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Le tigri di Monpracem

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Sandokan comprese che l’ultima ora stava per suonare per le tigri di Mompracem.

La sconfitta era completa. Non era più possibile far fronte a quel gigante che vomitava ad ogni istante nembi di proiettili. Non rimaneva che tentare l’abbordaggio, una pazzia, poiché nemmeno sul ponte dell’incrociatore la vittoria poteva arridere a quei valorosi.

Non restavano in piedi che dodici uomini, dodici tigri però guidate da un capo il cui valore era incredibile.

– A me, miei prodi! – gridò egli.

I dodici pirati, cogli occhi stravolti, schiumanti di rabbia, colle pugna chiuse come tenaglie attorno alle armi, facendosi scudo coi cadaveri dei compagni, gli si strinsero attorno.

Il vascello correva allora a tutto vapore addosso al praho, per affondarlo collo sperone, ma Sandokan, appena lo vide a pochi passi, con un colpo di barra evitò l’urto e lanciò il suo legno contro la ruota di babordo del nemico. Avvenne un urto violentissimo. Il legno corsaro si piegò sul tribordo imbarcando acqua e rovesciando morti e feriti in mare.

– Lanciate i grappini! – tuonò Sandokan.

Due grappini d’arrembaggio s’infissero nelle griselle dell’incrociatore. Allora i tredici pirati, pazzi di furore, assetati di vendetta, si slanciarono come un sol uomo all’arrembaggio.

Aiutandosi colle mani e coi piedi, aggrappandosi agli sportelli delle batterie e alle gomene, s’arrampicarono su per la tambura, raggiunsero le murate e si precipitarono sul ponte dell’incrociatore, prima ancora che gli inglesi, stupiti da tanta audacia, avessero pensato a ributtarli.

Colla Tigre della Malesia alla testa si scagliarono contro gli artiglieri, massacrandoli sui loro pezzi, sbaragliarono i fucilieri che erano accorsi per sbarrare loro il passo, poi, tempestando colpi di scimitarra a destra e a sinistra, si diressero verso poppa.

Colà, alle grida degli ufficiali, si erano prontamente radunati gli uomini della batteria. Erano sessanta o settanta, ma i pirati non si fermarono a contarli e si gettarono furiosamente sulle punte delle baionette impegnando una lotta titanica. Avventando colpi disperati, troncando braccia e spaccando teste, urlando per spargere maggior terrore, cadendo e rialzandosi, ora indietreggiando ed ora avanzando, per alcuni minuti tennero testa a tutti quei nemici, ma, moschettati dagli uomini delle coffe, sciabolati a tergo, incalzati dinanzi alle baionette, quei valorosi caddero.

Sandokan e quattro altri, coperti di ferite, colle armi insanguinate fino all’impugnatura, con uno sforzo poderoso si aprirono il passo e tentarono di guadagnare la prua, per arrestare a colpi di cannone quella valanga d’uomini.

A metà del ponte Sandokan cadde colpito in pieno petto da una palla di carabina, ma subito si rialzò, urlando: – Ammazza! Ammazza!… Gli inglesi si avanzavano a passo di carica colle baionette calate. L’urto fu mortale.

I quattro pirati che si erano gettati dinanzi al loro capitano per coprirlo, sparvero fra una scarica di fucili, rimanendo stecchiti; ma non così accadde alla Tigre della Malesia.

Il formidabile uomo, malgrado la ferita che mandava fiotti di sangue, con un salto immenso raggiunse la murata di babordo, abbattè col troncone della scimitarra un gabbiere che cercava di trattenerlo e si gettò a capofitto in mare, scomparendo sotto i neri flutti.

LA «PERLA DI LABUAN»

Un tale uomo dotato di una forza così prodigiosa, di una energia così straordinaria e di un coraggio così grande, non doveva morire.

Infatti, mentre il piroscafo proseguiva la sua corsa trasportato dalle ultime battute delle ruote, il pirata con un vigoroso colpo di tallone risaliva a galla e si portava al largo, per non venire tagliato in due dallo sperone del nemico o preso a colpi di fucile.

Rattenendo i gemiti che gli strappava la ferita e frenando la rabbia che lo divorava, si rannicchiò, tenendosi quasi del tutto sommerso, in attesa del momento opportuno per guadagnare le coste dell’isola.

Il legno da guerra virava allora di bordo, a meno di trecento metri. Si avanzò verso il luogo dove si era inabissato il pirata, colla speranza di sbranarlo sotto le ruote, poi tornò a virare.

Si arrestò un momento, come se volesse scrutare quel tratto di mare da lui agitato, poi ripigliò la marcia tagliando in tutti i versi quella porzione d’acqua, mentre i marinai, calatisi nella rete della delfiniera e sulle bancazze, proiettavano per ogni dove la luce di alcuni fanali.

Convinto dell’inutilità delle ricerche, alla fine s’allontanò in direzione di Labuan.

La Tigre emise allora un grido di furore.

– Va’, vascello esecrato! – esclamò. – Va’, ma verrà il giorno in cui ti mostrerò quanto sia terribile la mia vendetta!

Si passò la fascia sulla sanguinante ferita, per arrestare l’emorragia che poteva ucciderlo, poi, raccogliendo le proprie forze, si mise a nuotare, cercando le spiagge dell’isola.

Venti volte però il formidabile uomo si arrestò per guardare il legno da guerra che appena appena distingueva e per lanciargli dietro una terribile minaccia. Vi erano certi momenti in cui quel pirata, ferito forse mortalmente, forse ancora assai lontano dalle coste dell’isola, si metteva ad inseguire quel legno che gli aveva fatto mordere la polvere e lo sfidava con urla che più nulla avevano di umano.

La ragione finalmente la vinse, e Sandokan riprese il faticoso esercizio scrutando le tenebre che gli nascondevano le coste di Labuan. Nuotò così per parecchio tempo, fermandosi di tratto in tratto per riprendere lena e sbarazzarsi delle vesti che lo impacciavano, poi sentì che le forze gli venivano rapidamente meno.

Gli si irrigidivano le membra, la respirazione gli diventava sempre più difficile, e per colmo di disgrazia la ferita continuava a gettar sangue, producendogli dolori acuti pel contatto coll’acqua salata.

Si raggomitolò su se stesso e si lasciò trasportare dal flusso, agitando debolmente le braccia. Cercava di riposare alla meglio per riprendere lena. Ad un tratto sentì un urto. Qualche cosa lo aveva toccato. Era stato un pescecane forse? A quell’idea, non ostante il suo coraggio da leone, si sentì accapponare la pelle.

Allungò istintivamente la mano e afferrò un oggetto scabroso che pareva galleggiasse a fior d’acqua.

Lo tirò a sé e vide che si trattava d’un rottame. Era un pezzo di coperta del praho a cui erano ancora appese delle funi e un pennone.

– Era tempo – mormorò Sandokan. – Le mie forze se ne andavano.

Si issò faticosamente sul rottame, mettendo allo scoperto la ferita, dai cui margini, gonfi e rosi dall’acqua marina, usciva ancora un filo di sangue. Per un’altra ora, quell’uomo che non voleva morire, che non voleva darsi vinto, lottò colle onde, che volta a volta sommergevano il rottame, ma poi le forze gli vennero meno e s’accasciò su se stesso, colle mani però chiuse ancora intorno al pennone.

Cominciava ad albeggiare quando un urto violentissimo lo strappò da quell’accasciamento, che poteva anche chiamarsi quasi uno svenimento. Si alzò faticosamente sulle braccia e guardò dinanzi a sé. Le onde si frangevano con fracasso intorno al rottame, accartocciandosi e spumeggiando. Pareva che rotolassero su dei bassifondi.

Attraverso come ad una nebbia sanguigna, il ferito scorse a breve distanza una costa.

– Labuan – mormorò. – Approderò qua, sulla terra dei miei nemici?

Ebbe una breve esitazione ma poi, radunate le forze, abbandonò quelle tavole che lo avevano salvato da una morte quasi certa e sentendo sotto i piedi un banco sabbioso, si avanzò verso la costa.

Le onde lo urtavano da tutte le parti, urlandogli intorno come molossi in furore, tentando di abbatterlo ed ora spingendolo, ora respingendolo. Pareva che volessero impedirgli di giungere su quella terra maledetta. S’avanzò barcollando attraverso i banchi di sabbia e, dopo d’aver lottato contro le ultime ondate della risacca, raggiunse la sponda coronata di grandi alberi, lasciandosi cadere pesantemente al suolo.

Quantunque si sentisse sfinito per la lunga lotta sostenuta e per la grande perdita di sangue, mise a nudo la ferita e la osservò a lungo. Aveva ricevuta una palla, forse di pistola, sotto la quinta costola del fianco destro e quel pezzo di piombo, dopo di essere scivolato fra le ossa, si era perduto nell’interno, ma senza toccare, a quanto sembrava, alcun organo vitale. Forse quella ferita non era grave, ma poteva diventarlo se non si curava prontamente, e Sandokan, che se ne intendeva un po’, lo sapeva. Udendo a breve distanza il mormorio d’un ruscello, si trascinò fino là, aprì le labbra della ferita diventate gonfie al prolungato contatto con l’acqua marina, e le lavò accuratamente comprimendole poi fino a far uscire ancora alcune gocce di sangue.

Le riunì per bene, le fasciò con un lembo della sua camicia, unico indumento che ancora teneva indosso, oltre la fascia sostenente il kriss.

– Guarirò – mormorò egli quand’ebbe finito, e pronunziò quella parola con tanta energia da credere quasi che egli fosse l’arbitro assoluto della propria esistenza. Quell’uomo di ferro, quantunque abbandonato su quell’isola, dove non poteva trovare altro che nemici, senza un ricovero, senza risorse, sanguinante, senza una mano amica che lo soccorresse, era certo di uscire vittorioso da quella tremenda situazione.

Bevette alcuni sorsi d’acqua per calmare la febbre che cominciava a prenderlo, poi si trascinò sotto un arecche le cui foglie gigantesche, lunghe non meno di quindici piedi e larghe cinque o sei, proiettavano all’intorno una fresca ombra. Vi era appena giunto che si sentì mancare nuovamente le forze. Chiuse gli occhi che roteavano in un cerchio sanguigno e dopo d’aver tentato, ma invano, di mantenersi ritto, cadde fra le erbe rimanendo immobile. Non si riebbe che molte ore dopo, quando già il sole dopo d’aver toccato l’ostro, scendeva verso occidente.

 

Una sete bruciante lo divorava e la ferita non più rinfrescata, gli produceva dolori acuti, insopportabili.

Cercò di rialzarsi per trascinarsi fino al ruscelletto, ma subito ricadde. Allora quell’uomo che voleva essere forte come la fiera di cui portava il nome, con uno sforzo potente, si rizzò sulle ginocchia, gridando quasi in tono di sfida:

– Io sono la Tigre!… A me mie forze!…

Aggrappandosi al tronco del betel, si rizzò in piedi e, mantenendosi su per un prodigio d’equilibrio e d’energia, camminò fino al piccolo corso d’acqua, sulla cui riva ricadde.

Estinse la sete, bagnò nuovamente la ferita, poi si prese il capo fra le mani e fissò gli sguardi sul mare che veniva a frangersi a pochi passi, gorgogliando sordamente.

– Ah! – esclamò egli, digrignando i denti. – Chi avrebbe detto che un giorno i leopardi di Labuan avrebbero vinte le tigri di Mompracem?

«Chi avrebbe detto che io, l’invincibile Tigre della Malesia, sarei approdato qui, sconfitto e ferito? Ed a quando la vendetta? La vendetta!… Tutti i miei prahos, le mie isole, i miei uomini, i miei tesori pur di distruggere questi odiati uomini bianchi che mi disputano questo mare!

«Cosa importa se oggi mi hanno fatto mordere la polvere, quando fra un mese o due tornerò qui coi miei legni a lanciare su queste spiagge le mie formidabili bande assetate di sangue?

«Cosa importa se oggi il leopardo inglese va superbo della sua vittoria? Sarà lui allora che cadrà moribondo ai miei piedi!

«Tremino allora tutti gli inglesi di Labuan, perché mostrerò alla luce degli incendi la mia sanguinosa bandiera!»

Il pirata, così parlando, si era nuovamente rialzato cogli occhi fiammeggianti, agitando minacciosamente la destra come se stringesse ancora la terribile scimitarra, fremente, tremendo. Anche ferito era pur sempre l’indomabile Tigre della Malesia.

– Pazienza per ora, Sandokan – riprese egli, ricadendo fra le erbe e gli sterpi.

– Guarirò, dovessi vivere un mese, due, tre in questa foresta e cibarmi di ostriche e di frutta; ma quando avrò ricuperate le mie forze tornerò a Mompracem, dovessi costruirmi una zattera o assalire una canoa ed espugnarla a colpi di kriss. Stette parecchie ore disteso sotto le larghe foglie dell’arecche, guardando cupamente le onde che venivano a morire quasi ai suoi piedi con mille mormoni. Pareva che cercasse, sotto quelle acque, gli scafi dei suoi due legni colati in quei paraggi o i cadaveri dei suoi disgraziati compagni.

Una febbre fortissima intanto lo assaliva, mentre sentiva ondate di sangue salirgli al cervello. La ferita gli produceva spasimi incessanti, ma nessun lamento usciva dalle labbra del formidabile uomo.

Alle otto il sole precipitò all’orizzonte e, dopo un brevissimo crepuscolo, le tenebre calarono sul mare ed invasero la foresta.

Quell’oscurità produsse un’inesplicabile impressione sull’animo di Sandokan. Ebbe paura della notte, lui, il fiero pirata, che non aveva mai temuto la morte e che aveva affrontato con coraggio disperato i pericoli della guerra ed i furori delle onde!

– Le tenebre! – esclamò egli sollevando la terra colle unghie. – Io non voglio che scenda la notte!… Io non voglio morire!…

Si compresse con ambo le mani la ferita, poi si alzò di scatto. Guardò il mare ormai diventato nero come se fosse di inchiostro; guardò sotto gli alberi indagando la loro cupa ombra; poi, preso forse da un improvviso assalto di delirio, si mise a correre come un pazzo, internandosi nella selva. Dove andava? Perché fuggiva? Certamente una strana paura l’aveva invaso. Nel suo delirio gli pareva di udire in lontananza l’abbaiare di cani, grida d’uomini, ruggiti di fiere. Egli credeva forse di essere già stato scoperto e di venire inseguito. Ben presto quella corsa divenne vertiginosa. Completamente fuori di sé, si precipitava innanzi all’impazzata, scagliandosi in mezzo ai cespugli, balzando sopra tronchi atterrati, varcando torrenti e stagni, urlando, imprecando ed agitando forsennatamente il kriss, la cui impugnatura, tempestata di diamanti, mandava fugaci bagliori.

Continuò così per dieci o quindici minuti, internandosi sempre più sotto gli alberi, destando colle sue grida gli echi della foresta tenebrosa, poi s’arrestò ansante, trafelato.

Aveva le labbra coperte d’una schiuma sanguigna e gli occhi sconvolti. Agitò pazzamente le braccia, poi rovinò al suolo come un albero schiantato dalla folgore.

Delirava; la testa gli pareva che fosse lì lì per iscoppiare e che dieci martelli gli percuotessero le tempie. Il cuore gli balzava nel petto, come se volesse uscirgli e dalla ferita gli sembrava che uscissero torrenti di fuoco.

Credeva di vedere nemici dappertutto. Sotto gli alberi, sotto i cespugli, in mezzo alla frane ed alle radici che serpeggiavano per suolo, i suoi occhi scorgevano uomini nascosti, mentre per l’aria gli sembrava di veder volteggiare legioni di fantasmi, e di scheletri danzanti intorno alle grandi foglie degli alberi.

Degli esseri umani sorgevano dal suolo gementi, urlanti, chi colle teste sanguinanti, chi colle membra tronche e coi fianchi squarciati. Tutti ridevano, sghignazzavano, come se si beffassero dell’impotenza della terribile Tigre della Malesia. Sandokan, in preda ad uno spaventevole accesso di delirio, si rotolava al suolo, si alzava, cadeva, tendeva le pugna e minacciava tutti.

– Via di qua, cani! – urlava. – Cosa volete da me?… Io sono la Tigre della Malesia e non vi temo!… Venite ad assalirmi se l’osate!…

«Ah! Voi ridete?… Mi credete impotente perché i leopardi hanno ferita e vinta la Tigre?… No, non ho paura!…

«Perché mi guardate con quegli occhi di fuoco?… Perché venite a danzarmi intorno?… Anche tu Patan vieni a deridermi?.. Anche tu Ragno di Mare?… Maledetti, vi ricaccerò nell’inferno da cui siete usciti!… E tu Kimperlain, cosa vuoi?… non è bastata dunque la mia scimitarra ad ucciderti… Via tutti, tornate in fondo al mare… nel regno delle tenebre… negli abissi della terra o vi ucciderò ancora tutti!…

«E tu Giro-Batol cosa vuoi? La vendetta? Sì tu l’avrai perché la Tigre guarirà… tornerà a Mompracem… armerà i suoi prahos… verrà qui a esterminare i leopardi inglesi tutti… tutti fino all’ultimo!…»

Il pirata si arrestò colle mani attorno ai capelli, gli occhi strambuzzati, i lineamenti spaventosamente alterati, quindi alzatosi di scatto riprese la sua pazza corsa, urlando:

– Sangue!… Datemi del sangue che spenga la mia sete!… Io sono la Tigre del mar Malese…

Corse per parecchio tempo, sempre urlando e minacciando. Uscì dalla foresta e si precipitò attraverso una prateria all’estremità della quale gli parve di vedere confusamente una palizzata, poi si arrestò ancora cadendo sulle ginocchia. Era sfinito, anelante.

Rimase alcuni istanti, accasciato su se stesso, poi tentò ancora di rialzarsi, ma ad un tratto le forze gli vennero meno, un velo di sangue gli coprì gli occhi e stramazzò al suolo, mandando un ultimo urlo che si perdette fra le tenebre.

LORD JAMES GUILLONK

Quando tornò in sé, con sua grande sorpresa, non si trovava più nella piccola prateria che aveva attraversata durante la notte, bensì in una spaziosa camera tappezzata di carta fiorita di Tung ed adagiato su di un comodo e soffice letto. A tutta prima si credette in preda ad un sogno e si stropicciò parecchie volte gli occhi come per destarsi, ma ben presto si convinse che tutto era realtà. Si alzò a sedere, chiedendosi a più riprese:

– Ma dove sono io? Sono ancora vivo o morto? – Guardò attorno, ma non vide alcuna persona a cui potersi rivolgere.

Allora si mise a osservare minutamente la stanza; era vasta, elegante, illuminata da due grandi finestre attraverso i cui vetri si vedevano degli alberi altissimi. In un canto vide un pianoforte, sul quale stavano sparpagliate delle carte di musica; in un altro un cavalletto con un quadro raffigurante una marina; nel mezzo un tavolo di mogano con sopra un lavoro di ricamo fatto senza dubbio dalle mani di una donna e presso il letto un ricco sgabello ad intarsi di ebano e di avorio, sul quale Sandokan vide, non senza una viva compiacenza, il fedele suo kriss e presso questo un libro semiaperto, con un fiore appassito fra le pagine. Tese gli orecchi, ma non udì alcuna voce; però in distanza udivansi dei suoni delicati che parevano gli accordi di una mandola o di una chitarra.

– Ma dove sono io? – si chiese per la seconda volta. – In casa di amici o di nemici? E chi mai ha fasciata e curata la mia ferita?

Ad un tratto i suoi occhi si fermarono nuovamente sul libro che stava sullo sgabello e, spinto da una irresistibile curiosità, allungò una mano e lo prese. Sulla copertina vi era un nome impresso a lettere d’oro.

– Marianna! – lesse egli. – Cosa vuol dire ciò? È un nome o una parola che io non comprendo?

Tornò a leggere e, cosa strana, si sentì agitato da una sensazione ignota. Qualche cosa di dolce colpì il cuore di quell’uomo, quel cuore che era di acciaio e che restava chiuso alle più tremende emozioni.

Aprì il libro: era coperto d’un carattere leggero, elegante e nitido, ma non riuscì a comprendere quelle parole, quantunque alcune somigliassero alla lingua del portoghese Yanez. Senza volerlo, ma spinto da una forza misteriosa, prese delicatamente quel fiore che poco prima aveva veduto e lo mirò a lungo. Lo fiutò più volte procurando di non guastarlo con quelle dita che altro non avevano stretta che l’impugnatura della scimitarra, provando per la seconda volta una strana sensazione, un misterioso tremito, un non so che nel cuore; poi quell’uomo sanguinario, quell’uomo di guerra, si sentì vincere da un vivo desiderio di portarlo alle labbra!…

Lo ripose quasi con dispiacere fra le pagine, chiuse il libro e lo ricollocò sullo sgabello. Era tempo: la maniglia della porta girò ed un uomo si fece innanzi, camminando lentamente e con quella rigidezza che è particolare agli uomini di razza anglosassone.

Era un europeo, a giudicarlo dalla tinta della pelle, di statura piuttosto alta e ben complessa. Dimostrava circa cinquanta anni, aveva il viso incorniciato da una barba rossiccia, ma che cominciava ad incanutire, due occhi azzurri, profondi, e nell’insieme si comprendeva un uomo abituato a comandare.

– Godo di vedervi tranquillo; erano tre giorni che il delirio non vi lasciava un solo momento di quiete.

– Tre giorni! – esclamò Sandokan, stupito. – Tre giorni che io sono qui?… Ma non sogno io adunque?

– No, non sognate. Siete presso buone persone che vi cureranno affettuosamente e che faranno il possibile per guarirvi.

– Ma chi siete voi?

– Lord James Guillonk, capitano di vascello di Sua Maestà la graziosa imperatrice Vittoria.

Sandokan fece un soprassalto e la sua fronte si offuscò, però si rimise prontamente e, facendo uno sforzo supremo per non tradire l’odio che portava contro tutto ciò che era inglese, disse:

– Vi ringrazio, milord, di tutto quello che avete fatto per me, per uno sconosciuto, che poteva essere un vostro mortale nemico.

– Era mio dovere di accogliere in casa mia un povero uomo, ferito forse mortalmente – rispose il lord. – Come state ora?

– Mi sento abbastanza gagliardo e non provo più dolori.

– Ho molto piacere, ma ditemi, se non vi rincresce, chi vi ha conciato in quel modo? Oltre la palla che vi estrassi dal petto, il vostro corpo era coperto di ferite prodotte da armi bianche.

Sandokan, quantunque si aspettasse questa domanda, non potè fare a meno di trasalire fortemente. Tuttavia non si tradì, né si perdette d’animo.

– Se dovessi proprio dirlo, non lo saprei – rispose. – Ho visto degli uomini piombare di notte, sui miei legni, montare all’abbordaggio e massacrarmi i marinai. Chi erano? Io non lo so, poiché fin dal primo urto caddi in mare coperto di ferite.

– Voi siete stato, senza dubbio, assalito dai tigrotti della Tigre della Malesia – disse lord James.

– Dai pirati?… – esclamò Sandokan.

– Sì, da quelli di Mompracem, che tre giorni fa scorrazzavano i dintorni dell’isola, ma che furono poi distrutti da uno dei nostri incrociatori. Ditemi, dove siete stato assalito?

– Nei pressi delle Romades.

– Giungeste alle nostre coste a nuoto?

– Sì, aggrappato ad un rottame. Ma voi dove mi avete trovato?

– Sdraiato tra le erbe, in preda ad un tremendo delirio. E voi dove eravate diretto, quando veniste assalito?

– Andavo a portare dei regali al sultano di Varauni, da parte di mio fratello.

– Ma chi è vostro fratello?

– Il sultano di Shaja.

– Voi adunque siete un principe malese! – esclamò il lord, stendendogli la mano che Sandokan, dopo una breve esitazione, strinse quasi con ribrezzo.

 

– Sì, milord.

– Son ben lieto di avervi ospitato e farò il possibile per non farvi annoiare, quando sarete guarito. Anzi se non vi spiacerà, andremo a trovare insieme il sultano di Varauni.

– Sì e…

Egli si arrestò sporgendo innanzi il capo, come se cercasse di raccogliere qualche lontano rumore.

Dal di fuori venivano gli accordi di una mandola, forse gli stessi suoni che aveva udito poco prima.

– Milord! – esclamò, in preda ad una viva eccitazione di cui invano cercava di spiegare la causa. – Chi è che suona?

– Perché, mio caro principe? – chiese l’inglese, sorridendo.

– Non lo so… ma avrei un vivo desiderio di vedere la persona che così suona… Si direbbe che questa musica mi tocca il cuore… e che mi fa provare una sensazione che mi è nuova ed inesplicabile.

– Aspettate un istante. – Gli fece segno di ricoricarsi e uscì. Sandokan ricadde sul guanciale, ma quasi subito si rialzò come se fosse stato spinto da una molla. La inesplicabile commozione che lo aveva colpito poco prima, ritornava a prenderlo con maggior violenza. Il cuore gli batteva in maniera tale che pareva volesse uscirgli dal petto; il sangue gli scorreva furiosamente per le vene e le membra provavano degli strani fremiti.

– Ma cosa provo io? – si chiese egli. – È forse il delirio che mi assale ancora?

Aveva appena pronunciate quelle parole che il lord rientrava, ma non era solo.

Dietro di lui si avanzava, sfiorando appena il tappeto, una splendida creatura, alla cui vista Sandokan non potè trattenere una esclamazione di sorpresa e di ammirazione.

Era una fanciulla di sedici o diciassette anni, dalla taglia piccola, ma snella ed elegante, dalle forme superbamente modellate, dalla cintura così stretta che una sola mano sarebbe bastata per circondarla, dalla pelle rosea e fresca come un fiore appena sbocciato.

Aveva una testolina ammirabile, con due occhi azzurri come l’acqua del mare, una fronte d’incomparabile precisione, sotto la quale spiccavano due sopracciglia leggiadramente arcuate e che quasi si toccavano. Una capigliatura bionda le scendeva in pittoresco disordine, come una pioggia d’oro, sul bianco busticino che le copriva il seno.

Il pirata, nel vedere quella donna che sembrava una vera bambina, malgrado la sua età, si era sentito scuotere fino in fondo all’anima. Quell’uomo così fiero, così sanguinario, che portava quel terribile nome di Tigre della Malesia, per la prima volta in vita sua si sentiva affascinato dinanzi a quella gentile creatura, dinanzi a quel leggiadro fiore sorto sotto i boschi di Labuan. Il suo cuore che poco prima batteva precipitosamente, ora ardeva e nelle vene gli pareva che scorressero lingue di fuoco.

– Ebbene, mio caro principe, cosa dite di quella graziosa ragazza? – gli chiese il lord.

Sandokan non rispose; immobile come una statua di bronzo, egli fissava la giovanetta con due occhi che mandavano lampi di ardente bramosia e pareva che più non respirasse.

– Vi sentite male? – chiese il lord, che lo osservava.

– No!… No! – esclamò vivamente il pirata, scuotendosi.

– Allora permettetemi di presentarvi a mia nipote lady Marianna Guillonk.

– Marianna Guillonk!… Marianna Guillonk!… – ripetè Sandokan, con accento sordo.

– Cosa vi trovate di strano sul mio nome? – chiese la giovanetta, sorridendo.

– Si direbbe che vi ha prodotto molta sorpresa.

Sandokan, nell’udire quella voce, trasalì fortemente. Mai aveva udito una voce così dolce accarezzare i suoi orecchi, abituati all’infernale musica del cannone e alle urla di morte dei combattenti.

– Nulla vi trovo di strano – disse con voce alterata. – Gli è che il vostro nome non mi giunge nuovo.

– Oh! – esclamò il lord. – E da chi lo avete udito?

– Lo avevo già letto prima sul libro che qui vedete e mi ero immaginato che chi lo portava doveva essere una splendida creatura.

– Voi scherzate – disse la giovane lady, arrossendo. Poi, cambiando tono, chiese: – È vero che i pirati vi hanno gravemente ferito?

– Sì, è vero – rispose Sandokan con voce sorda. – Mi hanno vinto e ferito, ma un giorno sarò guarito e allora guai a coloro che mi hanno fatto mordere la polvere.

– E soffrite molto?

– No, milady ed ora meno di prima.

– Spero che guarirete presto.

– Il nostro principe è vigoroso, – disse il lord, – e non mi stupirei di vederlo in piedi fra una decina di giorni.

– Lo spero – rispose Sandokan.

Ad un tratto, egli che non staccava i suoi occhi dal viso della giovanetta, sulle cui gote scorreva di quando in quando una nube rosea, si raddrizzò impetuosamente, esclamando:

– Milady!…

– Mio Dio, cosa avete? – chiese la lady avvicinandosi.

– Ditemi, voi portate un nome infinitamente più bello di quello di Marianna Guillonk, è vero?

– Quale mai? – chiesero ad un tempo il lord e la giovane contessa.

– Sì, sì! – esclamò Sandokan con maggior forza. – Non potete essere che voi la creatura che tutti gli indigeni chiamano la «Perla di Labuan»!…

Il lord fece un gesto di sorpresa e una profonda ruga gli solcò la fronte.

– Amico mio – disse con voce grave. – Come mai voi sapete ciò, mentre mi avete detto che venivate dalla lontana penisola malese?

– Non è possibile che questo soprannome sia giunto fino al vostro paese – aggiunse lady Marianna.

– Non lo udii a Shaja, – rispose Sandokan, che per poco non si era tradito, – ma bensì alle Romades sulle cui spiagge sbarcai giorni sono. Colà mi parlarono d’una fanciulla d’incomparabile bellezza, dagli occhi azzurri, dai capelli profumati come i gelsomini del Borneo; di una creatura che cavalcava come una amazzone e che cacciava arditamente le fiere; di una vaga giovanetta che in certe sere, al tramonto del sole, si vedeva apparire sulle sponde di Labuan, affascinando con un canto più dolce del mormorio dei ruscelli i pescatori delle coste. Ah! milady, anch’io un giorno voglio udire quella voce.

– Tante grazie mi attribuiscono! – rispose la lady ridendo.

– Sì, e vedo che quegli uomini che mi parlarono di voi hanno detto il vero! – esclamò il pirata con slancio appassionato.

– Adulatore – disse ella.

– Mia cara nipote, – disse il lord, – tu stregherai anche il nostro principe.

– Ne sono convinto! – esclamò Sandokan. – E quando lascerò questa casa per tornare nel mio lontano paese, dirò ai miei compatrioti che una giovane donna dei visi bianchi ha vinto il cuore di un uomo che credeva di averlo invulnerabile.

La conversazione durò ancora qualche po’, aggirandosi ora sulla patria di Sandokan, ora sui pirati di Mompracem, ora su Labuan, poi, essendosi fatta notte, il lord e la lady si ritirarono.

Quando il pirata si vide solo, rimase a lungo immobile, cogli occhi fissi sulla porta dalla quale era uscita quella vaga giovanetta. Pareva che fosse in preda a profondi pensieri e ad una viva commozione.

Forse in quel cuore, che fino allora mai aveva provato un battito per alcuna donna, in quel momento imperversava una terribile tempesta. Ad un tratto Sandokan si scosse e qualche cosa, come un suono rauco, gli rumoreggiò in fondo alla gola, pronto a irrompere, ma le labbra rimasero chiuse e i denti si strinsero con maggior forza in un lungo stridio. Egli rimase alcuni minuti lì, immobile, cogli occhi fiammeggianti, il viso alterato, la fronte imperlata di sudore, le mani cacciate entro i folti e lunghi capelli, poi quelle labbra che non volevano aprirsi lasciarono un varco dal quale uscì ratto un nome:

– Marianna!

Poi il pirata non si frenò più.

– Ah! – esclamò egli, quasi con rabbia e torcendosi le mani. – Sento che io divento pazzo… che io… l’amo!…