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Jolanda, la figlia del Corsaro Nero

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Ci volle una buona ora prima che quel pezzo di legno fosse tagliato a sufficiente profondità per permettere a quell’ammasso di radici e di piante di potersi liberamente muovere.

«Va!…» esclamò Jolanda. «l’isolotto si muove! Sono salva!»

Quel grido l’aveva mandato troppo presto.

La massa galleggiante si era appena messa in moto, quando s’inchinò bruscamente da un lato lasciando filtrare abbondantemente l’acqua attraverso le radici ed il terriccio, poi un urlo rauco, che sembrava l’urlo di guerra di un indiano, squarciò improvvisamente l’aria.

Jolanda aveva fatto un salto indietro, mentre un uomo di alta statura, quasi interamente nudo, grondante d’acqua, le si precipitò addosso allungando le mani per afferrarla.

Dalla tinta della pelle, assai più chiara di quella degli altri indiani, dagli occhi azzurrognoli invece d’essere neri e dal naso adunco come il becco d’un pappagallo, la signora di Ventimiglia aveva subito riconosciuto nel suo assalitore uno di quei feroci abitatori delle selve interne del Venezuela, che si pascevano di carne umana; tuttavia non si smarrì.

Aveva nelle vene il sangue del formidabile scorridore del mare e quantunque sola e giovanissima fece fronte all’impetuoso attacco del selvaggio.

Questi d’altronde era inerme.

«Indietro o t’uccido!» gridò la valorosa italiana, spingendo minacciosamente innanzi lo spadone.

L’indiano, che si credeva abbastanza robusto per misurarsi con una creatura che gli pareva debole, invece di dare indietro spiccò un salto per strapparle l’arma.

Jolanda con una mossa fulminea si sottrasse all’attacco, poi allungò il braccio armato, colpendo l’indiano sotto la gola e con tale violenza che la lama entrò nelle carni per parecchi pollici.

Il ferito mandò un urlo feroce, si portò le mani sullo squarcio per arrestare il sangue che sfuggiva a fiotti, poi fuggì via come un pazzo, rantolando.

Jolanda stava per slanciarglisi dietro onde costringerlo ad abbandonare l’isolotto quando udì dietro di sé le canne aprirsi violentemente.

Ebbe appena il tempo di voltarsi e di rimettersi in guardia che vide apparire il secondo indiano, che teneva in mano un grosso bambù terminante in una rozza punta.

Vedendo l’atteggiamento fiero e risoluto della fanciulla e soprattutto la spada che impugnava solidamente, ebbe un momento di esitazione.

Jolanda che vedevasi rizzare dinanzi la morte, ne approfittò per incalzarlo vigorosamente, vibrando tre o quattro stoccate.

La scherma non le era sconosciuta e sapeva valersi delle armi usate in quei tempi.

«T’uccido!…» gli gridò.

L’indiano, sorpreso di aver trovato quell’inaspettata resistenza e forse spaventato dal grido di morte del compagno, indietreggiò verso l’orlo della zattera, digrignando i denti e ruggendo come una belva.

Due volte aveva tentato di colpire la fanciulla colla sua arma primitiva, senza riuscirvi.

Vedendosi presso il margine cercò, con un salto improvviso, di fare inclinare quell’ammasso di radici e di piante, colla speranza di far cadere la valorosa fanciulla e di gettarsele poi addosso a tradimento.

Venutogli meno anche quel tentativo, tentò di scagliarsi sull’avversaria a corpo perduto e di stringerla fra le braccia; invece cadde in acqua con una puntata in mezzo al petto, che gli strappò un urlo di dolore.

Quasi nel medesimo istante le acque si gonfiarono bruscamente presso di lui, due enormi mascelle apparvero munite di denti formidabili e si chiusero con un lugubre scricchiolìo intorno al suo corpo, tagliandolo in due.

Il disgraziato ebbe appena il tempo di mandare un grido orribile e scomparve assieme al caimano, diventato inconsciamente alleato della giovane.

Jolanda atterrita da quell’atroce spettacolo era rimasta muta cogli occhi sbarrati, fissi sul cerchio di sangue, che s’allargava a fior d’acqua.

«Non supponevo che finisse così» disse, tergendosi il freddo sudore che le bagnava la fronte. «È orribile!… È orribile. Cerchiamo almeno di soccorrere l’altro, se è possibile».

Il primo indiano, fuggendo, aveva tracciato un largo solco fra le canne e le piante non si erano ancora alzate. Lo seguì fino sul margine dell’isolotto senza trovare quel disgraziato. Le foglie dei paletuvieri erano imbrattate di sangue non ancora coagulato, ma l’indiano non vi era più.

Probabilmente era balzato in acqua ed era morto in fondo alla palude o era spirato su qualche banco vicino.

«L’hanno voluto» disse con voce triste. «Sarei stata ben felice di risparmiarli».

Ritornò lentamente verso l’altro margine dell’isolotto e guardò verso la riva.

Morgan non si scorgeva più e nemmeno l’accampamento. La zattera si era spostata e filava dolcemente attraverso un ampio canale aperto fra i banchi, andando alla deriva.

Capitolo venticinquesimo. La marcia notturna

Jolanda, certa che anche il primo indiano fosse morto, cominciava a rassicurarsi; tuttavia non era troppo soddisfatta della via che seguiva l’isola galleggiante e che non poteva in modo alcuno modificare, non avendo forza sufficiente per spostare una simile massa, anche se avesse avuto a sua disposizione qualche remo.

Aveva dapprima sperato che andasse alla deriva verso il banco su cui stava ancora arenato il canotto; invece la corrente l’aveva tenuta assai lontana e la trascinava non già verso la riva, bensì verso il mezzodì, dove non scorgevansi, almeno fino allora, alberi di nessuna specie che indicassero la vicinanza d’una foresta e quindi la terra ferma.

«Che questa laguna sbocchi in mare?» si domandò con apprensione. «No, non è possibile» aggiunse poi, dopo essersi orientata col sole. «Il golfo del Messico sta verso il settentrione, ossia dietro di me.

«Dove va dunque quest’acqua? Che si riversi in qualche grande laguna interna? Come sarà inquieto il signor Morgan non scorgendomi più! Se potesse ancora udirmi ed avvertirlo. Proviamo!…»

Si spinse verso l’orlo dell’isolotto e con quanta voce aveva lo chiamò tre volte per nome, poi attese.

Poco dopo una voce assai lontana le rispose.

«Signora!… Signora!… Dove siete?… La corrente mi trascina verso il sud. Appena toccherò terra verrò a raggiungervi. Nessuno mi minaccia, quindi attendetemi senza angosciarvi anche se tardo».

Si sedette sull’orlo della zattera, mettendosi a fianco la spada e trangugiò una mezza dozzina d’uova, fra quelle che aveva prese dai nidi, e deposte in una buca.

«Peccato non poter invitare il signor Morgan» disse. «Ed è lui soprattutto che ha bisogno di rinvigorirsi».

Terminato il magro pasto, con alcune canne si costruì una piccola tettoia per ripararsi dai raggi del sole diventati ardentissimi ed attese pazientemente che la zattera approdasse in qualche luogo.

Il canale era terminato e dinanzi all’isolotto si stendeva una immensa superficie liquida, quasi sgombra di banchi, solcata solo da un numero infinito di uccelli acquatici, che volteggiavano con piena sicurezza anche sopra la testa di Jolanda e che si posavano senza alcuna diffidenza fra le canne.

Al sud invece, si cominciava a discernere una striscia un po’ oscura, che doveva essere il margine di una foresta.

Doveva trovarsi là dietro il bacino di raccolta delle acque, poiché la corrente, quantunque fosse sempre debolissima, non variava direzione.

«Non giungerò all’altra sponda prima del tramonto» disse la fanciulla, che si era alzata per meglio osservare quella linea. «Quanta via dovrò poi fare per raggiungere il signor Morgan?

«E dovrò farla di notte, quando le belve escono dai loro covi per mettersi in cerca di preda! Eppure non posso lasciare solo il filibustiere, che si trova ancora così debole da non potersi difendere.

Tornò a sedersi sotto la tettoia, guardando le acque, che di quando in quando qua e là si gonfiavano, per mostrare qualche dorso rugoso coperto da scaglie fangose.

Erano dei caimani che giuocherellavano, inseguendosi. Fortunatamente pareva che non facessero nessuna attenzione all’isolotto.

La sponda intanto diventava sempre più visibile. Era assai bassa, tanto che pareva si trovasse a livello della laguna e coperta di alberi, che pareva appartenessero alla specie dei manghi, piantati su radici altissime e contorte che parevano uscire dall’acqua.

Il sole stava per tramontare, quando l’isolotto finalmente si arenò su quella riva che pareva costituita da pantani assai molli, i quali potevano benissimo nascondere delle sabbie mobili.

I manghi erano vicinissimi e le loro radici erano così unite da permettere il passaggio.

Jolanda, che diffidava di quel terreno traditore, si appese lo spadone al fianco, poi, aiutandosi colle mani e coi piedi, salì sulla radice più vicina, senza preoccuparsi delle proteste rumorose ed affatto inoffensive d’una banda di scimmie rosse che aveva occupati i rami per saccheggiarne le frutta.

Aggrappandosi alle liane, che pendevano numerose dai tronchi e che erano resistenti come corde di canapa e, guardando attentamente dove posava i piedi per non venire inghiottita dalle sabbie, dopo un quarto d’ora di ginnastica faticosa si trovò finalmente sul terreno solido, che era coperto di palme gommifere d’aspetto bellissimo e pittoresco.

«Risaliamo verso il settentrione» disse Jolanda, che pareva fosse instancabile. «Le belve ordinariamente non lasciano i loro covi prima della mezzanotte e per quell’ora avrò percorso un lungo tratto di via. Povero signor Morgan, come sarà inquieto!…»

Raccolse alcuni manghi che giacevano al suolo, se ne mise alcuni nella sottana ripiegata per serbarti per il ferito, non avendo prese con sé le uova per essere più libera, impugnò lo spadone e si mise coraggiosamente in cammino, costeggiando la laguna.

Il sole era già scomparso e lunghe file di trampolieri solcavano lo spazio per raggiungere le isolette, in mezzo alle cui canne avevano i loro nidi. La luna cominciava a mostrarsi al di sopra dei grandi alberi, tingendo di riflessi argentei le acque.

 

I rumori a poco a poco si spegnevano. Scimmie e volatili tacevano e cominciavano invece a ronzare le terribili zanzare che s’alzavano a battaglioni dai paletuvieri.

Jolanda affrettava il passo, tenendosi lontana più che poteva dal margine della foresta, per non venire improvvisamente sorpresa da qualche giaguaro o da qualche coguaro e si fermava sovente e tendere gli orecchi.

Fortunatamente anche la foresta, almeno fino a quel momento, era silenziosa e non si udiva che il lieve stormire delle fronde, appena agitate dal venticello notturno.

Nondimeno non si sentiva tranquilla e, quantunque avesse lo spadone, delle vaghe paure cominciavano ad infiltrarsi nel suo animo. Le pareva di vedere fra i cespugli della foresta agitarsi delle forme umane e scintillare anche gli occhi fosforescenti degli animali feroci.

Si fermò tre o quattro volte, guardandosi intorno con spavento, credendosi seguita da uomini o da animali, e chiedendosi se non sarebbe stato meglio rifugiarsi su qualche albero e attendere l’alba.

Ogni volta il timore che Morgan, l’uomo per cui, in fondo all’anima nutriva ormai qualcosa di più d’un semplice affetto, potesse correre qualche grave pericolo, la spronò a riprendere la marcia.

Camminava già da un paio d’ore, affrettando sempre più il passo, quando le parve che una figura mostruosa si agitasse sull’orlo della foresta a quaranta passi da lei.

La luna, che splendeva in un cielo purissimo, la illuminava solamente in parte, essendovi in quel luogo delle piante assai fronzute che proiettavano una folta ombra

Jolanda non riusciva a capire bene che animale fosse; le sembrava però una scimmia piuttosto che un giaguaro od un tapiro, e di dimensioni assolutamente straordinarie.

«Che sia un orangutan?» mormorò. «Eppure mi hanno assicurato che in America non si trovano che scimmie di piccola statura».

Si provò a fare qualche passo innanzi, sperando di spaventare quel singolare animale; invece quello non lasciò il posto e continuò a dondolarsi comicamente ed a fare degli inchini.

Jolanda non sapeva che decisione prendere. Tornare indietro e riguadagnare la zattera non voleva; d’altronde esitava a perché quel quadrumane si trovava appunto là dove bisognava passare, essendovi la laguna da una parte ed il bosco dall’altra.

Finalmente si decise e avanzò.

L’animale la lasciò accostare senza fare alcuna dimostrazione ostile, poi, quando se la vide a pochi passi, si alzò e scappò verso il bosco. Cosa strana!… Nel muoversi erasi rimpicciolito e non sembrava più alto di una scimmia comune.

«Oh!… Curiosa!…» esclamò la fanciulla, ridendo. «Che sia stata una illusione ottica? Effetto di raggi di luna ripercossi sulle acque forse, che hanno ingrandito quello scimiotto?

Tutta lieta di essere sfuggita così bene a quel pericolo che non le era sembrato dapprima immaginario, riprese animosamente la via.

Dopo un’altra ora, mentre scendeva da una piccola altura che costeggiava la laguna, distinse finalmente in lontananza un punto luminoso.

«Il nostro accampamento!…» esclamò con voce giuliva. «Povero signor Morgan, come avrà fatto ad accendere il fuoco, ferito come è? Sarà ben lieto di vedermi».

Raddoppiò il passo, senza più preoccuparsi delle urla dei lupi rossi, che di quando in quando risuonavano sotto gli alberi; ad un tratto, quando già non distava dall’accampamento che tre o quattrocento metri e cominciava a distinguere la minuscola tettoia, un grido la fece trasalire.

«Prendi, canaglia!…» aveva urlato una voce formidabile.

«Il signor Morgan!…» aveva esclamato Jolanda. «Dio mio!… È in pericolo!…»

Si mise a correre disperatamente, gridando:

«Signor Morgan, vengo in vostro aiuto!»

Vicino al fuoco mezzo spento vedeva un gruppo che si agitava e che sembrava formato da un uomo e da un animale.

Di quando in quando balenava in aria qualche cosa, come la lama d’una spada, che poi calava rapida, per rialzarsi subito.

La voce continuava a urlare:

«Eccone un’altra!… Non te ne vai ancora? Prendi dunque!…»

Poi si udivano dei rauchi brontolii, che finivano in una specie di ruggito soffocato.

Il filibustiere doveva essere stato assalito da qualche belva e si difendeva disperatamente a colpi di spada.

Jolanda si precipitò verso l’accampamento, gridando:

«Eccomi, signor Morgan!… Giungo in tempo!…»

«Guardatevene, signora» rispose il filibustiere. «È un coguaro quello che m’ha assalito!»

«Così saremo in due ad affrontarlo» rispose la valorosa fanciulla.

Il coguaro, vedendo sopraggiungere quel rinforzo, si volse per far fronte a quel nuovo nemico, e Morgan approfittò per tirargli un colpo di spada nelle natiche.

La belva mandò un ruggito di rabbia e di dolore, con un urlo abbatté la tettoia e fuggì verso il bosco, spiccando salti di tre o quattro metri.

«Grazie, signora» disse Morgan, con voce commossa. «Stavo per essere sopraffatto da quell’animalaccio. Come sono lieto di rivedervi! Cominciavo a temere che vi fosse successa qualche grave disgrazia».

«Siete stato nuovamente ferito?» chiese la fanciulla, premurosamente.

«No, signora. Solamente la mia casacca è stata ridotta in cattivo stato. Ebbi il tempo di afferrare la spada e potei così tenere il coguaro a distanza».

«Vi aveva sorpreso?»

«Sì, mentre stavo riattizzando il fuoco» rispose il filibustiere. Voi, da dove venite? Esporvi così, di notte, sola, su queste sponde che sono infestate da animali pericolosi.

«Non sono forse la figlia del Corsaro Nero?» disse Jolanda, sorridendo.

«È vero» rispose Morgan, imitandola. «Vi dico però che nessun’altra donna, specialmente alla vostra età, avrebbe avuto un tale coraggio».

«Tacete, signor Morgan e ditemi, come va la vostra ferita?»

«Comincia già a cicatrizzarsi, signora».

«Avrete sofferto fame e sete quest’oggi?»

«Ero troppo inquieto per voi per accorgermene».

«Vi ho portato alcuni manghi».

«Mi basteranno. Sedetevi e riposatevi, signora, e poi mi racconterete le vostre avventure».

«Che sono terribili, signor Morgan. Per poco non venivo uccisa e divorata».

«Da chi?» chiese il filibustiere, impallidendo.

«Da due di quegli indiani che ci hanno inseguiti».

«Da quegli antropofagi?…»

«Mangiate, signor Morgan, poi vi racconterò tutto».

Capitolo ventiseiesimo. Ricompare don Raffaele

Quattro giorni dopo, il filibustiere si dichiarò pronto a mettersi in marcia.

La ferita si era quasi interamente rimarginata, e, quantunque si fosse nutrito di sole frutta, le forze a poco a poco gli erano ritornate.

La sua robusta, anzi eccezionale fibra, aveva concorso non poco ad affrettare la sua guarigione.

Già il giorno innanzi si era provato a fare una breve passeggiata nel bosco vicino, senza provare alcun dolore.

«Partiamo, signora» disse dunque quella mattina, dopo una magra colazione di banane cucinate sotto la cenere. «Dobbiamo raggiungere il mare al più presto».

7«Là sta la nostra salvezza».

«Supponete che questa laguna abbia uno sbocco verso il golfo del Messico?» chiese Jolanda.

«Sì, perché io ho ieri osservato che la corrente scende verso il sud per sei ore, e che poi risale verso il settentrione».

«Dunque queste acque subiscono il flusso e riflusso del mare?»

«Precisamente».

«E sperate di trovare là Carmaux?»

«O per lo meno qualche villaggio di Caraibi. Quei selvaggi non sono più cattivi e rispettano gli uomini dalla pelle bianca, ora che hanno subìto la colonizzazione spagnola. Da loro potremo avere facilmente una buona piroga colla quale riusciremo a giungere alla Tortue. Colla promessa di qualche fucile, non si fanno pregare per accompagnarci».

«E Carmaux?»

«Quando saremo alla Tortue manderò qui un drappello di bucanieri o di filibustieri a cercarlo.

«Dov’è il nostro canotto?»

«L’ho ricondotto qui ieri sera, mentre voi dormivate. La zattera che mi avete insegnato a costruire, mi ha trasportata fino al banco dove si era arenato».

«Siete una fanciulla ammirabile, signora di Ventimiglia».

Presero le spade e la pistola e scesero la riva, ma una dolorosa sorpresa li attendeva: l’imbarcazione era nuovamente scomparsa!…

«Che si sia affondata?» si chiese Morgan, diventando pallidissimo.

«Non lo ammetterò mai» rispose Jolanda, che appariva non meno sgomentata del filibustiere. «Era tutta d’un pezzo e non aveva alcuna crepatura».

«Allora ce l’hanno rubata».

«E quando?»

«Voi siete certa che vi fosse ancora ieri sera?»

«Sì, l’avevo legata con una liana nuova».

«Qualcuno ce l’ha rubata approfittando dell’oscurità. Durante la vostra veglia non avete veduto nessuno?»

«Non mi parve, signor Morgan».

Il filibustiere scese la riva e prese la liana che prima univa il canotto ad un fusto di legno cannone e la esaminò attentamente.

«È stata tagliata con un colpo di coltello o con qualche cosa di simile» disse. «Signora, io suppongo che altri indiani abbiano scoperto il nostro accampamento e la più elementare prudenza consiglia di andarcene di qui al più presto».

«E dove?» chiese Jolanda.

«Nella foresta dove gli Oyaculè hanno inseguito Carmaux ed i due caraibi. M’ingannerò, eppure io spero di ritrovare ancora il mio marinaio»

«Sarà necessario attraversare il fiume, ma mi pare che l’acqua non sia troppo profonda e poi sono un buon nuotatore e non avrei difficoltà a portarvi sulla riva opposta».

«Allora andiamo, signor Morgan» rispose Jolanda. «Marciando sempre verso il nord noi giungeremo in ogni modo al mare e voi avete una piccola bussola, è vero?»

«Sì, signora di Ventimiglia».

Raccolse un grosso ramo per servirsene da bastone e si misero tutti e due in cammino, attraversando il promontorio boscoso.

Morgan s’avanzava adagio per non irritare troppo la ferita e di quando in quando si arrestava per scrutare i dintorni, temendo sempre una sorpresa da parte di coloro che avevano rubata la scialuppa.

La foresta sembrava invece deserta, non si scorgevano che pochi gruppi di cebo brune, scimmie dal corpo massiccio, ricche di pelo che si solleva in forma di cresta sul capo, terminante in un ciuffo e che poi si allunga come una barba, girando intorno al mento.

In dieci minuti Morgan e Jolanda attraversarono il lembo della foresta e giunsero sulla riva del fiume, in un luogo ove l’acqua non era molto profonda ed il guado possibile.

«Permettete che vi prenda in braccio, signora» disse Morgan. «Non voglio che vi bagniate».

Stava per curvarsi onde prendere la fanciulla fra le braccia, quando alcune freccie sibilarono ai suoi orecchi, senza colpirlo, poi una turba d’indiani uscì correndo dalla foresta, maneggiando le pesanti mazze quadrangolari ed agitando gli archi.

Morgan snudò rapidamente la spada, gettandosi dinanzi a Jolanda per proteggerla, poi, coprendosi con un fulmineo mulinello, arrestò per un istante gli assalitori, gridando in lingua spagnola:

«Fermatevi o vi uccido!…»

Gl’indiani invece di obbedire si schierarono in semicerchio tendendo gli archi e puntando le frecce contro il petto del filibustiere.

Il momento era terribile. Era impossibile che a così breve distanza gl’indiani, che sono generalmente abilissimi arcieri, potessero mancare al bersaglio.

Morgan, comprendendo che la sua vita e quella di Jolanda erano in grave pericolo, abbassò la spada, dicendo con voce minacciosa:

«Che cosa volete voi dall’uomo bianco? Io non sono vostro nemico. Perché mi assalite?»

Un indiano che era più alto degli altri e che portava infisse nei capelli alcune penne di crace, con un cenno fece abbassare gli archi, poi s’avanzò di qualche passo, dicendo pure in lingua spagnola:

«Chi sei tu e da dove vieni?»

«Siamo naufraghi che la tempesta ha gettati su queste coste».

«Sei tu che hai ucciso uno dei nostri capi che era qui venuto a cacciare il maipuri (tapiro) con un suo compagno e che poi non ha fatto più ritorno alla sua città?»

«Intendi parlare di Kumara, forse?» chiese Morgan, facendo un gesto di sorpresa ed insieme di gioia.

«Come conosci il mio nome?» chiese l’indiano, con non minore sorpresa.

«Io l’ho incontrato cinque giorni or sono presso la costa, assieme al suo compagno. Era stato sorpreso dagli Oyaculè e si era rifugiato nel mio accampamento».

«Sono comparsi qui gli Oyaculè?» chiese l’indiano, con un tremito nella voce.

«Sì, e furono essi a dividermi da Kumara».

 

«E dov’è ora il capo?»

«Io non lo so. È fuggito nella foresta assieme ad uno dei miei compagni e non ho più riveduto nessuno»

«Tu mi giuri sul tuo piaye che non l’hai ucciso?»

«Lo giuro» disse Morgan.

L’indiano si volse verso i suoi compagni e scambiò con loro alcune parole, in una lingua che il filibustiere non comprendeva, quindi tornò verso Morgan che stava sempre dinanzi a Jolanda e gli disse:

«Credo a quanto hai raccontato, uomo bianco. Dove andavi ora?»

«Verso la costa, colla speranza di veder passare uno dei nostri canotti».

«Vieni invece al nostro villaggio che è situato pure presso le rive del mare, all’uscita delle acque della laguna. Noi ti accordiamo larga ospitalità e non avrai nulla da temere. Tu sai che i caraibi sono oggi gli alleati degli spagnoli».

«Noi siamo pronti a seguirti».

«È tua figlia quella fanciulla?» chiese il caraibo.

«No, mia sorella» rispose Morgan.

«Deve essere coraggiosa quanto è bella».

«E saprà difendersi quanto un uomo di guerra».

«È sotto la mia protezione e nessuno oserà alzare gli sguardi su di lei. Facciamo colazione, poi partiremo».

Gli indiani si sedettero intorno a Morgan e a Jolanda e trassero dalle loro pagara (specie di ceste formate di foglie intrecciate) dei pesci che avevano pescati di recente e che avevano già arrostiti, alcuni quarti di kariacù (specie di cervo), dei banani, delle gallette di manioca e alcuni fiaschi di casciri, forte liquore che, bevuto in abbondanza, ubbriaca quanto l’acquavite.

Erano una quarantina, tutti di statura media, come lo sono anche oggidì i pochi caraibi sfuggiti alle stragi commesse dagli spagnoli, dai francesi, dagli olandesi, con spalle larghe, nerboruti, dalla pelle d’una tinta giallo-rossiccia, resa ancora più rossiccia da una mistura d’olio di cocco mescolato all’urina che solevano spalmarsi per difendersi dalle punture delle innumerevoli zanzare.

Avevano il viso tondo, grosso, d’aspetto un po’ malinconico e gli occhi piccoli, neri e vivacissimi ed i capelli assai oscuri e grossolani.

Tutto il loro vestito consisteva in un piccolo gonnellino di cotone ornato di frange e palline di diversi colori; invece abbondavano di collane e di braccialetti formati con denti di belve, con cocche variopinte, becchi di tucano e cristalli di monte; molti avevano il setto nasale bucato e attraversato da una spina di pesce e sotto il labbro inferiore portavano, incastrato nella carne, un dischetto di legno od un pezzo di scaglia di tartaruga.

Quand’ebbero terminata la colazione, che fu consumata in silenzio, non avendo gli indiani dell’America meridionale l’abitudine di parlare durante i loro pasti, si dissetarono abbondantemente, poi diedero il segnale della partenza.

Morgan e Jolanda si misero dietro al capo, il quale, per dimostrare meglio le sue pacifiche intenzioni, non aveva prese nemmeno le loro spade.

Attraversarono un lembo della foresta, aprendosi faticosamente il passo fra quegli ammassi di verzura, e scesero verso la laguna, in una piccola cala dove si trovavano arenati sulla riva sette lunghi canotti fra cui quello che aveva appartenuto a Morgan.

«Sei stato tu a rubarmelo?» chiese il filibustiere al capo dell’orda.

«Sì» rispose l’indiano, ridendo. «Te l’ho preso ieri sera, poco dopo il tramonto. Avendo scorti i fuochi che ardevano nel tuo campo, ho costeggiato la laguna per vedere chi erano le persone accampate e, trovato il canotto, te l’ho preso. D’altronde non era tuo».

«Apparteneva a Kumara» rispose Morgan.

«L’ho riconosciuto subito e, credendo che tu avessi ucciso quel valente guerriero, ti ho teso l’imboscata per vendicarlo».

«Sospetti ancora che io l’abbia ammazzato?»

«No». rispose l’indiano. «Presto, imbarchiamoci».

I caraibi presero posto nei canotti, afferrarono le pagaie e la piccola flottiglia si spinse al largo, dirigendosi verso settentrione.

Morgan e Jolanda si erano installati nella piroga del capo, che era la più lunga e anche la più comoda, essendo riparata nel centro da una piccola piupa, ossia tettoia formata con foglie di waie e di maripa.

Verso sera i canotti giungevano alla foce d’un fiume o d’un canale che fosse, che pareva comunicasse col mare, scendendo la corrente verso la laguna.

Gl’indiani s’accamparono all’estremità d’un promontorio, accendendo numerosi fuochi per tener lontane le belve. Al mattino, allo spuntare del sole, tornavano ad imbarcarsi, remando con gran lena.

A mezzodì il canale s’allargò improvvisamente e subito apparve, su una delle rive, un villaggio acquatico, o aldè piantato su una enorme palizzata e composto di tre o quattro dozzine di carbè, gigantesche case formate da una immensa tettoia, lunghe da sessanta a ottanta piedi, alte diciotto o venti, coi tetti di canne e di foglie di latania.

Attorno alle palizzate, che sostenevano quelle ampie costruzioni, si scorgevano numerosi canotti, alcuni scavati nel tronco d’un cedro ed altri di bambù.

Udendo le grida dei guerrieri, dalle carbè e anche dalle jupa, che sono le capanne destinate alle donne, uscirono numerosi indiani seguìti da un gran numero di fanciulli, che salutavano l’arrivo della squadriglia con strilli così acuti da sfondare gli orecchi.

La canoa del capo, che era la prima, abbordò la palizzata più prossima ed il capo stesso aiutò Morgan e Jolanda a salire sulla piattaforma, dove si erano radunati alcuni sotto-capi, riconoscibili per le penne di craci e di tucani che portavano infisse nei capelli.

Il capo scambiò con loro alcune parole, poi facendo un gesto di sorpresa si volse verso Morgan, dicendogli in lingua spagnola:

«Tu hai detto il vero e ne sono lieto».

«Perché?» chiese il filibustiere.

«Kumara è giunto qui ieri sera, sano e salvo».

«E l’uomo bianco?»

«Gli uomini bianchi, vuoi dire».

«No, ve n’era uno solo cogl’indiani».

«Ve ne sono ora due: guarda. Ecco che giungono».

Due uomini si erano precipitati fuori da una capanna e correvano verso Morgan e Jolanda, balzando attraverso le piattaforme e agitando pazzamente le braccia.

«Carmaux!…» aveva esclamato il filibustiere con gioia.

«E don Raffaele» aveva aggiunto Jolanda.

«Da dove è sbucato quello spagnolo?» si chiese Morgan, con stupore. «E lo dicevano morto!…»

«Capitano!… Capitano!…» gridò Carmaux, che arrivava come una bomba. «Salvi!… Salvi!… Ecco il più bel giorno della mia vita!…»