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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Capitolo trentaquattresimo. L’assalto di Panama

La spedizione organizzata da Morgan per muovere all’attacco della regina dell’Oceano Pacifico, era la più formidabile che fino allora avessero potuto formare i filibustieri della Tortue.

Essa si componeva di trentasette legni fra grossi e piccoli, montati da duemila combattenti, senza contare i marinai, muniti di artiglierie, di fuochi artificiali e di abbondanti munizioni da bocca e da guerra: una vera armata per quei tempi.

Da tutte le parti erano accorsi uomini per arruolarsi sotto la bandiera di Morgan, colla speranza di arricchirsi prodigiosamente nel saccheggio di quella grande ed opulenta città, la maggiore che possedessero gli spagnoli dopo la capitale del Perù.

Ne erano giunti dalla Giamaica, da S. Cristoforo, da Goave e quasi tutti i bucanieri di San Domingo; quei terribili e famosi bersaglieri, avevano aderito per odio contro gli spagnoli.

Con un tatto e con un’abilità straordinaria, Morgan era riuscito a riordinare quell’accozzaglia di ladri di mare, formata dalla più indisciplinata canaglia dell’universo.

Separata la squadra in due divisioni, aveva nominato sé stesso ammiraglio col comando della prima e un altro contrammiraglio per il comando della seconda. Quarantotto ore dopo la partenza della corvetta di Pierre le Picard, muovendo risolutamente verso l’isola di Santa Caterina che era allora tenuta fortemente dagli spagnoli e dove contava di lasciare parte della sua gente onde avere sempre una buona riserva.

Raggiunto in alto mare dai quattro legni comandati da Brodely, che aveva mandato in cerca di viveri e che si erano riforniti abbondantemente, prendendo d’assalto e saccheggiando la città di Rancaria, presso Cartagena, dopo cinque giorni aveva calato le àncore nella baia dell’isola di Santa Caterina.

Il presidio spagnolo, spaventato per la comparsa di forze così imponenti, non aveva osato opporre la menoma resistenza, quantunque disponesse di forze abbastanza numerose.

Alla prima intimazione di resa era subito sceso a patti, cedendo ai filibustieri dieci forti armati di un gran numero di pezzi d’artiglieria ed i magazzini ben forniti d’armi, di munizioni e di provviste alimentari.

La resa era appena avvenuta quando nella rada era entrata la corvetta. Udendo la triste avventura toccata ai corsari di Pierre le Picard, le due squadre non avevano indugiato a levare le àncore, dopo d’aver lasciato un forte presidio a Santa Caterina e, come abbiamo veduto, erano giunti dinanzi alla borgata nel momento in cui gli assediati si credevano ormai irremissibilmente perduti.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

La sera stessa Morgan, che temeva che la notizia del suo sbarco potesse giungere a Panama troppo presto e che gli spagnoli potessero chiedere soccorsi alle colonie del Perù, del Cile e del Messico, organizzava tosto una forte colonna per impadronirsi del forte di S. Felipe, chiamato anche forte di San Lorenzo, per aprirsi la via che conduceva all’Oceano Pacifico.

Ne affidò il comando a Brodely, che si era acquistata molta fama, e che godeva la fiducia di tutti, dandogli per sottotenente Pierre le Picard.

Carmaux e Wan Stiller, sempre all’avanguardia delle imprese più arrischiate, ne facevano parte assieme a don Raffaele che era giunto con la squadra e che per odio contro il capitano Valera, aveva ormai abbracciato definitivamente la causa dei filibustieri, quantunque gli spiacesse, e non poco, di dover agire contro la bandiera della sua patria.

La colonna si componeva di cinquecento uomini, scelti fra i più valorosi, poiché non si ignorava che quel castello era uno dei più solidi e che anzi era ritenuto inespugnabile.

E infatti, eretto con enormi spese sulla cima d’una rupe ed incaricato di chiudere l’unica via che conduceva a Panama, poderosamente armato di grosse artiglierie e difeso da una guarnigione numerosa e anche valorosa, quel castello era ostacolo così formidabile da fare indietreggiare i più audaci.

I filibustieri però, abituati a non dare mai indietro, si erano animosamente mossi, più che certi di venire a capo di quella pericolosa spedizione.

Al mattino erano già sotto il castello, e intimavano altezzosamente alla guarnigione la resa, minacciando in caso contrario di sterminare la guarnigione.

La risposta che ottennero fu una terribile grandinata di palle di fucile e di cannone.

I filibustieri non si sgomentarono per questo. Animati dalla voce dei sotto-capi, si slanciarono intrepidamente all’assalto, smaniosi di venire all’arma bianca. Ma il fuoco degli assediati, lungi dal rallentare, diventò invece formidabile.

Già cominciavano a scoraggiarsi, quando un bucaniere ebbe un’idea luminosa. Aveva osservato che le tettoie del forte erano coperte di foglie di palma secche, entrò in un campo coltivato a cotone che si estendeva a fianco della rupe, raccolse alcune manate di bambagia e, formata una palla l’attaccò alla bacchetta dell’archibugio, dopo aver passata l’estremità inferiore nella canna.

Ciò fatto diede fuoco al cotone e scaricò il fucile. Quello strano proiettile andò a cadere sulle tettoie del forte le cui foglie non tardarono ad accendersi.

I suoi compagni vedendo quel buon risultato, lo imitarono e cominciò a cadere sulle fortificazioni una pioggia di fuoco anziché di piombo che cadde, che sviluppò un incendio terribile.

Mentre gli spagnoli, che correvano il pericolo di morire arrostiti, cercavano di domare le fiamme, i filibustieri giunsero sotto le palizzate. Abbattutene alcune ed incendiatene altre, dopo un sanguinoso combattimento riuscivano finalmente ad impadronirsi della rocca.

Di trecentoquaranta spagnoli soli ventiquattro erano riusciti a sfuggire alla morte; ma anche i filibustieri avevano pagata a caro prezzo quella prima vittoria, poiché centosessanta di loro erano rimasti sul terreno e ottanta erano feriti.

Spento dopo lunghi sforzi l’incendio, Brodely, che nonostante la perdita delle gambe non aveva ceduto il comando, s’affrettò a fare restaurare il forte onde difendere quel passo importante nel caso che da Panama fossero mandate truppe a riconquistarlo.

Morgan informato di quel primo successo, qualche giorno dopo arrivò al castello col grosso. Aveva fretta di giungere a Panama per non lasciar tempo agli spagnoli di chiamare truppe dal Perù e dal Messico, dove vi erano numerose guarnigioni e poi per paura che il conte di Medina gli sfuggisse nuovamente riparando nelle altre colonie.

Lasciati cinquecento uomini a guardia del castello, il 18 gennaio del 1671 si metteva risolutamente in marcia, non avendo altra guida che don Raffaele che aveva condotto con sé, non essendovi nessuno dei suoi che conoscesse la via che attraversava l’istmo.

Il povero piantatore si era bensì dapprima recisamente rifiutato di far la parte del traditore, ma minacciato di esser fatto morire fra i più atroci tormenti, aveva dovuto cedere alla volontà del formidabile corsaro.

Gli spagnoli, già avvertiti dell’avanzarsi di quel piccolo esercito, non essendo ancora in numero sufficiente per tentare la sorte delle armi, avevano invece distrutti tutti i villaggi e bruciarono perfino le piantagioni, perché i nemici non si rifornissero di viveri.

Morgan però non era uomo da spaventarsi. Sebbene la fame travagliasse crudelmente i suoi uomini, continuò la sua marcia ora attraverso a boscaglie od ora salendo in canotti il fiume Chagres.

Don Raffaele aveva assicurato che nela borgata di Cruces dovevano trovare grandi magazzini, essendo quel borgo il deposito principale di tutte le merci, che andavano a Panama o ne venivano seguendo per un tratto la via fluviale del Chagres.

Fu una crudele delusione. Gli spagnoli, fuggendo dinanzi alle avanguardie dei filibustieri, avevano tutto bruciato e portato via.

Quegli affamati ebbero nondimeno la fortuna di trovare un sacco di cuoio pieno di pane e sedici giare di vino, ben poca cosa per tanta gente.

Si rifecero invece coi cani e coi gatti che erano in buon numero e che distrussero per metterli ad arrostire.

Là finiva il corso del Chagres.

Morgan rimandò alla costa, colle scialuppe che aveva portato, sessanta dei più sfiniti, non conservando solo una piccola barca che doveva servirgli per mandare notizie alla flotta, e dopo una notte di riposo riprese la terribile marcia.

Aveva ancora mille e cento uomini, forza certo imponente, se non tale da fronteggiare gli spagnoli rinchiusi in Panama, che si supponevano quattro o cinque volte più numerosi. Tuttavia Morgan non disperava dell’esito finale di quell’ardita impresa.

Si impegnarono allora fra le aspre gole della Cordigliera di Veragua. Avanzando non scorgevano che burroni e abissi profondi, immense rupi che pareva da un momento all’altro dovessero precipitare sulle loro teste e boscaglie dove non vi erano tracce d’alcun sentiero.

Guidandosi colle bussole, quegli uomini intrepidi non esitarono a spingersi avanti ed a superare tutti gli ostacoli.

Guai se gli spagnoli li avessero assaliti in quelle gole!…

Se non osavano mostrarsi, mandavano però contro i filibustieri grosse partite d’indiani che li tribolavano non poco.

Di quando in quando dalle foreste o dai picchi piombavano loro addosso nembi di freccie e tempeste di sassi, senza che mai riuscissero a scorgere le mani che scagliavano quei proiettili, perché gl’indiani subito fuggivano colla velocità dei daini, sottraendosi abilmente alle scariche degli archibugieri.

Nel penultimo giorno dovettero sostenere una furiosa battaglia che per poco non riuscì loro fatale.

Si erano inoltrati in una gola strettissima, colle pareti tagliate quasi a picco e dove cento uomini ben risoluti e bene armati sarebbero stati sufficienti per sterminarli tutti, quando si videro assaliti da una turba d’indiani coi quali furono costretti a venire alle mani e combattere con tutte le loro forze.

 

Per parecchie ore la sorte rimase indecisa e già i filibustieri scoraggiati stavano per ritirarsi, quando un fortunato colpo di fucile abbatté il capo degl’indiani. I suoi uomini, perdutisi d’animo, abbandonarono il campo, fuggendo sulle montagne.

Il nono giorno quell’orda affamata, dopo d’aver superata con infiniti stenti la Cordigliera, giungeva in una vasta pianura caldissima, dove corse il pericolo di morire di sete, non avendo trovato una sola goccia d’acqua; e forse non avrebbe avuto il coraggio di seguire più oltre Morgan, se una pioggia abbondantissima, seguita da un violento uragano, non li avesse un po’ ringagliarditi.

Lo stesso giorno scoprivano da lontano l’Oceano Pacifico, ed in una vallata trovarono un gran numero di bovi, di asini e di cavalli.

Fu un vero ristoro per quei disgraziati, che in tanti giorni non avevano fatto un solo pasto abbondante.

Si erano appena rimessi in marcia, avanzando a casaccio perché don Raffaele aveva dichiarato di non riconoscere più quei luoghi, quando videro sorgere all’orizzonte le torri di Panama.

L’opulenta regina dell’Oceano Pacifico stava dinanzi a loro!…

Un entusiasmo indicibile si era impadronito di quegli uomini che avevano temuto di rimanere sopraffatti dalle crescenti difficoltà dell’impresa.

«Andiamo all’assalto!…» tale fu il grido che sfuggì da tutti i petti.

Morgan che non voleva cimentarsi subito con uomini ancora stanchi e che desiderava esplorare il terreno, promise l’attacco per l’indomani.

Gli spagnoli, avvertiti della presenza di quei formidabili nemici, rimasero stupefatti e spaventati. Fino allora non avevano creduto che quegli uomini fossero capaci di tanta audacia.

Nondimeno, mentre si organizzava la difesa, il Presidente dell’Udienza Reale spinse alcuni corpi di truppe verso i filibustieri, sperando di bloccarli, e fece tagliare le vie che conducevano in città ed alzare qua e là trincee e batterie.

Morgan avendo scorta una boscaglia dove non vi era la menoma traccia di sentiero, approfittò della notte per farla attraversare dai suoi uomini, giungendo alle spalle dei corpi spagnoli, i quali si videro costretti a lasciare le trincee e le batterie, diventate ormai inutili.

Al mattino i filibustieri erano pronti per muovere all’attacco della città.

Gli spagnoli si erano già riuniti fuori delle mura per dare loro battaglia. Le loro forze si componevano di quattro reggimenti di linea, di duemila quattrocento uomini di truppa leggera, di quattrocento cavalieri e di duemila tori selvaggi condotti da parecchie centinaia d’indiani.

I filibustieri invece non erano che mille e senza un solo pezzo di artiglieria.

«Compare» disse Wan Stiller a Carmaux, che dal margine della foresta osservava, assieme a don Raffaele, gli spagnoli che si spingevano per la pianura in ordine di battaglia, coi tori in testa

«Qui noi tutti vi lascieremo le ossa».

«Vedremo, vedremo, compare Wan» rispose Carmaux, con voce tranquilla. «Sono forse i tori che ti spaventano?»

«Io mi domando che cosa accadrà di noi quando ci rovineranno addosso tutte quelle bestie indemoniate e dietro di esse tutti quei reggimenti».

«Finché non vedo Morgan preoccupato, non ho alcun timore. Che le forze che abbiamo dinanzi siano imponenti non lo nego, ma noi siamo sempre i terribili filibustieri della Tortue. Don Raffaele, voi sapete dove si trova il palazzo del conte di Medina, è vero?»

«Sì» rispose il piantatore.

«Appena saremo entrati in Panama ci condurrete là assieme a Morgan. Il conte non deve sfuggirci».

«Se sarete capaci di entrare» disse don Raffaele, coi denti stretti. «Spero che i miei compatrioti vi diano fra poco una tale batosta da farvi scappare più che in fretta fino a Chagres».

«Voi avete ragione di dire così, mio caro don Raffaele. Siete spagnolo».

I primi colpi di cannone sparati dagli spagnoli, interruppero la loro conversazione.

La battaglia stava per cominciare.

Morgan, che al pari degli altri, temeva l’irrompere di quelle masse d’animali, aveva raccomandato ai suoi uomini di non lasciare il margine della foresta.

Essendo colà il terreno assai malagevole, frastagliato da burroncelli e da crepacci, contava su quegli ostacoli per disorganizzare le colonne dei tori. Aveva avuto anzi la precauzione di mettere in prima fila tutti i bucanieri, quei formidabili bersaglieri che erano abituati a misurarsi con quei robusti animali che nelle boscaglie di San Domingo e di Cuba costituivano il loro principale nutrimento.

Gli spagnoli muovevano all’attacco in linee profonde, fiancheggiati dalla cavalleria e preceduti dagl’indiani che conducevano i tori.

Quando i filibustieri videro quella massa enorme slanciarsi innanzi, aizzata dalle urla selvagge degl’indigeni, furono lesti ad aprire un fuoco formidabile per arrestarla prima che potesse giungere sul margine della foresta.

La carica di quei duemila animali era spaventosa. Correvano all’assalto a testa bassa, colle corna tese orizzontalmente, pronti a sgominare le linee dei corsari e muggendo furiosamente.

Il terreno invece non si prestava ad un assalto compatto. Costretti a dividersi e suddividersi in causa dei burroni, furono accolti dai bucanieri con un fuoco così terribile, che in pochi minuti la metà di essi rimase sul terreno.

Gli altri si dispersero e tornarono verso gli spagnoli, spargendo il panico fra le loro file.

Imbaldanziti da quel primo successo, i corsari ormai sicuri della vittoria, lasciarono la boscaglia assalendo con impeto disperato le forze spagnole.

Si impegnò una mischia sanguinosissima, che durò ben due ore con grande strage d’ambo le parti.

Eppure, incredibile a dirsi, non ostante l’accanita resistenza opposta dagli spagnoli, alle dieci del mattino, fanti, alabardieri ed archibugieri, quelle truppe che il Presidente dell’Udienza Reale aveva mandate contro il piccolo esercito dei filibustieri, colla speranza di schiacciarlo completamente, fuggivano disordinatamente verso Panama.

Tutta la cavalleria era stata distrutta dal fuoco implacabile dei bucanieri, e seicento spagnoli erano rimasti morti sul campo a testimoniare il loro valore, oltre un gran numero di feriti e di prigionieri.

Morgan, radunati i suoi capi, additò loro le torri di Panama, dicendo:

«Ed ora non ci rimane che d’impadronirci della città. Avanti, miei prodi!… La regina dell’Oceano Pacifico è in nostra mano!…»

Capitolo trentacinquesimo. La morte del conte di Medina

Quantunque la battaglia in campo aperto si fosse risolto con la completa sconfitta degli spagnoli, Panama era ancora in grado di opporre una lunga ed ostinata resistenza e di far pagare cara ai filibustieri la loro audacia

Oltre ad essere la più grossa città dell’America Centrale e la più opulenta, era anche la più fortificata, essendo stata cinta interamente dal lato di terra e munita di torri e d’una formidabile artiglieria.

Aveva inoltre nella sua rada navi in buon numero, bene equipaggiate e poderosamente armate e la maggior parte dei suoi abitanti era gente abituata ai combattimenti.

Morgan, che più che la smania di conquista lo spingeva il desiderio di liberare la figlia del Corsaro Nero, alla quale ormai era legato da un affetto ben più profondo che una semplice amicizia, da buon capitano non indugiò a muovere all’assalto della poderosa città.

Voleva approfittare del terrore e della confusione che vi regnava, dopo la disastrosa sconfitta subìta dalle truppe.

Formate quattro colonne d’assalto e dati gli ordini necessari ai suoi capi, mezz’ora dopo la vittoria i suoi uomini, già sicuri d’impadronirsi della città, erano sotto le mura.

Malgrado la dolorosa impressione prodotta dalla perdita della battaglia, soldati e cittadini avevano organizzata rapidamente la resistenza.

Un formidabile fuoco d’artiglieria aveva accolse le colonne d’attacco dei filibustieri, facendo delle vere stragi; ma quei coraggiosi non si perdettero d’animo

Tre ore durò la lotta dinanzi alle mura, mettendo a durissima prova il valore ormai leggendario di quei ladroni di mare. Finalmente, malgrado il fuoco infernale degli spagnoli, Pierre le Picard per il primo, riuscì, alla testa d’un pugno di disperati, a impadronirsi d’uno dei più solidi bastioni, dopo aver distrutto fino all’ultimo i difensori, compresi i frati che il Presidente dell’Udienza Reale aveva inviati sulle mura, perché colla loro presenza incoraggiassero i difensori[5].

Voltate le artiglierie contro la città e contro le torri, quel primo manipolo diede tempo agli altri di scalare le mura e di rovesciarsi attraverso le vie come un torrente che rompe gli argini.

Ormai più nessuno opponeva resistenza. Fuggivano i soldati, fuggivano i cittadini, fra un frastuono orrendo e le bordate che scaricavano le navi della rada facevano più danno alle case che ai filibustieri.

Un panico indescrivibile si era impadronito di tutti, cosicché mancò la difesa interna, che avrebbe potuto disputare ancora a lungo la vittoria dei terribili scorridori del golfo del Messico.

I capi, d’altronde, avevano perduta la testa, ed erano stati i primi od a fuggire o ad arrendersi, compreso il Presidente dell’Udienza Reale.

Morgan, temendo che i suoi uomini, dopo tante sofferenze si abbandonassero all’orgia, s’affrettò a far spargere la voce che gli spagnoli avevano avvelenati i cibi e le bevande.

Mentre i filibustieri, occupati i punti principali, bombardavano le navi della baia che erano ormai le sole a opporre ancora qualche resistenza, Morgan con una schiera di corsari scelti, fra i quali Pierre le Picard, Carmaux e Wan Stiller, si diresse velocemente verso il centro della città. Don Raffaele, continuamente minacciato di morte, li guidava al palazzo del conte di Medina che era uno dei più noti e dei più belli di Panama.

A Morgan premeva precludergli la fuga e di strappargli Jolanda.

Certo il fulmineo assalto dato dai filibustieri, gli aveva impedito di prendere il largo per tempo.

Un quarto d’ora dopo il drappello, che si cacciava innanzi turbe di fuggenti, giungeva su una vasta piazza, nel cui centro sorgeva un bellissimo edificio a due piani. Sul portone si scorgeva lo stemma del conte: due leoni rampanti in campo azzurro.

Dei servi fuggivano in quel momento, carichi di pacchi che contenevano probabilmente degli oggetti preziosi.

Vedendo comparire quel drappello di uomini armati, gettarono ogni cosa a terra per essere più lesti nella corsa, ma Pierre le Picard giunse in tempo per fermarne uno.

«Non uccidetemi!» aveva gridato il povero uomo, con voce tremante. «Sono un misero servo».

«Tu sei proprio il tipo che ci occorre, giovanotto» rispose Pierre. «Noi non ti faremo male alcuno se risponderai e subito alle nostre domande».

«Dov’è il conte di Medina?» gli chiese Morgan, mentre i suoi uomini occupavano l’atrio del palazzo per impedire la fuga a coloro che erano ancora rimasti dentro.

«Non lo so, signore» rispose il servo, diventando livido.

«Pierre», disse il filibustiere, «fa fucilare quest’uomo, giacché cerca d’ingannarci».

Il poveretto, comprendendo che la sua vita era appesa ad un filo, aveva alzate le mani, gridando:

«No, signori, parlerò».

«Dov’è dunque?» chiese Morgan, con voce terribile.

«Nel palazzo».

«Non è fuggito?»

«Gli è mancato il tempo. Non credeva che la città cadesse nelle vostre mani così presto».

«Vi è una fanciulla con lui?»

«Sì, signore».

Morgan non aveva potuto frenare un grido di gioia:

«Finalmente Jolanda è mia!…»

«C’è qualcuno col conte?»

«Il capitano Valera e due dei suoi ufficiali».

«Dove si trova il conte?»

«Si è nascosto»»

«Guidaci» disse Morgan. «A me Carmaux con Wan Stiller. Gli altri circondino il palazzo e facciano fuoco su chi cercherà di uscire».

«E anche voi, don Raffaele, seguiteci» disse Carmaux.

Mentre i filibustieri circondavano il palazzo, Morgan, Pierre, Carmaux, Wan Stiller e don Raffaele, seguivano il servo.

Invece di salire il marmoreo scalone che metteva nelle sale superiori, il prigioniero li condusse in un corridoio alla cui estremità si scorgeva un quadro di grandi dimensioni rappresentante una Madonna.

«Dove andiamo?» chiese Pierre, che diffidava.

«Vi conduco dove si trova il conte» rispose il servo.

«Mano alle spade, amici» comandò il filibustiere. «Rammentatevi dei colpi che vi ha insegnati il Corsaro Nero».

«Silenzio, signori» disse il servo. «Pare che alterchino».

Tutti si erano accostati al quadro tendendo gli orecchi. Si udiva la voce del conte confusa ad altre.

 

Pareva che là dietro si discutesse animatamente. Morgan, che aveva il cuore stretto, ascoltava attentamente rattenendo il respiro.

Ad un tratto, dopo un brevissimo silenzio, udì il governatore di Maracaybo dire con voce minacciosa:

«Firmate, signora, siete ancora in tempo!… Firmate o non uscirete viva di qui!…»

Morgan era diventato pallido come un morto.

«Attenti amici: vi è la signora di Ventimiglia ed il conte potrebbe ucciderla. E tu, apri!…»

Il servo toccò un bottone nascosto fra i fregi della cornice ed il quadro scivolò sotto, scomparendo entro una fessura apertasi nel pavimento.

Dinanzi ai filibustieri s’apriva una sala assai ampia, illuminata da due doppieri. Non conteneva che una lunga tavola, collocata nel mezzo, su cui stavano delle carte ed un calamaio.

Il conte di Medina vi stava appoggiato, tenendo in mano una penna. Dietro di lui si scorgevano il capitano Valera e due ufficiali che tenevano le spade snudate.

Di fronte, dall’altro lato della tavola, si trovava Jolanda, ritta, in una posa fiera e risoluta.

«No, signore, non firmerò giammai!» aveva gridato.

In quell’istante i quattro filibustieri si slanciarono come un solo uomo nella sala, gridando:

«A noi, signori!…»

Pierre le Picard, che era il primo, si era gettato verso Jolanda, mentre Wan Stiller e Carmaux, con una spinta irresistibile, mandarono all’aria la tavola onde non servisse di barriera ai quattro spagnoli.

Il conte di Medina vedendo irrompere quei quattro uomini che ben conosceva, aveva mandato un urlo di furore.

Gettò la penna, estrasse rapidamente una pistola che teneva alla cintura, e prima che alcuno potesse impedirglielo fece fuoco verso Jolanda, urlando:

«Muori per mano del bastardo!…»

Un grido di dolore aveva seguíto lo sparo, ma non lo mandò Jolanda, bensì Pierre le Picard.

Il bravo filibustiere con una mossa fulminea aveva coperto la fanciulla ed aveva ricevuto la palla nel petto.

Tuttavia era rimasto in piedi. S’appoggiò al muro per non cadere, levò a sua volta la pistola e fece fuoco contro il gruppo formato dai quattro spagnoli abbattendo uno dei due ufficiali.

«Sono vendicato» ebbe appena il tempo di dire.

E stramazzò al suolo, mentre Jolanda si curvava su di lui. Quella scena si era svolta così rapidamente, che Morgan non aveva potuto impedirla. Cieco di rabbia si era scagliato addosso al conte che l’aspettava a pie’ fermo, colla spada in mano, gridandogli:

«Difendetevi, signore, perché non vi accorderò quartiere».

Carmaux si era gettato invece contro il capitano, mentre Wan Stiller caricava furiosamente l’ufficiale.

Don Raffaele, istupidito, erasi fermato in un angolo, appoggiandosi contro la parete. La presenza del capitano, del suo implacabile nemico, lo aveva come inchiodato al suolo.

I sei uomini combattevano ferocemente, decisi a uccidere i loro avversari o farsi uccidere.

Erano tutti abilissimi spadaccini, che conoscevano a fondo tutte le sottigliezze della terribile scuola dell’acciaio.

Morgan, accortosi fino dai primi colpi d’aver dinanzi un avversario pericoloso, che non ignorava le botte segrete dei più famosi maestri di quell’epoca, dopo i primi fulminei attacchi era diventato prudente, frenando l’eccitazione dei propri nervi.

Non incalzava più coll’impeto dei primi momenti. Stava invece sulla difensiva, aspettando che il conte, assai meno vigoroso e meno muscoloso, esaurisse le proprie forze per tentare qualche botta segreta insegnatagli dal cavaliere di Ventimiglia.

Il governatore di Maracaybo, che forse si era accorto dell’intenzione dell’avversario, si risparmiava più che poteva, limitandosi a fare delle finte e non rompendo che di rado.

Carmaux ed il capitano Valera s’attaccavano invece rabbiosamente, facendo sprizzare scintille dai ferri.

«Questa volta non vi risparmierò come l’altra» diceva Carmaux, incalzando vigorosamente l’avversario.

Il capitano conservava un silenzio feroce. Pareva che qualche sinistro pensiero lo preoccupasse più che la spada di Carmaux ed il pericolo di cadere con tre pollici di ferro nel petto.

Colla fronte aggrottata, le labbra contratte da un sogghigno crudele, lanciava a destra ed a sinistra degli sguardi obliqui come se cercasse di scoprire qualche rifugio. Rompeva di frequente, come se non fosse capace di tener testa agli assalti più impetuosi del francese e per calcolo o per caso, s’accostava a poco a poco a don Raffaele che era sempre addossato al muro, a breve distanza dalla signora di Ventimiglia.

L’amburghese invece, più flemmatico del francese, quantunque non meno valente di lui, scambiava vigorose stoccate coll’ufficiale, spingendolo a poco a poco verso la parete contro la quale pensava d’inchiodarlo.

Jolanda, inginocchiata presso il cadavere di Pierre le Picard, pareva che pregasse.

Ad un tratto un urlo selvaggio echeggiò nella sala coprendo il fragore dei ferri, subito seguíto da un grido di dolore e da una voce che diceva:

«Son morto!…»

Era il capitano Valera che aveva fatto il suo colpo.

A poco a poco, sempre indietreggiando, si era accostato a don Raffaele e, dopo essersi assicurato con un rapido sguardo, che ormai si trovava a buona portata, con un salto da tigre si era gettato fuori dalla linea della spada di Carmaux, poi con una stoccata fulminea aveva immerso il ferro nella gola del piantatore.

Il disgraziato, colpito a morte, era stramazzato al suolo mandando quel grido:

«Son morto!…»

Carmaux, vedendosi sfuggire l’avversario, era piombato su di lui, urlando:

«Ora vendicherò don Raffaele!…»

Il capitano, agile come un gatto, si era nuovamente gettato da una parte, precipitandosi addosso alla signora di Ventimiglia che non si era accorta del grave pericolo.

Già stava per trafiggerla alle spalle, quando Wan Stiller, che era a pochi passi, e che aveva udito il grido di furore di Carmaux, con una stoccata poderosa inchiodò l’ufficiale alla parete, poi, ritirato il ferro fumante di sangue, tese il braccio armato per coprire la fanciulla.

Il capitano, che non s’aspettava quel nuovo avversario, spinto dal proprio slancio, si era infilzato da sé contro la spada dell’amburghese.

Cacciò un urlo feroce, alzò le mani, poi rovinò al suolo mandando un’ultima bestemmia.

Il ferro gli aveva attraversato il cuore.

La signora di Ventimiglia, vedendosi cadere intorno quei due uomini, l’ufficiale ed il capitano, si era alzata di scatto, facendo un gesto d’orrore. Pareva che solo in quel momento si fosse accorta che in quella sala sei uomini lottavano ferocemente, decisi a vincere od a morire.

«Basta!… Basta sangue!…» gridò.

Un urlo di rabbia e di dolore le rispose. Il conte di Medina era stato toccato da Morgan, sopra la mammella sinistra.

«E questa è la botta segreta del Corsaro!…» gridò il filibustiere, portandogli un secondo colpo dal basso in alto, essendosi ripiegato fino a toccare quasi il suolo.

Udendo quella voce e vedendo il conte arretrare, Jolanda aveva gridato:

«No, Morgan… risparmiatelo!»

Era troppo tardi. La botta segreta del Corsaro Nero era partita ed il ferro del filibustiere era scomparso più che mezzo nel petto del conte.

Il figlio di Wan Guld aveva lasciò cadere la spada, portandosi ambe le mani sul cuore.

Fece tre passi indietro, come un automa, cogli occhi sbarrati, le labbra bianche, poi piombò al suolo come un albero sradicato dall’uragano.

Jolanda si precipitò verso di lui, pallida come una morta, commossa.

«Signor conte!…» gli disse, inginocchiandosi presso di lui e prendendogli le mani che diventavano ormai già fredde. «Perdonatemi… non volevo la vostra morte…»

Il bastardo aprì gli occhi già velati e li fissò sulla fanciulla.

Fece cenno che lo rialzassero.

Morgan, gettata via la spada con un gesto di orrore, si era pure inginocchiato presso il morente e lo aveva aiutato a sollevarsi, onde il sangue non lo soffocasse.

«Sono… stato… malvagio…» mormorò con voce semispenta. «Perdonatemi… Jolanda… perdona…temi… dite…lo…»

«Vi perdono, signor conte» rispose la fanciulla, singhiozzando.

Il conte girò il capo verso Morgan che era pure profondamente commosso.

«L’ama…te… è… vero?…» chiese.