Za darmo

Le tigri di Monpracem

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

AMORE ED EBBREZZA

Giunto sulla cima della grande rupe, Sandokan si fermò sull’orlo e il suo sguardo si spinse lontano, lontano verso l’est, in direzione di Labuan.

– Gran Dio! – mormorò egli. – Quale distanza mi separa da quella celeste creatura! Cosa farà lei a quest’ora? Mi piangerà per morto o mi piangerà prigioniero? Un sordo gemito gli uscì dalle labbra e chinò il capo sul petto.

– Fatalità! – mormorò.

Aspirò il vento della notte come se aspirasse il lontano profumo della sua diletta, poi si avvicinò a lenti passi alla grande capanna, ove era ancora illuminata una stanza.

Guardò attraverso i vetri di una finestra e vide un uomo seduto dinanzi ad un tavolo, colla testa fra le mani.

– Yanez – disse, sorridendo tristemente. – Cosa dirà quando saprà che la Tigre torna vinta e stregata?

Soffocò un sospiro e aprì pian piano la porta, senza che Yanez lo udisse.

– Ebbene, fratello – disse, dopo qualche istante. – Hai dimenticato la Tigre della Malesia?

Le parole non erano ancora terminate, che Yanez si slanciava fra le sue braccia, esclamando:

– Tu! tu!… Sandokan!… Ah! io ti credevo ormai perduto per sempre!

– No, sono ritornato, come ben vedi.

– Ma disgraziato amico, dove sei stato tutti questi giorni? Sono quattro settimane che io attendo in preda a mille ansie. Cos’hai tu fatto in tanto tempo? Hai saccheggiato il sultano di Varauni o la «Perla di Labuan» ti ha stregato? Rispondi fratello mio, che l’impazienza mi strugge.

Invece di rispondere a tutte quelle domande, Sandokan si mise a fissare in silenzio, colle braccia incrociate sul petto, lo sguardo torvo ed il volto abbuiato.

– Orsù – disse Yanez, sorpreso per quel silenzio. – Parla: cosa significa il vestito che tu indossi e perché mi guardi così? Ti è accaduta qualche disgrazia?

– Disgrazia! – esclamò Sandokan con voce rauca. – Ma ignori tu adunque che dei cinquanta tigrotti che io conducevo contro Labuan, non sopravvive che il solo Giro-Batol? Non sai tu adunque che sono caduti tutti sulle coste dell’isola maledetta, sventrati dal ferro degli inglesi, che io sono caduto gravemente ferito sul ponte di un incrociatore e che i miei legni riposano in fondo al mare della Malesia?

– Battuto tu!… È impossibile! È impossibile!…

– Sì, Yanez, sono stato vinto e ferito, i miei uomini sono stati distrutti ed io ritorno mortalmente malato!…

Il pirata fece scorrere, con gesto convulso, una sedia fino al tavolo, vuotò uno dietro l’altro tre bicchieri di whisky, poi con voce rotta o animata, rauca o stridula, alternando gesti violenti e imprecazioni, narrò per filo e per segno tutto ciò che gli era accaduto, lo sbarco a Labuan, l’incontro coll’incrociatore, la pugna tremenda impegnata, l’abbordaggio, le ferita toccatagli, le sofferenze e la guarigione.

Quando però venne a parlare della «Perla di Labuan», tutta la sua ira sfumò. La sua voce poco prima rauca, strozzata pel furore, prese allora un altro tono diventando dolce, carezzevole, appassionata.

Descrisse con slancio poetico le bellezze della giovane lady, quegli occhi grandi, dolci, melanconici, azzurri come l’acqua del mare che lo avevano profondamente commosso; parlò di quei capelli lunghi, più biondi dell’oro, più sottili della seta, più profumati delle rose dei boschi; di quella voce incomparabile, angelica che aveva fatto stranamente vibrare le corde del suo cuore fino allora inaccessibile e di quelle mani che sapevano trarre dalla mandola quei suoni così soavi, così dolci che lo avevano affascinato, che lo avevano incantato.

Dipinse colla viva passione i cari momenti passati accanto alla donna amata, momenti sublimi, durante i quali più non si ricordava né di Mompracem né dei suoi tigrotti e in cui dimenticava persino di essere la Tigre della Malesia, venendo poi man mano a narrare tutte le avventure che seguirono dopo, ossia dalla caccia alla tigre, alla confessione del suo amore, al tradimento del lord, alla fuga, all’incontro di Giro-Batol e all’imbarco per Mompracem.

– Odimi, Yanez – continuò egli con accento ancora commosso. – Nel momento in cui io mettevo piede nella canoa per abbandonare indifesa quella creatura, ho creduto che mi si lacerasse il cuore. Avrei voluto piuttosto di lasciare quell’isola, subissare la canoa e Giro-Batol; avrei voluto far rientrare il mare nella terra e far sorgere in sua vece un mare di fuoco onde non potessi più valicarlo. In quel momento avrei distrutto senza rimpianti la mia formidabile Mompracem, affondati i miei prahos, dispersi i miei uomini e non avere voluto essere mai stato… la Tigre della Malesia!…

– Ah! Sandokan! – esclamò Yanez, con tono di rimprovero.

– Non rimproverarmi, Yanez! Se tu sapessi cosa io provo qui, in questo cuore che io credevo di ferro, inaccessibile a qualsiasi passione! Odimi: io amo quella donna a tale punto che se ella mi apparisse dinanzi e mi dicesse di rinnegare la mia nazionalità e di farmi inglese… io, la Tigre della Malesia, che giurai odio eterno a quella razza… lo farei senza esitare!… Ho un fuoco indomabile che mi scorre senza posa nelle vene, che mi consuma le carni; mi pare di aver sempre il delirio, e di avere un vulcano in mezzo al cuore; mi pare di diventare pazzo, pazzo!… Ed è dal giorno in cui ho veduto quella creatura che io sono in questo stato, Yanez. E l’ho sempre dinanzi quella visione celeste; ovunque volga lo sguardo io la vedo sempre, sempre, sempre quel genio scintillante di bellezza che mi abbrucia, che mi consuma!…

Il pirata si alzò con brusco gesto, col volto alterato, coi denti convulsamente stretti. Fece alcuni giri attorno alla stanza, come se cercasse di allontanare quella visione che lo perseguitava e calmare le ansie che lo torturavano, poi si fermò dinanzi al portoghese, interrogandolo collo sguardo, ma questi rimase muto.

– Tu non lo crederai, – riprese Sandokan, – ma io ho lottato tremendamente prima di lasciarmi vincere dalla passione. Ma né la ferrea volontà della Tigre della Malesia, né il mio odio per tutto ciò che sa di inglese hanno potuto frenare gli impeti del cuore.

«Quante volte ho tentato di spezzare la catena! Quante volte quando mi assaliva il pensiero di dover un giorno, per sposare quella donna, abbandonare il mio mare, por fine alle mie vendette, abbandonare la mia isola, perdere il mio nome di cui andavo un dì tanto altero, perdere i miei tigrotti; ho cercato di fuggire, di porre fra me e quegli occhi affascinanti una barriera insormontabile! Eppure ho dovuto cedere, Yanez. Mi sono trovato fra due abissi: qui Mompracem coi suoi pirati, fra il balenar dei suoi cento cannoni e i suoi vittoriosi prahos; là quell’adorabile creatura dai biondi capelli e gli occhi azzurri. Mi sono librato a lungo esitando e sono precipitato verso quella fanciulla dalla quale, lo sento, nessuna forza umana saprà strapparmi. Ah! sento che la Tigre cesserà di esistere!…»

– Dimenticala adunque! – disse Yanez scuotendosi.

– Dimenticarla!… È impossibile Yanez, è impossibile!… Sento che non potrò mai spezzare le catene dorate che ella ha gettate attorno al mio cuore. Né le battaglie, né le grandi emozioni della vita piratesca, né l’amore dei miei uomini, né le più tremende stragi, né le più spaventevoli vendette sarebbero capaci di farmi dimenticare quella fanciulla. La sua immagine si frapporrebbe sempre fra me e quelle emozioni e spegnerebbe l’antica energia e il valore della Tigre. No, no, non la dimenticherò mai, sarà mia moglie dovesse costarmi il mio nome, la mia isola, la mia potenza, tutto, tutto!…

Si arrestò per la seconda volta, guardando Yanez che era ricaduto nel suo mutismo.

– Ebbene, fratello?– chiese.

– Parla.

– Mi hai compreso?

– Sì.

– Cosa mi consigli? Cosa hai da rispondermi ora che ti ho svelato tutto?

– Dimentica quella donna, ti ho detto.

– Io!…

– Hai tu pensato alle conseguenze che potrebbero derivare da questo insensato amore? Cosa diranno i tuoi uomini quando sapranno che la Tigre è innamorata? E poi cosa farai tu di questa fanciulla? E diventerà poi tua moglie? Dimenticala, Sandokan, abbandonala per sempre, ritorna la Tigre della Malesia dal cuore di ferro.

Sandokan si alzò di scatto e si diresse verso la porta che aprì con violenza.

– Dove vai? – chiese Yanez balzando in piedi.

– Ritorno a Labuan – rispose Sandokan. – Domani dirai ai miei uomini che ho abbandonato per sempre la mia isola e che tu sei il loro nuovo capo. Non udranno più mai parlare di me, poiché io non ritornerò mai più su questi mari.

– Sandokan! – esclamò Yanez afferrandolo strettamente per le braccia. – Sei pazzo per ritornare solo a Labuan mentre qui hai navi, hai cannoni e uomini devoti, pronti a farsi uccidere per te o per la donna del tuo cuore? Io ho voluto tentarti, ho voluto vedere se era possibile sradicare dal tuo cuore la passione che nutri per quella donna che appartiene ad una razza che tu dovevi per sempre odiare…

– No, Yanez! no, non è inglese quella donna, perché ella mi ha parlato di un mare azzurro e più bello del nostro, e che lambe la sua lontana patria, di una terra coperta di fiori, dominata da un fumante vulcano, di un paradiso terrestre dove si parla una lingua armoniosa, che nulla ha di comune con quella inglese.

– Non importa: inglese o no, giacché tu l’ami così immensamente, noi tutti ti aiuteremo a farla tua sposa purché tu ritorni felice. Puoi ritornare ancora la Tigre della Malesia anche sposando la giovinetta dai capelli d’oro. Sandokan si precipitò fra le braccia di Yanez e quei due uomini rimasero a lungo abbracciati.

– Dimmi ora, – chiese il portoghese, – cosa intendi di fare?

– Partire più presto che è possibile per Labuan e rapire Marianna.

– Hai ragione. Il lord, se viene a sapere che tu hai lasciato l’isola e che sei tornato a Mompracem, può prendere il largo per paura di vederti ritornare. Bisogna agire prontamente o la partita è perduta. Va’ ora a dormire che hai bisogno di un po’ di calma e lascia a me la cura di preparare ogni cosa. Domani la spedizione sarà pronta a salpare.

 

– A domani, Yanez.

– Addio fratello – rispose il portoghese, e uscì scendendo lentamente la scaletta. Sandokan, rimasto solo, tornò a sedersi dinanzi al tavolo, più cupo e più agitato che mai, facendo saltare i tappi di parecchie bottiglie di whisky.

Si sentiva il bisogno di stordirsi, per dimenticare per alcune ore almeno quella giovanetta che lo aveva stregato e per calmare l’impazienza che lo rodeva. Si mise a bere con una specie di rabbia, vuotando uno dopo l’altro parecchi bicchieri.

– Ah! – esclamò egli. – Potessi addormentarmi e non risvegliarmi che a Labuan. Sento che questa impazienza, che questo amore, che questa gelosia mi ucciderà. Sola!… Sola a Labuan!… E forse mentre io sono qui, il baronetto le farà la corte.

Si alzò in preda a un violento impeto di furore e si mise a passeggiare come un pazzo rovesciando le sedie, infrangendo le bottiglie ammucchiate negli angoli, spezzando i vetri dei grandi scaffali ripieni di oro e di gioie e si fermò dinanzi all’armonium.

– Darei mezzo del mio sangue per poter imitare una di quelle care romanze che ella mi cantava quando languivo vinto e ferito nella villa del lord. E non è possibile, non mi rammento più nulla! Era una lingua straniera la sua, ma una lingua celeste che Marianna sola poteva conoscere. Oh, come eri bella allora, «Perla di Labuan»! Quale ebbrezza, quale felicità tu versavi nel mio cuore, in quei sublimi momenti, o mia diletta fanciulla.

Fece scorrere le dita sulla tastiera suonando una romanza selvaggia, vertiginosa, di un effetto strano, nella quale pareva talora di udire gli scrosci di un uragano o i lamenti di gente che muore.

Si arrestò come fosse stato colpito da un nuovo pensiero e ritornò al tavolo prendendo una tazza ricolma.

– Ah! Vedo gli occhi di lei nel fondo – disse egli. – Sempre i suoi occhi, sempre la sua figura, sempre la «Perla di Labuan»!

La vuotò, la riempì ancora e tornò a guardare dentro.

– Delle macchie di sangue! – esclamò. – Chi ha versato del sangue nella mia tazza?. Sangue o liquore, bevi Tigre della Malesia che l’ebbrezza è la felicità.

Il pirata che ormai era ebbro si rimise a bere con nuova foga, ingollando l’ardente liquido come fosse acqua, alternando imprecazioni e suoni di risa.

Si rizzò, ma ricadde sulla sedia lanciando attorno sguardi torvi. Gli pareva di vedere delle ombre correre per la stanza, dei fantasmi che gli mostravano ghignando scuri, kriss e scimitarre insanguinate. In una di quelle ombre credette di ravvisare il suo rivale, il baronetto William.

Si sentì prendere da un impeto di furore e digrignò ferocemente i denti.

– Ti vedo, ti vedo maledetto inglese – urlò. – Ma guai a te se posso afferrarti! «Tu vuoi rubarmi la «Perla», lo leggo nei tuoi occhi, ma io te lo impedirò, verrò a distruggere la tua casa, quella del lord, metterò a ferro e fuoco Labuan, farò scorrere dovunque sangue e vi sterminerò tutti… tutti!… Ah! tu ridi!… Aspetta, aspetta che io venga!…»

Egli era allora giunto al colmo dell’ebbrezza. Si sentì prendere da una smania feroce di distruggere tutto, di tutto rovesciare.

Dopo reiterati sforzi si sollevò, afferrò una scimitarra e sostenendosi a mala pena, appoggiandosi ai muri si mise a menare colpi disperati, ovunque, correndo dietro all’ombra del baronetto che pareva sempre gli sfuggisse, lacerando le tappezzerie, frantumando le bottiglie, avventando tremendi colpi sugli scaffali, sulla tavola, sull’armonium, facendo piovere dai vasi infranti torrenti d’oro, di perle e di diamanti, finché spossato, vinto dall’ebbrezza cadde fra tutte quelle rovine, addormentandosi profondamente.

IL CAPORALE INGLESE

Quando si svegliò si trovò coricato sull’ottomana, trasportatovi dai malesi addetti al suo servizio.

I vetri spezzati erano stati tolti di là, gli ori e le perle erano state ricollocate negli scaffali, i mobili raddrizzati e accomodati alla meglio. Solo si vedevano le tracce lasciate dalla scimitarra del pirata sulle tappezzerie che pendevano ancora lacerate dalle muraglie.

Sandokan si stropicciò parecchie volte gli occhi e si passò più volte le mani sull’ardente fronte come se cercasse di rammentarsi ciò che aveva commesso.

– Non posso aver sognato – mormorò. – Sì, ero ebbro e mi sentivo felice, ma ora il fuoco torna ad avvampare nel mio cuore; che non lo possa spegnere più mai? Quale passione ha invaso il cuore della Tigre!…

Si strappò di dosso la divisa del sergente Willis, indossò nuove vesti scintillanti d’oro e di perle, si mise in capo un ricco turbante sormontato da uno zaffiro grosso quanto una noce, si passò fra le pieghe della fascia un nuovo kriss e una nuova scimitarra e uscì.

Aspirò una boccata d’aria marina, che gli dissipò completamente gli ultimi vapori dell’ebbrezza, guardò il sole che era già assai alto, poi si volse verso oriente guardando in direzione della lontana Labuan e sospirò.

– Povera Marianna!… – mormorò, comprimendosi il petto.

Percorse con quegli occhi d’aquila il mare e guardò ai piedi della rupe. Tre prahos, colle grandi vele spiegate, stavano dinanzi al villaggio, pronti a prendere il largo.

Sulla spiaggia i pirati andavano e venivano, occupati a imbarcare armi, munizioni da bocca e da guerra e cannoni. In mezzo a loro Sandokan scorse Yanez.

– Buon amico – mormorò. – Mentre io dormivo egli preparava la spedizione. Scese i gradini e si diresse verso il villaggio. Appena i pirati lo videro, un immenso urlo echeggiò:

– Viva la Tigre! Viva il nostro capitano!

Poi tutti quegli uomini, che parevano fossero stati presi da una subitanea pazzia, si precipitarono confusamente attorno al pirata assordandolo con grida di gioia, baciandogli le mani, le vesti, i piedi, minacciando di soffocarlo. I più vecchi capi della pirateria piangevano di gioia, nel rivederlo vivo, mentre lo avevano creduto morto sulle coste dell’isola maledetta.

Nessun lamento usciva da quelle bocche, nessun rimpianto pei loro compagni, pei loro fratelli, pei loro figli, pei loro parenti caduti sotto il ferro degli inglesi nella disastrosa spedizione, ma di quando in quando da quei petti di bronzo irrompevano tremende le grida di:

– Abbiamo sete di sangue, Tigre della Malesia! Vendetta pei nostri compagni!… Andiamo a Labuan a esterminare i nemici di Mompracem.

– Amici – disse Sandokan con quell’accento metallico e strano che affascinava. – La vendetta che voi recate non tarderà. Le tigri che io conducevo a Labuan sono cadute sotto i colpi dei leopardi dalla pelle bianca, cento volte più numerosi e cento volte più armati dei nostri, ma la partita non è ancora chiusa.

«No, tigrotti, gli eroi che caddero pugnando sulle spiagge dell’isola maledetta non rimarranno invendicati. Stiamo per partire per quella terra dei leopardi e giunti là renderemo ruggito per ruggito, sangue per sangue! Il giorno della pugna le tigri di Mompracem divoreranno i leopardi di Labuan!»

– Sì, sì, a Labuan! A Labuan! – gridarono i pirati agitando freneticamente le armi.

– Yanez, è tutto pronto? – chiese Sandokan.

Yanez parve che non lo avesse udito. Era salito su quel vecchio affusto d’un cannone e guardava attentamente verso un promontorio che si prolungava assai sul mare.

– Cosa cerchi, fratellino? – gli chiese Sandokan.

– Vedo l’estremità d’un albero spuntare dietro quelle scogliere – rispose il portoghese.

– Uno dei nostri prahos?

– Quale altro legno oserebbe avvicinarsi alle nostre coste?

– Non sono tutti rientrati i nostri velieri?

– Tutti meno uno, quello di Pisangu, uno dei più grossi e dei meglio armati.

– Dove l’avevi mandato?

– Verso Labuan onde ti cercasse.

– Sì, è il praho di Pisangu – confermò un capo banda. – Vedo però un solo albero, signor Yanez.

– Che si sia battuto ed abbia perduto il trinchetto? – si chiese Sandokan. – Attendiamolo. Chissà!… Può recarci qualche notizia da Labuan.

Tutti i pirati erano saliti sui bastioni per meglio osservare quel veliero che s’avanzava lentamente, seguendo il promontorio. Quand’ebbe girata la punta estrema, un grido solo sfuggì da tutti i petti:

– Il praho di Pisangu!

Era veramente il veliero che Yanez, tre giorni prima, aveva mandato verso Labuan onde cercasse di aver notizie della Tigre della Malesia e dei suoi prodi, ma in quale stato ritornava! Dell’albero di trinchetto non rimaneva che un troncone; quello maestro si reggeva a malapena, sostenuto da una fitta rete di sartie e di paterazzi. Le murate non esistevano quasi più e anche i fianchi si vedevano gravemente danneggiati e irti di tappi di legno per chiudere i fori aperti dalle palle.

– Quel legno deve essersi ben battuto – disse Sandokan.

– Pisangu è un valoroso che non teme di assalire anche le grosse navi – rispose Yanez.

– Toh!… Mi pare che conduca qualche prigioniero. Non scorgi una giacca rossa fra i nostri bravi tigrotti?

– Sì, mi pare di vedere un soldato inglese legato all’albero maestro – disse Yanez.

– Che l’abbia preso a Labuan?

– Non l’avrà certamente pescato in mare.

– Ah!… Se potesse darmi notizie di…

– Marianna, è vero, fratellino mio?

– Sì – rispose Sandokan, con voce sorda.

– Lo interrogheremo.

Il praho aiutato dai remi, essendo il vento piuttosto debole, s’avanza rapidamente. Il suo capitano, un bornese di alta statura, di forme splendide, che lo faceva rassomigliare ad una superba statua di bronzo antico anche in causa della tinta olivastra, scorgendo Yanez e Sandokan mandò un grido di gioia, poi alzando le mani urlò:

– Buona preda!

Cinque minuti dopo il veliero entrava nella piccola baia gettando l’ancora a venti passi dalla sponda. Una scialuppa fu subito messa in mare e Pisangu vi prese posto assieme al soldato ed a quattro rematori.

– Da dove vieni? – gli chiese Sandokan appena sbarcato.

– Dalle coste orientali di Labuan, mio capitano – disse il bornese. – Mi ero spinto colà colla speranza di avere notizie e son ben felice di ritrovarvi qui e sano ancora.

– Chi è quell’inglese?

– Un caporale, capitano.

– Dove l’hai fatto prigioniero?

– Presso Labuan.

– Narra ogni cosa.

– Stavo perlustrando le spiagge, quando vidi un canotto montato da quell’uomo sbucare dalla foce d’un piccolo fiumicello. Il briccone doveva avere dei compagni sulle due rive, poiché lo udivo di frequente a mandare dei fischi acutissimi. «Feci subito mettere in mare la scialuppa e con dieci uomini gli diedi la caccia, sperando che mi desse vostre notizie.

«La cattura non fu difficile, ma quando volli abbandonare la foce del fiumicello, m’accorsi che la via era stata chiusa da una cannoniera. Impegnai risolutamente la lotta, scambiando palle e mitraglia in abbondanza. Una vera tempesta, mio capitano, che mi distrusse mezzo equipaggio e che mi rovinò il legno, ma che ridusse a mal partito anche la cannoniera.

«Quando vidi che il nemico si ritirava, con due bordate presi il largo tornandomene qui più che in fretta.»

– E quel soldato viene proprio da Labuan?

– Sì, mio capitano.

– Grazie, Pisangu. Conducete il soldato.

Quel disgraziato era stato di già spinto sulla spiaggia e circondato dai pirati i quali avevano già cominciato a maltrattarlo ed a strappargli di dosso i galloni di caporale.

Era un giovanotto di venticinque o ventotto anni, grasso, di statura piuttosto bassa, biondo, roseo e paffuto.

Pareva assai spaventato di trovarsi in mezzo a quelle bande di pirati, però nessuna parola gli usciva dalle labbra.

Vedendo Sandokan, si sforzò di sbozzare quel sorriso, poi disse con certo tremito nella voce:

– La Tigre della Malesia.

– Mi conosci? – gli chiese Sandokan.

– Sì.

– Dove mi hai veduto?

– Nella villa di lord Guillonk.

– Sarai stupito di vedermi qui.

– È vero. Vi facevo ancora a Labuan e già nelle mani dei miei camerati.

– C’eri anche tu fra quelli che mi davano la caccia?

Il soldato non rispose; poi crollando il capo disse:

– La è finita per me è vero signor pirata?

– La tua vita dipende dalle tue risposte – rispose Sandokan.

– Chi può fidarsi della parola d’un uomo che assassina la gente come se bevesse un bicchierino di gin o di brandy?

Un lampo di collera brillò negli occhi della Tigre della Malesia.

– Tu mentisci, cane!…

– Come volete – rispose il caporale.

– E parlerai.

– Hum!…

– Bada!… Ho dei kriss che tagliano un corpo in mille pezzi; ho delle tenaglie roventi per strappare la carne brano a brano; ho del piombo liquefatto da versarti sulle ferite o da far inghiottire ai ricalcitranti. Tu parlerai o ti farò soffrire tanto da invocare la morte come una liberazione.

 

L’inglese impallidì, ma invece di aprire le labbra se le chiuse fra i denti, come se temesse che qualche parola gli sfuggisse.

– Orsù, dove ti trovavi quando io ho lasciato la villa del lord?…

– Nei boschi – rispose il soldato.

– Cosa facevi?

– Nulla.

– Tu vuoi burlarti di me. Labuan ha troppo pochi soldati per mandarli a passeggiare nei boschi, senza alcun motivo – disse Sandokan.

– Ma…

– Parla, voglio sapere tutto.

– Io non so nulla.

– Ah! No? La vedremo.

Sandokan aveva estratto il kriss e con un rapido gesto l’aveva puntato alla gola del soldato, facendo uscire una goccia di sangue. Il prigioniero non seppe frenare un grido di dolore.

– Parla o ti uccido – disse freddamente Sandokan, senza staccare il pugnale, la cui punta cominciava già a rosseggiare.

Il caporale ebbe ancora una breve esitazione ma, vedendo negli occhi della Tigre della Malesia un lampo terribile, cedette.

– Basta! – disse, sottraendosi alla punta del kriss. – Parlerò.

Sandokan fece segno ai suoi uomini di allontanarsi, poi si sedette assieme a Yanez su un affusto di cannone, dicendo al soldato:

– Ti ascolto. Cosa facevi nei boschi?…

– Seguivo il baronetto Rosenthal.

– Ah! – esclamò Sandokan, mentre un cupo lampo gli brillava negli sguardi.

– Lui!…

– Lord Guillonk aveva saputo che l’uomo raccolto moribondo e che aveva curato nella propria casa non era un principe malese, ma invece la terribile Tigre della Malesia e d’accordo col baronetto e col governatore di Vittoria aveva preparato l’agguato.

– E come l’aveva saputo?

– Lo ignoro.

– Continua.

– Furono raccolti cento uomini e ci mandarono a circondare la villa per impedire a voi la fuga.

– Questo lo so. Dimmi cos’è avvenuto dopo, quand’io riuscii a forzare le linee e mi rifugiai nei boschi.

– Quando il baronetto entrò nella villa, trovò lord Guillonk in preda ad una tremenda eccitazione. Aveva un ferita alla gamba fattagli da voi.

– Da me!… – esclamò Sandokan.

– Forse inavvertitamente.

– Lo credo, perché se avessi voluto ucciderlo nessuno avrebbe potuto impedirmelo. E lady Marianna?

– Piangeva. Sembra che fra la bella fanciulla e suo zio fosse avvenuta una scena violentissima. Il lord l’accusava di aver favorito la vostra fuga… ed ella invocava pietà per voi.

– Povera fanciulla! – esclamò Sandokan mentre una rapida commozione alterava i suoi lineamenti. – L’odi, Yanez?

– Continua – disse il portoghese al soldato. – Bada però di dire il vero poiché tu rimarrai qui fino al nostro ritorno da Labuan. Se avrai mentito non sfuggirai alla morte.

– È inutile che io v’inganni – rispose il caporale. – Riuscito infruttuoso l’inseguimento, noi restammo accampati presso la villa per proteggerla contro il possibile assalto dei pirati di Mompracem.

«Correvano delle voci poco rassicurabili. Si diceva che dei tigrotti erano sbarcati e che la Tigre della Malesia stava nascosta nei boschi, pronta a piombare sulla villa e a rapire la fanciulla.

«Cosa sia poi avvenuto, io lo ignoro. Devo però dirvi che lord Guillonk aveva preso gli accordi opportuni per ritirarsi a Vittoria, sotto la protezione degli incrociatori e dei forti.»

– Ed il baronetto Rosenthal?

– Sposerà fra breve lady Marianna.

– Hai detto?… – gridò Sandokan, scattando in piedi.

– Che egli vi prenderà la fanciulla.

– Vuoi ingannarmi?

– A quale scopo? Vi dico che fra un mese quel matrimonio si farà.

– Ma lady Marianna detesta quell’uomo.

– Cosa importa a lord Guillonk?

Sandokan mandò un urlo di belva ferita e barcollò, chiudendo gli occhi. Uno spasimo tremendo aveva scomposto il suo volto.

S’avvicinò al soldato e scuotendolo furiosamente, gli disse con voce sibilante:

– Tu non mi hai ingannato, è vero?

– Vi giuro che ho detto la verità…

– Tu rimarrai qui e noi andremo a Labuan. Se non avrai mentito ti darò tanto oro quanto pesi.

Poi volgendosi verso Yanez, gli disse con voce decisa:

– Partiamo.

– Sono pronto a seguirti – rispose semplicemente il portoghese.

– Tutto è pronto?

– Non manca che di scegliere gli uomini che dovranno seguirci.

– Condurremo con noi i più valorosi, poiché si tratta di giuocare una partita suprema.

– Lascia però qui forze sufficienti per difendere il nostro rifugio.

– Cosa temi, Yanez?

– Gli inglesi potrebbero approfittare della nostra assenza per gettarsi sulla nostra isola.

– Non oseranno tanto, Yanez.

– Credo il contrario. Ormai a Labuan sono abbastanza forti per tentare la lotta, Sandokan.

«Un giorno o l’altro l’urto decisivo dovrà avvenire.»

– Ci troveranno pronti e vedremo se saranno più decise e valorose le tigri di Mompracem o i leopardi di Labuan.

Sandokan fece schierare le sue bande che contavano più di duecentocinquanta uomini, reclutate fra le più guerriere tribù del Borneo e delle isole del mar Malese, e ne scelse novanta tigrotti, i più coraggiosi, ed i più robusti, vere anime dannate che ad un suo cenno non avrebbero esitato a scagliarsi anche contro i forti di Vittoria, la cittadella di Labuan.

Chiamò poi Giro-Batol e mostrandolo alle bande che rimanevano a difesa dell’isola, disse:

– Ecco un uomo che ha la fortuna di essere uno dei più valenti della pirateria, l’unico che sopravvisse dei miei equipaggi nella disgraziata spedizione di Labuan. Durante la mia assenza obbedite a lui come fosse la mia persona. Ed ora, imbarchiamoci, Yanez.