Za darmo

Le meraiglie del Duemila

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

VERSO L’EUROPA

Per tre giorni Holker ed i suoi due amici si trattennero nella colonia polare facendo delle escursioni nei dintorni, sulla slitta dell’albergo, visitando parecchie case degli anarchici e qualche capanna esquimese, nonostante il freddo eccessivo che regnava all’aperto e la profonda oscurità addensata sugli sterminati banchi di ghiaccio della regione polare.

Dovettero constatare, e ne furono molto lieti, che quegli uomini, un giorno così pericolosi, erano diventati assolutamente pacifici e mansueti come agnellini.

Era l’influenza del freddo o l’isolamento che aveva operato quel prodigio su quei cervelli esaltati? Probabilmente l’una e l’altra cosa insieme.

Certo non ci trovavano più gusto a parlare di bombe, d’incendi e di stragi, con un freddo di 45° sotto zero! Preferivano fumare la pipa accanto ad una lampada a radium, godendosi il calore che essa mandava.

Come si vede, i governi d’Europa e d’America avevano avuto una eccellente idea a mandarli in quel clima, perché… si raffreddassero.

La mattina del quarto giorno, mentre Holker, Brandok e Toby stavano prendendo una bollente tazza di tè, furono finalmente avvertiti che durante la notte era giunto il tramvai elettrico dallo Spitzbergen e che si preparava a far ritorno in Europa.

«Partiamo, amici» disse Holker. «D’inverno il polo è poco piacevole, e ritengo che ne abbiate abbastanza del nostro soggiorno fra i ghiacci eterni.»

«Amerei di più trovarmi in un clima meno rigido» rispose Brandok. «Io non ho nelle mie vene il sangue ardente degli anarchici.»

«E nemmeno io» disse Toby.

«Quando giungeremo allo Spitzbergen?» chiese Brandok.

«Fra sessanta ore, essendo la galleria europea più lunga di quella americana.»

«E poi dove andremo?»

«C’imbarcheremo sul battello volante che fa il servizio fra le isole e l’Inghilterra. Desidero mostrarvi un’altra meraviglia.»

«Quale?»

«I grandiosi mulini del Gulf-Stream.»

«Che cosa saranno?»

«Dei mulini, vi ho detto.»

«Per macinare granaglie?»

«Oh no!… Poi andremo a visitare una delle città sottomarine inglesi dove si trovano relegati i più pericolosi banditi del Regno Unito. Ecco la slitta: andiamo, amici.»

Saldarono il conto, presero i loro bagagli e salirono sulla slitta dell’albergo che era tirata da sei vigorosi cani di Terranova, più robusti e più obbedienti di quelli di razza esquimese.

Un quarto d’ora dopo si fermavano sotto la tettoia della stazione europea che si trovava nell’altro lato della città.

Un carrozzone simile a quello della linea americana aspettava i viaggiatori.

Anche quello era diviso in scompartimenti e addobbato con lusso ed eleganza.

Vi salirono e qualche minuto dopo il tramvai, preceduto dalla macchina pilota, partita già cinque minuti prima, si cacciava sotto la galleria europea fatta costruire a spese delle nazioni settentrionali del continente: Russia, Svezia, Norvegia ed Inghilterra.

Nelle dimensioni, e nella forma non era diversa da quella americana. Era solamente un po’ meno illuminata, non disponendo le nazioni europee settentrionali d’una forza elettrica pari a quella nordamericana, perché non hanno le cascate del Niagara.

Cinquanta ore dopo i tre viaggiatori, che avevano veduto a poco a poco diradarsi le tenebre di miglio in miglio che s’allontanavano dal polo, giungevano felicemente sulle coste settentrionali della maggior isola del gruppo dello Spitzbergen.

Avevano costeggiato per un lungo tratto la Groenlandia settentrionale, poi avevano attraversato una parte dell’oceano coperto da immensi banchi di ghiaccio, giungendo alla stazione russa.

La galleria terminava là; però la linea continuava fino al Porto della Ricerca.

Con molta sorpresa di Toby e Brandok videro ergersi sulle rive nevose di quella baia, cent’anni prima appena frequentata da rari balenieri e da cacciatori di foche, dei palazzi imponenti, che erano alberghi destinati ad accogliere nella stagione estiva i ricchi europei.

Il freddo ora aveva messo in fuga albergatori ed ospiti. Vi si trovavano invece due o tre dozzine di pescatori di merluzzi ed alcuni guardiani incaricati della sorveglianza degli alberghi.

Holker s’informò se il vascello volante inglese era giunto ed ebbe una risposta negativa.

Ventiquattro ore prima un violento ciclone si era scatenato sull’Atlantico settentrionale e probabilmente aveva costretto il vascello aereo a rifugiarsi in qualche porto della Norvegia.

Era anzi probabile che non potesse arrivare nemmeno il giorno dopo, essendo il cielo assai nebbioso ed il vento violentissimo.

«Noi, già, non abbiamo fretta» disse Brandok. «Qui fa meno freddo che al polo.»

«Gli è che non vi è alcun albergo aperto in questa stagione» rispose Holker. «Saremo costretti a rimanere nelle sale della stazione o a chiedere asilo a qualche famiglia di pescatori.»

«Per noi poco importa» disse Toby.

Non fu difficile accordarsi con una famiglia mediante un modesto compenso. La casetta era pulitissima, essendo i suoi proprietari norvegesi, ben riscaldata e anche ben provvista di viveri.

«Ci troveremo bene anche qui» disse Brandok.

«E avremo carne a tutti i pasti,» disse Holker «ciò che al giorno d’oggi non si può trovare dappertutto sui continenti.»

«Carne d’orso?» chiese Toby.

«Sono più di cinquant’anni che gli orsi sono scomparsi» rispose Holker. «Anche nelle regioni polari, ormai, la selvaggina è diventata rarissima. Qui invece si allevano ancora molte renne che vengono poi esportate in Russia e anche in Norvegia. Nonostante i lunghi inverni e le forti nevicate, quegli animali riescono a trovare ancora di che nutrirsi, cercando i licheni sepolti sotto il ghiaccio.»

«E in estate è popolata questa grande isola?» chiese Toby.

«È una stazione di prim’ordine, mio caro signore. Non vi giungono mai meno di cinque o seimila persone.»

«Ai nostri tempi le montagne bastavano.»

«Quelle servono ai modesti borghesi.»

«Farà buoni affari in quella stagione la linea polare?»

«I viaggiatori accorrono al polo a migliaia.»

«E questi pescatori che cosa fanno qui?»

«Aspettano il passaggio dei grandi branchi di merluzzi. Sapete che quegli eccellenti pesci non frequentano più le coste di Terranova?»

«Hanno sentito anche loro il bisogno di qualche novità?»

«Sembra» rispose Holker. «Da sessanta e più anni non si mostrano più sulle coste canadesi. Ora frequentano questi paraggi, dove si lasciano prendere in numero sterminato.»

«Si pescano ancora con le lenze?»

«Anticaglie quelle. Oggi delle gigantesche navi munite di motori d’una potenza straordinaria vengono qui e gettano delle reti di cinque o sei miglia di lunghezza, che vengono poi rapidamente rimorchiate a terra. Bastano pochi giorni per terminare la stagione della pesca, mentre ai vostri tempi durava quattro mesi.»

«Tutto ad elettricità!» esclamò Brandok. «Quanti cambiamenti in questi cent’anni! Si fa tutto in grande!»

«Se così non si facesse, come potrebbe nutrirsi l’umanità? La pesca oggi è quadruplicata e ringraziamo la Provvidenza che abbia popolato tanto gli oceani!»

Si erano seduti dinanzi ad una tavola ben apparecchiata dalla moglie e dalle figlie del pescatore. Vi fumava un enorme pezzo di renna arrostito che fu dichiarata squisita.

Divorarono poscia un’abbondante zuppa di pesce, vuotarono alcune tazze di latte di renna, poi, essendosi il vento un po’ calmato, fecero una escursione nei dintorni della baia colla speranza di veder giungere il vascello aereo che doveva condurli in Europa.

Non fu che alle prime ore dell’indomani che furono avvertiti dal loro ospite che il vascello aereo era comparso all’orizzonte.

Sorseggiarono una tazza di tè e, indossati i grossi mantelli di pelle d’orso, si precipitarono verso la baia, per godersi lo spettacolo dell’arrivo.

Il vascello volante era ormai visibile e solcava lo spazio maestosamente, tenendosi a centocinquanta metri dai banchi di ghiaccio che si stendevano sull’oceano.

Somigliava agli omnibus volanti che già Brandok e Toby avevano veduto a Nuova York, però più in grande, avendo la piattaforma più larga, dieci ali, quattro eliche mostruose e doppi timoni. Sopra si estendeva una galleria a vetri, riservata ai viaggiatori, e sormontata da un albero con una antenna, probabilmente qualche apparecchio elettrico per la trasmissione dei telegrammi aerei.

Il vascello che si avanzava con grande velocità fu ben presto sopra la baia. Descrisse, nonostante il forte vento, una curva assai allungata, ed andò a posarsi dolcemente entro un recinto costruito su una collinetta che sorgeva a qualche centinaio di metri dalla stazione estiva.

«Andiamo a raggiungerlo subito» disse Brandok, che li aveva seguiti assieme al pescatore che portava le valigie. «Il Centauro non si ferma più d’un quarto d’ora, appena il tempo sufficiente per consegnare la posta e sbarcare dei viveri e del tabacco per i pescatori e per i guardiani.»

Salirono la collina, entrarono nel recinto e s’imbarcarono, dopo aver fatto acquisto del biglietto.

A bordo del vascello aereo non vi erano che sette uomini: il comandante, due macchinisti, due timonieri, uno stewart ed un medico.

L’interno della galleria era diviso in quattro scompartimenti. Uno riservato alle macchine e all’equipaggio; uno a camera da letto, suddivisa in piccole cabine di leggera lamiera d’alluminio o d’un metallo consimile; il terzo a sala da pranzo; il quarto a biblioteca e sala da conversazione, con un organo elettrico per divertire i viaggiatori.

«Bellissimo!» aveva esclamato Brandok, osservando i ricchi mobili che arredavano le sale. «Meraviglioso!»

«E quello che conta, tanto più sicuro delle navi che solcano gli oceani» disse Holker.

 

«Quando giungeremo a Londra?» chiese Toby.

«Fra quarantasei ore» disse il comandante della nave. «Dobbiamo spingerci prima fin sulle coste dell’Irlanda per deporre nella città sottomarina un pericoloso galeotto che ci è stato consegnato dalle autorità norvegesi di Bergen e che è suddito inglese.»

«Ecco una buona occasione per visitare quella città,» disse Holker, «e anche i grandi mulini del Gulf-Stream. Non supponevo di essere tanto fortunato.»

«Avete più nulla da imbarcare?» chiese il capitano. «Null’altro, signore» rispose Brandok.

«Allora partiamo senza indugio: sta per scoppiare un nuovo ciclone e non amo fermarmi qui o dovermi rifugiare ancora nei fiords della Norvegia. A causa degli uragani sono già in ritardo di due giorni.»

Il Centauro, ad un comando del capitano, aveva rimesso in movimento le due poderose macchine e si era innalzato di duecento metri salutando la popolazione della stazione con dei sibili acutissimi.

Girò due volte sulla baia, poi prese lo slancio dirigendosi verso sud-ovest, con rapidità fantastica.

Dinanzi alla baia si estendevano degli immensi banchi di ghiaccio, solcati da canali più o meno larghi e che mandavano in alto un bagliore intenso, quasi accecante, dovuto alla rifrazione di tutta quella massa trasparente. In lontananza invece appariva la tinta azzurro-cupa del mare che indicava le acque libere dell’Oceano Atlantico.

Brandok, Toby e Holker, ben coperti dai loro mantelli di pelo, si erano seduti fuori della galleria, sulle panchine di prora, per godersi meglio quello spettacolo.

Il vascello volante, nonostante la sua mole, si comportava meravigliosamente bene, gareggiando coi lesti gabbiani e coi grossi albatros che lo seguivano o lo precedevano. Manteneva una linea rigorosamente diritta, orientata sulla bussola, senza abbassarsi nemmeno d’un metro.

Non era un pallone, era un vero vascello che obbediva alle mosse dei due timoni, che funzionavano come le code dei volatili.

«Una scoperta stupefacente» ripeteva Brandok, che respirava a pieni polmoni l’aria gelata eppur vivificante dell’oceano. «Chi avrebbe detto che l’uomo sarebbe riuscito a dividere cogli uccelli l’impero dello spazio? Che cosa sono i famosi condor in confronto a questi vascelli volanti?

«Questi vascelli superano in velocità gli uccelli?» chiese Toby.

«Li lasciano indietro senza fatica» rispose Holker.

«Anche le fregate?»

«Sono gli unici volatili che li superano, potendo quelli percorrere centosessanta chilometri all’ora.»

«E gli albatros?» chiese Brandok.

«Quantunque abbiano un’ampiezza d’ali che in media va dai quattro metri ai quattro e mezzo, non possono lottare colle fregate.»

«Che velocità sviluppano queste navi volanti?»

«Centocinquanta chilometri all’ora» rispose Holker.

«E dire che noi, ai nostri tempi, andavamo superbi delle nostre torpediniere, che riuscivano a percorrere ventiquattro o venticinque miglia all’ora!» disse Toby. «Che progressi! Che progressi!»

«Ditemi, signor Holker» disse Brandok. «Le navi moderne che velocità raggiungono?»

«Le cinquanta e anche le sessanta miglia all’ora» rispose l’interrogato.

«Che macchine hanno?»

«Mosse dall’elettricità.»

«E la forma è quella d’un tempo?»

«Giudicatene voi. Ecco laggiù appunto una nave che forse viene dall’Isola degli Orsi. Vi sembra che rassomigli ad una di quelle che percorrevano gli oceani ai vostri tempi?»

Brandok e Toby si erano vivamente alzati guardando nella direzione indicata dal loro amico e videro delinearsi sull’orizzonte una specie di fuso lunghissimo che correva sulle onde con estrema rapidità, senza alcuna traccia di fumo.

«Quella nave è il Tangaroff» disse il capitano del vascello aereo. «Viene dal Mar Bianco e si reca in Islanda. Una bella nave, ve lo dico io, che cammina come uno squalo. Non ha paura dei ghiacci la sua prora!»

«Non rassomiglia affatto alle navi che solcavano i mari ai nostri tempi» disse Brandok quando il capitano si fu allontanato. «Le hanno modificate i costruttori del Duemila?»

«In gran parte, per ottenere una maggiore velocità e meno rollio e beccheggio» disse Holker. «Hanno dato allo scafo una forma di sigaro molto affilato a prora e la coperta è quasi scomparsa non essendovi che il posto per una torre destinata ai timonieri. Come vedete, le navi moderne sono quasi tutte sommerse e chiuse sopraccoperta in modo che durante le tempeste le onde possono spazzarle senza produrre il minimo inconveniente.»

«Sapete che cosa mi ricordano, nella forma, queste nuove navi? I battelli sottomarini che si incominciavano ad usare ai nostri tempi.»

«È vero» confermò Toby. «E come procedono? Ancora ad elica?»

«Sì, e a ruote. Sotto la carena entro appositi incavi ne hanno otto, dieci e perfino dodici, che talvolta aiutano potentemente le eliche poppiere» disse Holker.

«Con questo doppio sistema che ricorda un po’ i nostri antichi piroscafi rotanti, i nostri ingegneri navali hanno potuto imprimere alle nostre navi cinquanta e perfino sessanta miglia all’ora.»

«E voi mi avete detto che non, rollano e non beccheggiano?»

«Il mal di mare è ora quasi sconosciuto, sui piroscafi moderni, e anche le più formidabili ondate non riescono nemmeno a scuoterli.»

«E perché?» chiese Toby.

«Perché i loro fianchi sono spalmati d’una vernice grassa che, distendendosi lentamente sull’acqua, produce il medesimo effetto dell’olio usato dai balenieri nelle tempeste.»

«Che cosa non hanno inventato questi uomini del Duemila!» esclamò Brandok.

«Molte cose, infatti, e utilissime» rispose Holker, sorridendo.

«E di navi a vela ce ne sono ancora?» chiese Toby.

«Da settant’anni non se ne vede più una. Guardate che bella nave e ditemi se non vale meglio di quelle che navigavano cent’anni fa.»

NAVI VOLANTI E MARITTIME

Il Tangaroff in quel momento incrociava il battello volante, passandovi a babordo.

Era un fuso enorme tutto in acciaio, lungo più di centocinquanta metri, colla prora acutissima e largo al centro una quindicina di metri.

Era tutto coperto, con un gran numero di finestre al posto della coperta difese da vetri che dovevano avere un grande spessore.

Nel mezzo si ergeva una torre pure in metallo, alta quattro metri, sulla cui piattaforma stavano seduti, presso la ruota, due timonieri. Dietro si innalzava un albero per la telegrafia aerea.

Filava velocemente, quasi senza produrre alcun rumore, lasciandosi dietro una scia candidissima che pareva oleosa.

Più che una nave, sembrava un balenottero lanciato a tutta velocità.

Nel momento in cui passavano sotto il Centauro, l’apparato elettrico di questo fece udire un lungo tintinnio e registrò un dispaccio lanciato dai timonieri del «Tangaroff».

Era un cordiale «buon viaggio» che inviavano ai naviganti dell’aria, unitamente alla notizia che i ghiacci avevano ormai interrotta la navigazione nel Mar Bianco.

«Bella! Splendida!» esclamò Brandok che seguiva collo sguardo il velocissimo piroscafo.

«Quando potrà giungere in Islanda?»

«Domani sera» rispose Holker.

«Malgrado i ghiacci?»

«Se ne ridono dei ghiacci le nostre navi. Li assalgono a colpi di sperone e li disgregano per quanto spessore abbiano. Sono veri arieti, d’una potenza inaudita.»

«Nipote mio,» disse Toby «che cosa è avvenuto dei battelli sottomarini che ai nostri tempi facevano tanto parlare?»

«Dopo che le guerre sono state rese impossibili, sono scomparsi o quasi. Ve ne sono ancora alcuni che servono per le esplorazioni sottomarine e per il ricupero delle ricchezze perdute in fondo ai mari.»

«E del Canale di Panama?» chiese Brandok.

«È compiuto, mio caro signore, e già da 85 anni.»

«Quella grande impresa è stata condotta a termine?»

«Sì, dai nostri connazionali; ed altre ancora ne sono state ultimate per accorciare i viaggi alle navi. L’istmo di Corinto che univa la Morea alla Grecia è stato pure tagliato; quello della penisola di Malacca pure, ed ora si sta compiendo un’altra grande opera.»

«Quale?»

«Il grande deserto del Sahara sta per divenire un mare accessibile anche alle più grandi navi. Ci lavorano da cinque anni e fra cinque o sei mesi anche quell’opera sarà compiuta.»

«Che cosa vi rimane ora da fare?» chiese Brandok.

«Mantenere il mondo in equilibrio, ve lo dissi già,» rispose Holker «e speriamo che vi riescano i nostri scienziati. La campana ci chiama a colazione; quest’aria marina mi ha messo addosso un appetito da lupo. Imitatemi amici; vi troverete meglio dopo.»

Mentre passavano nel salotto da pranzo, il vascello volante continuava la sua corsa verso sud-ovest, divorando lo spazio con una rapidità di centoventi chilometri all’ora. L’oceano era sempre coperto da vasti banchi di ghiaccio e anche ice-bergs i quali proiettavano dei riflessi accecanti.

Qua e là si scorgevano dei canali, entro i quali mostravasi ancora qualche rarissima foca, una delle poche sfuggite alle feroci distruzioni dei pescatori norvegesi e russi.

I tre amici stavano per terminare il pasto, semplice sì ma assai abbondante, quando udirono la suoneria dell’apparato elettrico tintinnare e poco dopo videro comparire il capitano colla fronte abbuiata.

«Avete ricevuto qualche cattivo dispaccio, comandante?» chiese Holker.

«Mi telegrafano dalla stazione scozzese di Capo York che una bufera terribile imperversa da due giorni intorno alle isole britanniche» rispose il capitano. «S’annuncia ben cattivo l’inverno, quest’anno.»

«Sarete costretto a rifugiarvi nuovamente sulle coste norvegesi?»

«Non voglio perdere altro tempo; sfiderò il ciclone.»

«Resisterà la vostra nave?» chiese Brandok.

«Non vi inquietate signori; il mio Centauro è costruito con acciaio di prima qualità.»

Non erano trascorse tre ore, che già la bufera, annunciata dalla stazione scozzese, si faceva sentire anche nei paraggi percorsi dal vascello volante.

Il cielo si era oscurato e dei soffi impetuosi, delle vere raffiche marine giungevano dal mezzodì, investendo poderosamente le ali e le eliche del Centauro.

L’oceano si rompeva in ondate che diventavano rapidamente altissime, le quali disgregavano con mille fragori i banchi di ghiaccio scendenti dall’isola Jean Mayen. Il comandante aveva dato ordine ai suoi macchinisti di aumentare la velocità sperando di sottrarsi agli assalti imminenti del ciclone e dando la possibilità ai timonieri di dirigersi verso ovest per evitare il centro della bufera. Tuttavia il Centauro subiva dei sussulti improvvisi e si trovava talvolta impotente a resistere alle raffiche. Già più d’una volta era stato trascinato per qualche tratto verso il settentrione, nonostante gli sforzi delle ali e delle immense eliche.

«Cadremo in mare?» chiese Brandok, che si era collocato dietro i vetri dello scompartimento prodiero.

«Anche se ciò avvenisse, poco danno ne avremmo» rispose Holker.

«Non andremo sott’acqua?»

«Niente affatto, mio caro signore. I nostri ingegneri avevano pensato anche a simili disgrazie e vi hanno posto rimedio.»

«In qual modo?»

«Non avete osservato che la parte inferiore della piattaforma è quasi sferica come quella delle scialuppe e delle navi e che ha anche una chiglia? Nell’interno vi sono delle casse d’aria le quali impediranno al Centauro di sommergersi.»

«Sicché queste navi volanti si possono, all’occorrenza, trasformare in scialuppe!» esclamò Toby con stupore.

«E perfettamente navigabili, zio,» rispose Holker «perché la poppa nasconde entro un incavo un’elica di metallo, che funziona colla stessa macchina che mette in moto le ali. Come vedete nessun pericolo ci minaccia e anche calando, noi potremo giungere egualmente in Inghilterra.»

«C’è da impazzire» disse Brandok. «Questi uomini moderni hanno pensato a tutto.»

La bufera intanto, aumentava di miglio in miglio che il Centauro guadagnava.

Il vento si era scatenato con un fragoroso accompagnamento di urli, di fischi e di muggiti, balzando ora dal sud al nord ed ora dall’est all’ovest, come se Eolo fosse completamente impazzito.

Lo spettacolo che offriva l’oceano da quell’altezza era spaventevole e nello stesso tempo meraviglioso.

Montagne d’acqua, nere come fossero d’inchiostro e colle creste invece candidissime e quasi fosforescenti, si rovesciavano in tutte le direzioni, accavallandosi e rimbalzando a grande altezza.

Si formavano abissi profondi che subito si riempivano per riaprirsi più oltre, e dai quali uscivano dei muggiti formidabili, prodotti dall’irrompere tumultuoso delle acque.

Tutto il giorno il Centauro lottò vigorosamente, ora innalzandosi ed ora abbassandosi, respinto sovente fuori dalla sua rotta; e quando cadde la sera si trovò avvolto in una nebbia così fitta, che le lampade a radium non riuscivano a romperla.

 

«Ecco un altro pericolo e forse maggiore» disse Brandok.

«Perché?» chiese Holker.

«Se il Centauro s’incontrasse con qualche altro vascello aereo procedente in senso inverso, chi riuscirebbe a salvarsi da una collisione fra due macchine spinte colla velocità di centocinquanta chilometri all’ora?»

«Non temete» disse Holker. «Ciò può avvenire in una città dove le macchine volanti sono numerosissime, in mare no.»

«E perché no?»

«Ogni macchina volante è fornita d’un eofono.»

«Che bestia è questo eofono?»

«Un semplice eppure preziosissimo, apparecchio, formato da due imbuti ricevitori del suono, separati fra di loro da un diaframma centrale. Questi due imbuti vengono applicati agli orecchi del timoniere e quando questi apparecchi si trovano nella direzione delle onde sonore emesse da un corpo qualunque, producono un rumore nella medesima intensità e sono così sensibili da registrare le vibrazioni più impercettibili. Supponete ora che un vascello volante s’accosti a noi. Il rumore che produce, spostando la massa d’aria, e anche le vibrazioni delle ali si trasmettono subito agli imbuti del nostro timoniere. Che cosa si fa allora? Si lancia un telegramma che viene raccolto e trasmesso sul vascello dall’apparecchio elettrico. Entrambi i vascelli volanti si fermano e deviano, ed ecco tolto ogni pericolo d’investimento. Che cosa ne dite ora, signor Brandok?»

Il giovine scosse il capo senza rispondere.

Anche durante l’intera notte l’uragano non cessò un momento di infuriare. Il vento che soffiava ad oriente aveva respinto il Centauro assai lontano dalla sua rotta, trascinandolo in mezzo all’Oceano Atlantico.

A mezzodì, quando il capitano, approfittando d’un raggio di sole fece il punto, s’accorse d’aver oltrepassata la Scozia di qualche centinaio di miglia.

«Pel momento dobbiamo rinunciare alla speranza di approdare in Inghilterra» disse ad Holker, che lo interrogava. «Il vento ci trascina come se il mio Centauro fosse diventato un veliero e non sarebbe prudente cercare di resistergli.»

«E dove andremo a finire noi?»

«Vi spaventa una corsa in mezzo all’Atlantico?»

«No, purché il vento non ci faccia tornare in America. Noi desideriamo visitare le grandi capitali degli stati europei.»

«Quando il ciclone si calmerà, riprenderemo la corsa verso l’Inghilterra. A Liverpool prenderete o il treno o il vascello che va a Londra. Non è questione che di qualche giorno di ritardo. Questo ventaccio finirà per cambiare.»

Il capitano s’ingannava.

L’uragano imperversò con furia estrema per due giorni ancora, mettendo più volte in serio pericolo il Centauro le cui ali a poco a poco si sfasciavano.

La mattina del terzo giorno, quando già il vento cominciava finalmente a scemare di violenza, il capitano avvertì i viaggiatori di rifugiarsi nella galleria per non venire trascinati via dalle onde.

«Scendiamo in mare?» chiese Holker.

«Sì, signore,» rispose il comandante. «Il Centauro non si sostiene in aria che con grandi sforzi e piuttosto di cadere improvvisamente, preferisco scendere.»

«L’oceano è sconvolto» osservò Brandok.

«L’armatura della galleria è di una solidità a tutta prova ed i vetri hanno uno spessore di cinque centimetri. Le onde non riusciranno mai a sfondarla. Diventiamo marinai dopo essere stati volatili. Noi già, non soffriamo il mal di mare.»

Entrarono nella galleria assieme all’equipaggio e al comandante, potendosi maneggiare i due timoni anche dall’interno, ed il Centauro calò lentamente in mezzo ai flutti.

Brandok, Toby e anche Holker, per un momento temettero di finire in fondo all’Atlantico.

Appena il vascello volante si posò sulle acque subì una serie di sussulti e di beccheggi così spaventevoli da temere che si rovesciasse per non raddrizzarsi mai più.

Appena però le due eliche d’acciaio uscirono dalle loro nicchie e si misero in moto, il Centauro riprese la sua stabilità e si mise in marcia come un piroscafo qualunque, salendo e scendendo i cavalloni.

I cassoni d’aria che riempivano la sua carena lo tenevano meravigliosamente a galla, meglio d’una botte vuota. Ma che soprassalti di quando in quando. E che ondate doveva sopportare la galleria! I marosi vi si precipitavano sopra con furia incredibile, facendo tremare le armature. Guai se i vetri avessero ceduto! Nessuna delle persone rinchiuse sarebbe uscita più viva.

«Perbacco!» mormorava Brandok, che si teneva aggrappato ad uno dei sostegni della galleria, per poter meglio resistere a quelle scosse. «Ecco una emozione che fa venire la pelle d’oca. Signor Holker, non finiremo per caso il nostro viaggio con un capitombolo negli abissi dell’Atlantico?»

«Non abbiate paura; questi vascelli sono meravigliosamente costruiti e possono resistere anche in mare alle più violente ondate. Non vedete come sono tranquilli i macchinisti e i timonieri? Da questo potete capire se si ritengono perfettamente sicuri.»

«E dove ci troviamo noi?» chiese Toby.

«A non meno di quattro o cinquecento miglia dalle coste della Spagna» rispose il capitano che lo aveva udito.

«Della Spagna avete detto? Dell’Inghilterra volevate dire.»

«No, signore. Il vento, dopo averci allontanato dalle coste inglesi, ci ha trascinati verso il sud in direzione delle isole Canarie.»

«E torneremo in Europa così?» chiese Brandok.

«Il mio povero Centauro non può ormai più riprendere il volo. Guardate come i cavalloni frantumano le ali e le eliche. Ma non ve ne date pensiero; noi camminiamo con una velocità di quaranta miglia all’ora, perché le macchine non si sono guastate. Fra due giorni al più giungeremo a Lisbona od a Cadice, ed in quei porti, navi e vascelli volanti diretti in Inghilterra ne troverete quanti vorrete.»

«Sicché,» disse Brandok «noi saremo costretti a tagliare la corrente del Gulf-Stream per tornare in Europa?»

«Certo» rispose il capitano.

«Avremo occasione di vedere quei famosi mulini?»

«Cerco anzi di dirigermi verso l’isola N. 7, per vedere se là posso sbarazzarmi del galeotto che si trova chiuso nell’ultima cabina, e che voi non avete ancor veduto. Quell’isola si trova a venticinque miglia dalla città sottomarina portoghese d’Escario; potrei risparmiare una gita inutile fin là.»

«No, signor capitano» disse Holker. «I miei amici non hanno ancora veduto uno di quei rifugi dei peggiori bricconi del mondo. Siamo pronti a pagare doppio biglietto se ci condurrete ad Escario.»

«Sia» rispose il comandante dopo una breve esitazione. «Chissà che non trovi là alcuni meccanici per rimettere a posto il mio Centauro.»