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Le figlie dei faraoni

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Mirinri la fissò per parecchi istanti. Il suo cuore tremava, come quando aspettava ansiosamente il suono della colossale statua. Se quell’ultima prova fosse fallita?

«Bagnala,» disse Ounis, vedendo che il giovane esitava. «Sono certo che fra poco io renderò a te l’omaggio che il popolo egiziano deve ai Figli del Sole.»

Mirinri versò due goccie d’acqua sui due bottoncini e subito vide, con immensa meraviglia, quella pianta, da secoli e secoli morta, dapprima fremere, poi agitarsi, raddrizzare i suoi tessuti, i bottoncini gonfiarsi ed arrotondarsi, quindi svolgere i loro leggeri petali all’ingiro, intorno ad un punto centrale di color giallo.()

La pianta meravigliosa di Osiride era risuscitata!

«Lasciala morire,» disse Ounis, vedendo Mirinri agitarla, come se fosse improvvisamente impazzito. «Taci e guarda!»

I due fiori che somigliavano a due splendide margherite, mantennero per qualche minuto i loro petali aperti e tesi, scoprendo il loro seno ringiovanito come per opera magica, cosparso di piccoli granelli, poi le loro tinte iridiscenti cominciarono a scolorirsi, gli steli si curvarono, le foglioline si ripiegarono su se stesse e tutto si appassì.

Il grido, che Mirinri aveva fino allora trattenuto, gli uscì formidabile dal petto:

«Sono un Faraone! Lode al grande Osiride! La potenza, la grandezza, la gloria! Ah! È troppo!»

Ounis prese il fiore e lo depose nuovamente nell’incavatura del masso, poi s’inginocchiò dinanzi a Mirinri e gli baciò l’orlo inferiore della candida veste, dicendo:

«A te l’omaggio del tuo più fedele suddito. Io ti saluto, Figlio del Sole!»

«Quando avrò conquistato il trono tu sarai il mio primo ministro ed il capo supremo dei sacerdoti, mio devoto amico. La mia potenza non oscurerà la riconoscenza che ti devo.»

«Non desidero né onori, né grandezze,» rispose Ounis. «D’altronde, quando tu sarai re, io non ne avrò bisogno.»

«Perché Ounis?» chiese Mirinri sorpreso da quella frase oscura.

«Tutto non ti ho ancora narrato. Mi resta da fare al Figlio del Sole una rivelazione ancora, ma non la farò se non quando tu siederai sul trono dei Faraoni. Ora ci resta qualche cosa d’altro da compiere, prima di lasciare questa piramide che non rivedrai mai più da vivo.»

«Quale?»

«Distruggere il cadavere che l’usurpatore ha messo al posto di tuo padre. Quell’ignoto, ch’è forse un miserabile schiavo, non deve occupare un posto che spetta a Teti, né oltraggiare col suo corpo impuro la tomba dei Figli del Sole. Vieni, Mirinri.»

«Quell’infamia la sconterà,» disse il giovane, che ebbe un fremito di collera. «Non bastava a Pepi carpire a mio padre il regno: gli occorreva anche questa crudele derisione. Io farò a pezzi l’uomo che rappresenta in questo sepolcreto il corpo del Faraone, così non passerà l’Amenti e non prenderà un posto che non gli spetta fra gli antenati luminosi.»

Il sacerdote diede all’ingiro un lungo sguardo, poi si diresse verso una delle pareti dove entro un incavo si scorgeva a brillare vagamente qualche cosa.

«Qui lo hanno collocato» disse.

Un feretro stava deposto in quell’escavazione, un po’ al di sopra d’una lastra di marmo nero, su cui s’ammonticchiavano corone di trifoglio, di loto bianco ed azzurro, accanto a piccoli mucchi di grano e di farina, a pezzi di carne disseccata ed a fiale contenenti latte, liquori e profumi.

Quella bara era d’una ricchezza straordinaria, costruita con legname di quercia arabica, adorna di sculture finissime, che volevano rappresentare la grande vittoria riportata da Teti contro le orde Caldee, tutta dipinta, dorata ed incrostata di perle preziose.

Verso l’estremità superiore, quel feretro terminava in una testa che doveva riprodurre esattamente i lineamenti dell’uomo che vi stava rinchiuso dentro.

Mirinri gettò via con dispetto i fiori e le offerte, salì sulla tavola di pietra e prese fra le sue robuste braccia la salma, deponendola al suolo.

«Questa testa rassomiglia a quella di mio padre?» chiese con viva emozione.

«Sì,» rispose Ounis.

«E questi occhi sono proprio i suoi?»

«Li hanno riprodotti esattamente.»

Mirinri guardò il vecchio, poi la testa, quindi tornò a guardare il sacerdote, facendo un gesto di stupore.

«Che cos’hai ora?» chiese Ounis aggrottando la fronte.

«Trovo una strana somiglianza fra i tratti di questo viso ed i tuoi. Anche gli occhi hanno il medesimo lampo cupo.»

«Vi sono tanti che si assomigliano,» rispose asciuttamente il sacerdote. «Apri il feretro: voglio vedere chi vi hanno messo dentro.»

Mirinri introdusse la punta della spada fra le commessure e con uno sforzo violento sollevò il coperchio.

Tosto apparve una mummia, rappresentante un uomo di alta statura, col viso solcato da due lunghe ferite malamente cucite e che lo rendevano irriconoscibile.

Tutto il corpo era strettamente avviluppato in un tessuto d’oro, con ricami formati da pietre preziose, per lo più smeraldi, e dorate aveva le unghie delle mani e dei piedi.

«È mio padre, questi?» chiese Mirinri.

«No.»

«Ne sei ben certo, Ounis?»

«L’ho conosciuto troppo bene, per potermi ingannare.»

«Va bene,» rispose Mirinri.

Levò la mummia, che gettò con disprezzo al suolo, rinchiuse la bara e la ricollocò nel vano scavato nella parete della piramide, dicendo con voce ironica:

«Servirà a qualche altro: l’usurpatore appartiene alla famiglia ed ha il diritto di dormire qui dentro. Prenderà il posto di questo miserabile schiavo od ignoto guerriero che sia.»

Poi afferrò la mummia, facendola crepitare fra le proprie dita, tanta era la sua collera e, volgendosi verso il sacerdote, disse con tono che non ammetteva replica:

«Usciamo!»

«Che cosa ne vuoi fare di quel morto?» chiese Ounis.

«Usciamo,» ripetè il giovane.

Attraversò la piramide, finché raggiunse la porta di bronzo che era rimasta aperta. Ounis la chiuse con quella chiave in forma di serpente e si trovarono entrambi in mezzo ai raggi ardenti del sole.

«Nessuno può entrare ora?» chiese Mirinri, che teneva sempre la mummia.

«Nessuno, fuorché Mirinri Pepi, il solo che possegga una chiave eguale a questa.»

«Questa tomba non si aprirà che per ricevere la salma dell’usurpatore,» disse Mirinri, con voce cupa. «Lo giuro su Sib, il dio che rappresenta la terra; su Nout che rappresenta il cielo; su Nou il dio delle acque; su Râ che è il sole; sul grande Osiride e su Iside, l’animale sacro che il mio futuro popolo adora. Che Nacus, l’impuro demonio della morte mi tragga nel regno delle tenebre; che mi sia negato il passaggio dell’Amenti e la pace eterna nella regione nascosta, se io mancherò alle mie promesse. Ounis, tu che sei sacerdote, mi hai udito. Ed ora, vile carcame, che hai osato prendere il posto di mio padre, il grande guerriero che salvò l’Egitto, va’! Troverai una bara nelle viscere immonde delle jene e degli sciacalli.»

Ciò detto sollevò in alto e con quanta forza aveva, scagliò là mummia in mezzo alle dune, dove rimase colle gambe in aria.

«Quando potremo partire?» chiese poscia il giovane. «Ora che so di essere veramente il figlio di Teti, sono impaziente di conquistare l’orgogliosa Menfi.»

«Adagio, Mirinri,» rispose il sacerdote. «Noi dobbiamo recarci colà con infinite precauzioni, e affiatarci segretamente coi vecchi amici di tuo padre. Se tu venissi scoperto prima di essere tanto potente da fronteggiarlo, Mirinri Pepi non ti risparmierebbe.»

«Dovrò dunque rimanere ancor a lungo in questo deserto e lasciar spegnere l’entusiasmo che mi divora?»

«Non ti chiedo che tre o quattro giorni. Torniamo alla nostra dimora.»

La sera dello stesso giorno, Ounis, approfittando del sonno profondo del giovane Faraone, lanciava nel Nilo, con grande spavento dei coccodrilli e degli ippopotami che erano numerosissimi in quei tempi, delle piccole palle fiammeggianti che bruciavano anche in acqua, come i famosi fuochi greci dei quali fu perduto il segreto.

«Gli amici che vegliano sapranno così che Mirinri è pronto,» disse. «Aspettiamoli e che Osiride protegga il nuovo Figlio del Sole.»

CAPITOLO QUINTO. Alla conquista d’un trono

Tre giorni dopo, verso il tramonto, un piccolo veliero, che rassomigliava molto alle dahabiad che si usano ancora oggidì sul Nilo, e che, al pari di quelle antiche, hanno gli alberi formati di vari pezzi e uniti con pelli di bue applicati ancora fresche e lasciate poi a disseccare, approdava nel luogo istesso dove Mirinri aveva scoperto il simbolo di vita e di morte.

Aveva la carena piuttosto larga e robusta, la prora arrotondata, con qualche ornamento d’oro sulla polena rappresentante un ibis colle ali spiegate, e due immense vele di lino bianco, simili nel taglio a quelle latine, ma colle punte più slanciate.

La montavano due dozzine e più di etiopi, uomini dalla pelle assai nera, e di forme erculee, che mostravano nude, non avendo che una larga fascia attortigliata intorno ai fianchi coi due capi pendenti fra le gambe che giungevano quasi fino a terra. Era d’altronde quello il costume usato dal popolo ed era più che sufficiente, sotto quel clima sempre caldo anche durante i mesi invernali.

Un uomo che portava due grembiuli di cotone azzurro, di forma rettangolare, ripiegati in avanti e trattenuti intorno alle reni da una cintura di cuoio e sul capo una parrucca con grossi rotoli di capelli a gran riccioli tubiformi e trecce pendenti lungo le spalle, stava al timone.

Era un bell’uomo sulla quarantina, colla pelle solamente un po’ abbronzata e che incarnava il vero tipo dell’egiziano antico: alto, piuttosto magro, con spalle larghe e piene, le braccia nervose terminanti con mani lunghe e fini, le gambe secche coi muscoli dei garretti assai pronunciati, come la maggior parte dei popoli camminatori.

 

Sul suo viso vi era una espressione di tristezza profonda, che si rifletteva viva nei suoi grandi occhi nerissimi, quella tristezza istintiva che si osserva anche oggidì negli egiziani moderni.

Appena la barca ebbe toccata la riva, che in quel luogo era alta e coperta da palmizi splendidi, l’egiziano diede ordine agli etiopi di gettare un pontile di legno, poi s’accostò ad una specie di tamburo di grosse dimensioni, in forma d’imbuto e si mise a percuoterlo poderosamente, intanto che uno dei suoi uomini dava fiato ad un flauto, traendo delle note acutissime che si potevano udire a qualche miglio di distanza.

Quella musica, ingrossata dai colpi sonori del tamburone, durò parecchi minuti, coprendo il gorgoglìo delle acque rompentisi contro le rive e sugli isolotti sabbiosi che ingombravano il maestoso fiume, e propagandosi intensamente sotto le vôlte di verzura.

L’egiziano stava per far segno al suonatore di flauto di cessare, quando sbucarono da una macchia Ounis e Mirinri.

«Che Râ ti porti buona fortuna, Ata,» gridò il sacerdote. «Io ti conduco il futuro Figlio del Sole. Il fiore d’Osiride e Memnone l’hanno riconosciuto.»

«Era ora,» rispose l’egiziano, attraversando il pontile e scendendo sulla riva. «Tutto l’Egitto freme, impaziente di vedere il suo legittimo re.»

S’avvicinò a Mirinri, che si era fermato, guardando con una viva curiosità il comandante di quella bella barca e gli si inginocchiò dinanzi, baciandogli l’orlo della veste.

«Salute eterna al Figlio del Sole,» gli disse. «Salute al discendente del grande Teti.»

«Chi sei?» chiese Mirinri, alzandolo.

«Un amico devoto di tuo padre e di Ounis,» rispose l’egiziano, «e vengo a prenderti per condurti a Menfi. Il tuo posto è là e non fra le sabbie del deserto.»

«Fidati di lui, come di me stesso» disse Ounis, volgendosi verso Mirinri. «È stato un fedele amico di Teti, fu anzi lui a rapirti dal palazzo reale ed a metterti in salvo, prima che nella truce mente di Mirinri Pepi nascesse l’idea di trovare qualche mezzo per sopprimerti.»

«Se un giorno io salirò davvero sul trono dei miei avi, io ti mostrerò la mia riconoscenza,» disse il giovane Faraone.

«Hai veduto a passare i fuochi che io ho affidati alle acque del Nilo?» chiese Ounis…

«Sì,» rispose Ata, «li ho fatti fermare al di sopra di Pamagit, onde le spie dell’usurpatore non potessero sospettare qualche cosa. Bada che dovunque si veglia, perché a corte si sospetta che il figlio di Teti non sia morto.»

«Chi può avere tradito il segreto che ho custodito così gelosamente per tanti anni?» chiese Ounis, impallidendo.

«Lo ignoro, ma io so che un giorno una barca montata da una principessa ha rimontato il Nilo, fino a questo luogo, per ordine del re. Vi era su quella un uomo che aveva veduto più volte il giovane Mirinri, prima che io lo rapissi.»

«Io ho veduto quella principessa, anzi l’ho salvata mentre stava per essere divorata da un coccodrillo,» disse Mirinri.

«E gli uomini che montavano quella barca ti hanno veduto, Figlio del Sole?» chiese Ata, con apprensione.

«Sì.»

«Non ti hanno detto nulla?»

«Assolutamente nulla.»

«Vi era qualcuno che ti osservava attentamente?»

«Mi parve.»

«Ti rammenti, Figlio del Sole, che cosa portasse sul capo?»

«Un berretto molto alto, che s’allargava verso la cima, adorno di simboli d’oro in forma di dischi e di corna.»

«Ed indosso che cosa aveva?»

«Una lunga ciarpa ed una pelle di leopardo annodata fra le due spalle.»

«È lui!» esclamò Ata, facendo un gesto di rabbia.

«Chi lui?» chiesero ad una voce Mirinri e Ounis.

«Il gran sacerdote di Iside. Me lo immaginavo.»

«Spiegati meglio, Ata,» disse Ounis.

«Più tardi: imbarchiamoci e partiamo subito. Sono certo che qualche cosa è trapelato e che in qualche luogo verremo assaliti. Da qualche mese delle persone sospette si aggirano intorno a me e sorvegliano la mia barca. Si cercava certo di sapere dove io mi recavo, quando mi assentavo da Pamagit, per venire a ricevere i tuoi ordini. Noi non viaggeremo che di notte, colle dovute precauzioni e cercheremo di sfuggire gli agguati che ci verranno indubbiamente tesi lungo il Nilo. Il segreto ormai è stato tradito e tu, Figlio del Sole, corri il pericolo di venire arrestato prima di entrare in Menfi.»

«Apriremo bene gli occhi,» disse Ounis.

«E, se verremo assaliti, ci difenderemo,» aggiunse Mirinri. «Sono fidati questi uomini?»

«Sono tutti etiopi valorosi, robusti e devoti a me,» rispose Ata.

«Imbarchiamoci.»

Attraversarono il pontile e salirono sulla barca. Essendo il vento contrario e la corrente invece favorevole, le due grandi vele vennero ammainate sul ponte, poi il piccolo legno fu lasciato libero, mentre gli etiopi, con lunghi remi, lo guidavano in mezzo ai banchi sabbiosi e alle masse di erbe acquatiche che ingombrano così di frequente quel fiume gigante.

Ata, dopo essersi assicurato che il legno non correva, almeno pel momento, alcun pericolo, condusse Mirinri e Ounis a poppa, dove trovavasi una cameretta tappezzata di stuoie variopinte e colle pareti coperte di grandi scudi di pelle, per lo più angolari di sotto e rotondi verso la cima, con un foro nel mezzo, per poter osservare il nemico e d’un gran numero di armi di rame, di bronzo, di ferro e anche di legno, come spade, lance in forma di falci, mazze, ascie, pugnali di varie forme e parecchi archi colle relative faretre, piene di freccie colla punta di metallo…

All’intorno vi erano pochi, però elegantissimi mobili, dalle linee dolci e per lo più oblique, non usando gli Egiziani la linea retta nelle loro costruzioni. Erano dei divanelli guarniti di cuscini ricamati e colle spalliere smaltate e piccole sedie che s’allargavano verso il fondo, dipinte in rosso ed abbellite da penne variopinte incollate lungo le gambe.

Ata prese in un angolo una piccola anfora, dal collo assai lungo, coperta di smalti multicolori e delle tazze di vetro colorato, di squisita fattura, e versò della birra, dicendo:

«Alla grandezza e alla gloria del futuro Faraone. Che Osiride ti protegga, Figlio del Sole.

I tre egiziani vuotarono d’un fiato le tazze, poi Ata sollevò una tenda che copriva il fondo del salotto, aggiungendo:

«Va’ a fare la tua toletta, signore. Un principe non può viaggiare con queste vesti e poi, tu devi figurare d’essere un grande personaggio etiope, così sventeremo meglio i sospetti che potrebbero nascere su di te. I negri che montano la barca basteranno colla loro presenza a farti credere tale. Ti aspettiamo sul ponte, signore. È necessario vegliare.

Uscì dal salotto, seguito da Ounis e salì sul cassero, guardando per parecchi minuti, con estrema attenzione, le due rive del fiume, che in quel luogo erano lontane più d’un miglio l’una dall’altra.

Il sole era già tramontato da più d’un quarto d’ora e le tenebre erano calate sul fiume gigante. In lontananza però un debole chiarore annunciava l’imminente comparsa dell’astro notturno.

«Sei inquieto?» disse Ounis vedendo che Ata continuava a guardare.

«È vero,» rispose l’egiziano.

«Temi dunque d’essere stato seguito da qualcuno?»

«Forse no; tuttavia ho osservato dei fatti strani che sarebbero sfuggiti ad altri meno osservatori di me.»

«Quali?» chiese Ounis.

«Tu sai che sul nostro fiume le erbe galleggianti ed i papiri interrompono di frequente la navigazione, che però, una volta aperti i canali, per un certo tempo si mantengono. Ora ho trovato quei passaggi chiusi e sai come? Quando ho fatto tagliare quelle masse vi ho trovato in mezzo dei pali affondati nel fango. Vuol dire dunque che sul fiume si vegliava e che si cercava d’impedirmi che io lo risalissi fino qui.»

«E altro?»

«Vi è qualche cosa ancora,» disse Ata, la cui fronte appariva pensierosa. «Sono tre giorni che navigo e tutte le notti ho scorto, dietro di me, un lume brillare nell’oscurità e dei fuochi scintillare al di sotto dei palmizi, ora su una riva ed ora sull’altra.»

«Ciò mi preoccupa.»

«Ed io non meno di te. Qualcuno deve avere informato che tu non sei…»

Ounis con un rapido gesto gli mise una mano sulle labbra, dicendogli con voce imperiosa:»

«Taci! Lo voglio!»

«Perdonami,» disse Ata, a bassa voce.

«Io non sono che un sacerdote per te, come per tutti.»

«È vero, dimenticavo il giuramento.»

«Continua.»

«Certo si sospetta alla corte che Mirinri non sia morto.»

«Può darsi. Hai avvertito i nostri amici?»

«Tutti sanno a quest’ora che lui è pronto alla riscossa. Quando noi saremo a Menfi li troveremo tutti riuniti nelle tombe dei coccodrilli e là sarà reso l’omaggio dovuto al nuovo Figlio del Sole, e che…»

Un urto leggero, che fece oscillare la barca, lo interruppe. La discesa del fiume si era arrestata.

Ata aggrottatò la fronte.

«Ci hanno chiuso il passaggio,» mormorò. «Me l’aspettavo; eppure stamane le erbe non erano così fitte da impedire al mio veliero di risalire il fiume. Che le spie del Faraone siano già giunte qui?»

«Le piante crescono presto sul Nilo,» disse Ounis. «Bastano ventiquattro ore per ostruire il fiume.»

Ata crollò il capo e si spinse verso la prora, dove gli etiopi si erano raccolti per provare, coi loro lunghi remi, la resistenza che opponeva quella barra erbosa.

Il Nilo va soggetto a delle ostruzioni improvvise, che di quando in quando intercettano completamente la navigazione, obbligando gli equipaggi dei piccoli velieri che lo salgono e lo discendono a delle dure fatiche per aprirsi un passaggio.

Anticamente, quando i papiri e gli ambath erano ben più numerosi d’oggidì e raggiungevano delle dimensioni straordinarie, la navigazione di quel fiume immenso subiva dei ristagni assai più considerevoli. Quelle piante acquatiche, conosciute oggidì col nome di sett o meglio di sudd, prendevano tali proporzioni da impedire qualsiasi passaggio alle navi che dovevano, per scopi commerciali, spingersi verso l’alto Nilo.

Già quasi tutti i fiumi africani vanno soggetti a simili ingombri, perfino lo Zambese; quello che bagna l’Egitto è afflitto da una massa maggiore di quelle cattive erbe, che la corrente, anche durante le piene, non riesce a sfondare.

Anche oggidì, di quando in quando, il corso del Nilo ed i suoi affluenti, quantunque il papiro sia quasi scomparso, vengono invasi da quella vegetazione acquatica, la quale cresce con rapidità prodigiosa formando delle masse enormi così compatte, da obbligare il governo egiziano a mandare delle migliaia d’uomini per aprire dei canali che difficilmente poi rimangono aperti.

Fra il 1870 ed il 1873 Samuele Baker, il famoso esploratore che conduceva una spedizione armata nell’Alto Egitto per reprimere la schiavitù, fu fermato per lungo tempo dal sett che aveva ostruito il Bahr-el-Djebet, in modo da non potergli permettere di giungere a Gondokoro.

Anche nel 1898 le cannoniere inglesi, che operavano contro i madhisti, si videro costrette ad aprirsi un canale attraverso la massa erbosa, la quale era così fitta da sostenere senza alcun pericolo gli uomini che lavoravano. C’era però un altro pericolo, poiché di quando in quando fra quelle piante balzavano fuori dei coccodrilli e le loro formidabili mascelle si serravano attorno alle gambe dei marinai e dei soldati.

Molti anni prima fu il Nilo Bianco che si coprì di sett, eppure quello splendido corso d’acqua ha una larghezza di mezzo chilometro ed una profondità di cinque metri e da quell’epoca le erbe non hanno cessato di aumentare, costringendo il governo egiziano ad un continuo e costoso ripulimento del letto ed all’apertura dei canali, onde mantenere le sue relazioni colle provincie equatoriali.

Tagliare quelle erbe non è difficile, perché non presentano una grande resistenza; il più è mantenere quelle aperture libere, perché tutta la regione intorno al fiume non è altro che una immensa palude, che rappresenta il letto di qualche antico lago nel quale l’acqua si espande su larghi spazii e si evapora in gran parte senza tregua.

Ata, dopo d’aver osservato attentamente la massa erbosa che impediva quel passo, che aveva trovato libero il mattino, chiamò due dei suoi battellieri, dicendo loro:

«Guardate se hanno piantato degli ostacoli nel letto del fiume.»

I due etiopi s’armarono con delle pesanti ascie di bronzo, potendo darsi il caso che fra quelle masse vegetali si nascondesse qualche coccodrillo e si calarono sul sett che era formato da un denso strato di ambath e di foglie di loto, strettamente amalgamate.

«Vi sostiene?» chiese Ata, che stava curvo sul bordo.

«Sì, padrone,» risposero i due battellieri.

«Non scorgete nulla?»

«Aspetta.»

Affondarono le mani nella massa, frugando qua e là fra la moltitudine di radici che formavano un vero graticolato, e ben presto un grido di sorpresa sfuggì dalle loro labbra.

 

«Avevi ragione, padrone,» disse uno dei due. «Il canale è stato chiuso appositamente per impedirci il ritorno.»

«Che cosa hanno messo?» chiese Ata.

«Hanno piantato nel letto del fiume dei pali e hanno fatto deviare una massa considerevole di erbe, dopo d’averle tagliate dal grande banco.»

«Giù tutti e aprite il passo,» comandò Ata, volgendosi verso gli altri etiopi che stavano dietro di lui, in attesa dei suoi ordini. «Non facciamoci sorprendere immobilizzati. Devono averci preparato qualche agguato. Fortunatamente il fiume è largo e le rive sono lontane.»

Mentre i battellieri scendevano per sbarazzare quel tratto di fiume che dei nemici misteriosi avevano appositamente ostruito, comparve sulla tolda Mirinri.

Il giovane non indossava più la lunga veste bianca che non si addiceva ad una persona d’alto grado, né aveva i piedi nudi.

Portava invece il costume nazionale, così semplice, eppure così pittoresco, degli antichi egizi e che era rappresentato dalla kalasiris, una veste leggera, così trasparente da lasciar intravvedere le forme, a righe bianche ed azzurre, che avvolgeva il corpo a partire dal collo o dalla cavità del petto per cadere fino ai piedi e con un buco per lasciar passare la testa.

Vi aveva aggiunto, come esigeva il costume di quell’epoca, nei personaggi cospicui, anche per le donne d’origine nobile, un collare variopinto di tela inamidata, quasi circolare, tutto chiuso, adorno di cordoni e di catene a cui erano infilate delle perline di vetro e simboli religiosi di pietre multicolori.

Ai piedi portava delle calzature a maglia e dei sandali, lusso permesso solamente ai ricchi, formati da pellicole di papiro sovrapposte a più strati, colla punta in forma di becco, come i nostri pattini da ghiaccio, fissati con un largo laccio guernito di piastrine d’oro e trattenuti da una correggia che passava fra il pollice e l’indice.

«Che cosa c’è dunque?» chiese, vedendo tutti gli etiopi sul sett.

«Brutte nuove,» rispose Ounis. «Si sospetta di noi.»

«Così presto?»

«Questa ne è la prova. Il canale non deve essere stato chiuso per capriccio. Per compiere un simile lavoro in poche ore devono essere giunte qui molte barche, montate da parecchie centinaia d’uomini.»

«Eppure tu hai preso per tanti anni le più accurate precauzioni. Ata è fidato?»

«Non dubito di lui.»

«Chi può aver tradito il segreto?»

«Quella gita compiuta dalla principessa non era che un pretesto. Ti si cercava. Mirinri, guardati da lei!»

«È figlia dell’usurpatore?»

«Sì.»

Un’emozione profonda si era dipinta sul viso del giovane Faraone. Stette parecchi istanti silenzioso, come raccolto in se stesso, poi disse con una certa esitazione:

«Eppure mi pare impossibile che quella donna che io ho strappato dalle fauci del coccodrillo, mettendo a repentaglio la mia vita, esiga la mia morte.»

«Odiala come la peggiore nemica.»

«Lei! Ma dunque le donne dei Faraoni posseggono delle malìe che nessuno può spiegare?»

«L’ami dunque?»

«Sì, immensamente l’amo,» rispose Mirinri con uno scatto d’improvviso entusiasmo. «Io non la posso dimenticare, perché sento ogni momento che io chiudo gli occhi, il fremito che io ho provato in quel giorno, quando la trassi dal Nilo, stillante acqua sacra.»

Ounis ebbe un sussulto ed i suoi lineamenti si contrassero quasi ferocemente.

«Strano destino del sangue,» disse.

Poi, volgendosi bruscamente verso Ata, che osservava sempre gli etiopi occupati a fendere, a gran colpi d’azza, l’ammasso d’erbe che impediva alla barca di proseguire la sua rotta, gli chiese:

«Dunque?

«Ne avremo fino a domani e forse di più,» rispose l’egiziano. «Hanno deviato delle masse enormi che hanno trattenute con un numero infinito di pali. Qui è stato compiuto un tradimento infame e anche…»

Un urlìo furioso, che s’alzava sulla riva sinistra del fiume gigante, accompagnato da scoppi di risa, gli aveva interrotta la frase.

«Qui, naviganti!» urlavano centinaia di voci rauche. «Non venite dunque a bere il dolce vino di palma? A terra o affonderemo la vostra nave e vi faremo bere invece l’acqua del fiume!»

Una turba di uomini e di donne era comparsa improvvisamente sulla riva del fiume e si sbracciava, come se fosse diventata improvvisamente pazza, saltellando al di sotto dei palmizi, che ergevano i loro snelli tronchi e stendevano le loro foglie piumate.

«Qui! Qui!» gridava senza posa. «È la festa di Bast e vuotiamo gli avanzi del vino dell’annata. Nessun forestiero può rifiutarsi! Scendete e rallegrate la nostra festa.»

In mezzo a quell’urlìo, si udivano a squillare delle cornette che avevano delle note assordanti, quegli strani istrumenti musicali chiamati dagli antichi egizi tan e che i greci affermavano sembrare il loro suono all’urlo di cani rabbiosi; le banit ossia le arpe facevano udire dei suoni dolcissimi, ai quali si confondevano le note un po’ stridule delle nebel, le chitarre usate in quell’epoca e che sembra fossero importate dai popoli asiatici.

Ata si era fatto oscuro in viso.

«Un agguato o la festa annuale dei bevitori?» si chiese con apprensione.

«Che cosa vuoi dire?» domandò Mirinri, che era stato profondamente colpito da quei suoni, che mai aveva udito a echeggiare fra le sabbie del deserto.

«Tu non conosci le nostre feste,» rispose l’egiziano. «Il Figlio del Sole non è vissuto nelle nostre terre.»

«Chi sono quegli uomini?»

«Persone che si divertono,» rispose Ounis, che gli stava presso. «Tutti gli anni si radunano sulle rive del sacro fiume parecchie centinaia o migliaia di individui per terminare il vino di palma raccolto nell’annata e nessuno deve ritornare alla propria casa se non è ubbriaco. È un costume del tuo futuro popolo.»

«E che cosa vogliono da noi?»

«T’invitano a prendere parte alla loro festa.»

«Io con loro?»

«Sono ebbri, Figlio del Sole, e tu non puoi sapere a quale pericolo ci esporremmo colla barca immobilizzata, a non obbedire al loro invito,» disse Ata.

«Non ci tenderanno un agguato?» chiese Ounis.

«Sono troppo allegri.»

«I tuoi uomini avranno molto da fare ancora?»

«Sì, Ounis. Il passaggio è stato chiuso su una larghezza ragguardevole e non potremo proseguire il viaggio prima di domani mattina.»

«Sicché dovremo accettare il loro invito?»

«Credo che sia cosa prudente non rifiutare. Sono ubriachi, quindi capaci di tutto. D’altronde vedi le loro scialuppe muovere verso le masse erbose. Evitiamo qualsiasi sospetto e scendiamo a terra come onesti naviganti del Nilo. I miei etiopi si terranno pronti, in caso di pericolo, a difendere il Figlio del Sole.»