrito.

–Come è bello, come è bello! andava ripetendo con ingenua meraviglia; mi par di rinascere, di venire per la prima volta nel mondo; certamente io non ho mai visto come li vedo ora questi incanti… E gli uomini si lamentano!..

Ammutolì un istante.

–Sono pazza, aggiunse poco dopo; mi pare che tutti coloro che passano debbano essere felici come io lo sono, lieti di questo cielo senza nubi, di questa campagna piena d'armonie-e che debbano leggermi sul volto che io fui malata, e rallegrarsene in cuore. E perchè no? Io non ho fatto alcun male agli uomini, vorrei dir loro che li amo-non vorrebbero essi amarmi se io li amo?

Passavamo rasentando un giovane tiglio che aveva attecchito male, e che i rigori autunnali avevano sfrondato precocemente.

–Così giovane! disse ella mestamente; e parve che un triste pensiero l'assalisse e che lottasse a liberarsene.

–Come è bella la vita! aggiunse poco dopo parlando a sè stessa.

Non osando trarla dalle sue fantasticherie, non osando quasi rispondere al mio stesso affanno per timore di palesarlo, io continuavo a tenere le mie mani nelle sue senza dir motto, e a contemplare melanconicamente le sembianze disfatte del suo volto."

LXIII

"Ritornata a casa si sentì debole e si rimise a letto. Respirava affannosamente, e non poteva quasi parlare; e tuttavia mi disse che la passeggiata le aveva fatto bene, e che aveva caro di aver veduto ancora una volta il verde della campagna.

"Ancora una volta" pensai tristamente. Ma ella non aveva dato quel senso alle sue parole, e parevami invece si fosse rinvigorita nella speranza. Mi parlava dei suoi progetti per il prossimo inverno, si faceva promettere tante cose, e mi assicurava che saremmo stati felici. Io stesso mi abbandonavo a crederlo.

Benedetto il sorriso del dolore, benedette le povere lusinghe della sventura!

All'improvviso Clelia si sentì venir meno.

–Tu soffri? le domandai.

–T'inganni-mi rispose con un filo di voce-l'emozione, la stanchezza forse – io non sono molto forte-soggiunse sorridendo.

Una specie di rantolo soffocò un'altra volta la sua voce; gli occhi suoi mi guardarono implorando il mio ajuto; poi si chiusero lentamente.

Il grido della disperazione partì spento dal mio petto, come un baleno stanco traverso il fitto delle nuvole. Accostai il mio al suo pallido labbro-ella respirava ancora; le sollevai il capo, e lo appoggiai sui cuscini; poi cercai il suo cuore sotto le vesti discinte-batteva agitato.

Io era solo; volli chiamare e corsi per la camera istupidito. Passando innanzi ad uno specchio vidi la mia immagine e quella di Clelia-uno spettro che errava intorno ad un cadavere.

Il nero volto di Charruà comparve sull'uscio; nè io l'aveva chiamato. Mi guardò un'istante; io gli feci un gesto e volli parlare; l'ansia me ne tolse la forza.

Charruà mi comprese, e senza attendere più oltre s'allontanò.

Io mi gettai sul letto di Clelia cogli occhi fissi sul suo volto.

Mi pareva che la morte dovesse stendere ad ogni istante le sue scarne braccia per rapirmela-e che fosse lì, immobile, ai piedi del letto, a rimirare il mio affanno e la sua preda…

Un brivido mi corse per le vene e mi guardai all'intorno impaurito.

Charruà ritornò in compagnia del medico.

Io mi rivolsi a quell'uomo come ad un benefattore; gli additai Clelia, ed invocai d'uno sguardo supplichevole che la salvasse.

Il medico s'accostò al suo capezzale, la guardò attento senza tradire alcuna emozione, poi guardò me, vide la mia preghiera, e scosse il capo melanconicamente. "Coraggio" mi disse facendomisi dappresso.

E poichè io non rispondeva, egli mosse alcuni passi per uscire.

–In nome del cielo, ogni speranza adunque è perduta? domandai arrestandolo..

–Coraggio, ripetè con voce commossa.

"È finita" pensai, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi. – Oggi? domandai coll'insistenza della disperazione.

–Forse.

Quest'ultima parola mi passò il petto come una lama di coltello."

LXIV

"Passai tutto quel giorno accanto al suo letto, senza potermi acquetare al pensiero della sciagura che mi minacciava.

Avessi io potuto lottare corpo a corpo col destino, avrei vinto la sua inflessibilità.

Pensavo che sarebbe del mio avvenire, e come avrei potuto sopravvivere alla morte del mio cuore. Immaginavo, anticipandomene l'amarezza, le giornate tristi e le ore numerate nella solitudine; e come ogni oggetto m'avrebbe parlato di lei, e avrebbe risuscitato una memoria del passato, una memoria della mia felicità e del mio amore; Ahimè, il mio amore, il mio passato erano perduti inesorabilmente; la mia felicità era seppellita con Clelia.

Seppellita! terribile pensiero!.. Allora guardavo il volto scarno di Clelia, vedevo la povera vita di quel corpo adorato fuggire sotto i miei occhi-nè il mio amore possente aveva forza d'arrestarla un istante.

Alla notte venne la contessa B. Aveva mandato ogni giorno a chiedere novelle di Clelia, e come seppe del pericolo in cui versava, volle esserle vicino. – Quella buona signora mi trovò mutato.

–Mi strappa il cuore, le risposi, additandole Clelia; potesse almeno portarmi seco, potessi almeno morire!..

Anche la contessa mi ripetè quella triste parola: "coraggio."

–Coraggio! Sì, coraggio, per poter sopravvivere al mio angelo che muore; ch'io mi ricinga adunque di questa corazza per vederla mancare e non affliggermi della sua perdita, per poter gettare il mio pugno di terra sulla sua bara e udirne il rumore sordo senza rimanere impietrato accanto alla sua tomba.

–Zitto… interruppe la contessa ponendo l'indice sulle labbra; ella si muove… parla… avviciniamoci.

Un freddo sudore mi bagnò la fronte, e non ebbi forza di muovere un passo.

Clelia si era scossa, aveva levato lentamente un braccio di sotto le lenzuola, e riaprendo gli occhi li girava all'intorno.

Mi trascinai daccanto ad essa.

–Che hai? mi disse Clelia. – Voi qui! soggiunse con voce quasi spenta, vedendo la contessa-quale piacere!..

Poi tacque e non disse altro.

–Ella muore! esclamai.

Clelia riaprì gli occhi, e mi guardò serenamente senza parlare.

–Confortatevi, mi disse a bassa voce la contessa-forse ogni speranza non è perduta.

Tentennai il capo in aria di dubbio-ma in fondo al cuore speravo."

LXV

"Da quel punto Clelia parve rinvigorirsi; uscita dal letargo in cui era caduta, volle ch'io le sedessi accanto-La contessa dall'opposta parte del letto levava le mani al cielo, come a ringraziarlo.

La fiducia rinacque nel mio cuore.

–Che cosa avevi pocanzi? mi domandò Clelia.

–Dolevami che tu soffrissi, risposi titubante.

Fece atto di non dar fede alle mie parole, e tacque. Poco dopo guardò me e la contessa, e domandò se credevamo che ella dovesse morire.

Oramai io aveva ragioni per sperare che avrebbe vissuto, ma se anche non ne avessi avuto alcuna, io non avrei mai potuto avere la convinzione della sua morte. Mi sarebbe parso di arrendermi, di accettare il mio destino, di recidere io stesso l'ultimo filo che teneva in vita il mio amore; al contrario io voleva lottare fino alla fine, contendere fin l'ultimo alito di quel corpo adorato.

Non so più che rispondessi a Clelia; so che la contessa mi prevenne.

–Levatevi di capo queste melanconie, disse ella; voi siete giovane, bella, amata-voi dovete vivere, vivrete, sarete felice.

–Lo credete? riprese a dire Clelia-gli è bene perchè io sono giovane e amata che ho paura di morire.

E siccome io mi faceva triste in volto, soggiunse sorridendo:

–Ho speranza anch'io di vivere.

Una parte della notte passò quasi lieta. Clelia rianimata sempre più era diventata scherzosa, e s'abbandonava a fantasticherie pell'avvenire.

Quel sognare ad occhi aperti così proprio dell'infanzia non è forse altro che una malattia dello spirito. E gli infermi assomigliano in questo appunto ai fanciulli-essi hanno vissuto in certo modo lontani dal mondo, hanno sentito la vita fuggire dal corpo, e pare loro che il mondo li attenda a braccia aperte, e la vita non prometta che rose. Hanno dimenticato gli affanni che turbarono un tempo le loro notti, le lagrime versate, le amarezze d'ogni giorno, le perfidie, gli inganni, le mentite lusinghe-e sorridono al mondo ed alla vita. Benefica illusione, ma breve, come ogni bene che è frutto di dolore.

–Verrò alle vostre serate, disse Clelia alla contessa-L'inverno prossimo voi ne darete, non è vero?

–Senza dubbio, mia cara, rispose la contessa.

–E tu mi ci condurrai volentieri, aggiunse Clelia volgendosi a me-è là che ci siamo conosciuti, che abbiamo incominciato ad amarci. E dite dunque-e si volgeva ancora alla contessa-non mi avete parlato della moda.

–Il bollettino è alquanto capriccioso, v'ha una sola notizia positiva: abolito il nastro, le frangie in grande onore…

–È strano, interruppe Clelia perdendo d'un tratto la lieve tinta rosea che aveva avvivato le sue guancie.

–Infatti-rispondeva la contessa errando sul senso di quella espressione.

Ma io che non avevo abbandonato dell'occhio un solo istante la fisonomia di Clelia, conobbi che il suo respiro si faceva più debole. D'uno sguardo ne feci accorta la contessa; entrambi stemmo silenziosi e commossi ad osservare.

–Mi sento stanca; ho abusato delle mie forze, soggiunse Clelia-Vorrei dormire un poco.

S'addormentò in breve.

Consigliai la contessa a ritirarsi e prendere anch'essa un po' di riposo-s'ostinò un poco nel rifiuto, ma poi che il sonno di Clelia era tranquillo e il mio spirito più calmo, aderì, pregandomi la facessi chiamare alle due.

Suonava allora la mezzanotte.

Mi raccolsi dentro di me medesimo, e pensai.

Mi tornò in mente Eugenio, e sentii nel core come un pallidissimo riflesso della gelosia che egli aveva suscitato un tempo nel mio seno. Volli rivolgere ad altro il mio pensiero, ma, come fossi incatenato a quell'idea, me ne allontanavo un istante e le giravo all'intorno senza potermene liberare.

"Lo aveva Clelia dimenticato, o l'amava tuttavia in segreto?"

Dubbio che durava da gran tempo nel mio cuore-reso meno straziante in quell'ora dalla minaccia di un dolore più grande, ma tuttavia dubbio dolorosissimo.

Clelia ruppe d'un tratto la calma regolare del suo respiro; tutti i miei pensieri fuggirono come per incanto.

La poveretta si destò, mi vide al suo capezzale, cercò colla mano scarna la mia, e la strinse come a ringraziarmi delle mie cure.

–È tardi? domandò con voce fioca-Ho sempre dormito?

–Sempre. Come ti senti?

–Bene. Vorrei dormire ancora, ho le palpebre pesanti.

–E tu dormi.

–Non posso… ho un affanno…

–Un affanno!

Parve lottare un istante; poi con un debole sforzo si trasse più presso a me, e balbettò al mio orecchio: "mi perdoni?"

–Che cosa? domandai, ma il mio cuore l'aveva indovinato.

"E potevi tu comandare al tuo cuore, povero angiolo?" pensai dentro di me-"Ti amo!" le dissi forte.

–Mi perdoni? insistè.

–Ti perdono.

Le sue labbra gelide si posarono sopra la mia faccia, e la sua mano trovò ancora la mia; ricadde sul guanciale e chiuse gli occhi per dormire.