Za darmo

Il tesoro della montagna azzurra

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V. UN TRADIMENTO MISTERIOSO

I lineamenti del comandante dell’Andalusia erano così alterati, che don Pedro e il bosmano si erano subito chiesti se qualche altra terribile disgrazia stava per colpire i superstiti del naufragio.

– Siete spaventato o incollerito, don Josè? – chiese don Pedro. – Che cosa vi è accaduto dunque per essere così agitato voi che ho sempre visto così calmo e freddo?

– Un momento, don Pedro, – disse il capitano. – Reton, chi vegliava questa notte, alle undici e venti minuti?

– Io, signore

– Chi c’era con te?

– I quattro marinai d’Iquique e il mozzo.

– Dov’eri tu?

– Al timone.

– E gli altri?

– Tutti intorno a me.

– Sei ben sicuro?

– Sì, comandante. Solo Emanuel era a prora.

– Di quel ragazzo non mi occupo, – soggiunse il capitano, alzando le spalle. – Hai visto nessuno accostarsi a questa cassa.?

– No, nessuno.

– Pensa bene, Reton, poiché si tratta di scoprire un traditore.

Il vecchio frugò e rifrugò nel suo cervello poi rispose senza alcuna esitazione:

– Sono sicurissimo che nessuno dei marinai di guardia si è accostato alla tenda.

– Quando hai lasciato il timone?

– Verso le undici, nel momento in cui il dugongo aveva mandato il primo grido.

– E sei andato a prora solo?

– No: tutti mi avevano seguito perché speravano di poter sorprendere e catturare il cetaceo.

– Allora qualcuno deve aver approfittato di quell’istante per commettere l’infame tradimento.

– Ma quale tradimento? – chiesero ad una voce Reton e don Pedro, vivamente impressionati dalle parole del comandante.

– Un miserabile ci ha guastato il sestante e anche il cronometro per impedirmi di fare il punto.

Il bosmano e don Pedro si erano guardati l’un l’altro con stupore. Ci fu fra i tre un lungo silenzio. Si sarebbe detto che non osavano più parlare.

– È un’infamia! – proruppe finalmente il giovane. – Ignora dunque quello sciagurato che cercando di perdere noi perde anche se stesso? Non sospettate di nessuno dei vostri uomini?

– Io ho sempre trovato in loro dei bravi marinai e non ho mai avuto a dolermene, è vero, Reton?

– No, mai, sono stati scelti con cura da me, – rispose il bosmano.

– Eppure il traditore deve nascondersi tra di loro.

– Certo, don Pedro, – soggiunse il capitano. – Siamo in pieno Oceano e nessun altro avrebbe potuto abbordare inosservato la zattera.

– Di chi sospettare? – brontolava con ira. – Se potessi trovarlo, parola di Reton che lo butto ai pescicani… E non poter fare più il punto! Miserabile assassino! Guai se ti prendo!

– Don Josè, che cosa farete ora? – chiese don Pedro dopo un altro momento di silenzio.

– Abbiamo ancora le bussole e con quelle possiamo dirigerci, – rispose il capitano. Non potremo certamente trovare lì per lì la baia di Bualabea, tuttavia, presto o tardi, le coste della Caledonia le raggiungeremo. Quello che vi raccomando per ora è di mantenere il più scrupoloso silenzio per non scoraggiare i marinai. Sorvegliamo attentamente tutti, senza darlo a vedere, e non perdiamo di vista le bussole. La mano infame che ha guastato il sestante e il cronometro potrebbe rovinare anche quelle e allora sarebbe finita per noi.

– Una domanda ancora, don Josè, – disse il giovane. – Vedete in questo tradimento la mano di Ramirez?

– Non ne dubito. Quel furfante deve aver comperato, forse a peso d’oro, qualcuno dei nostri uomini. Giuro però su Dio, che se io riuscirò a sorprendere il traditore lo ucciderò.

– Anch’io, – aggiunse il bosmano. – Gli pianterò il coltello nel cuore.

– Al timone, Reton. La brezza si alza a levante: cerca di dirigerti sempre verso nord-ovest.

– Contate su di me, capitano.

Don Josè prese il cannocchiale e si diresse verso prora seguito da don Pedro. I marinai erano ancora inginocchiati intorno alla salma del povero Cardozo, borbottando di quando in quando qualche preghiera. Solo uno di loro era occupato a fare a pezzi, non senza un certo disgusto, lo sword-fish per preparare la colazione. Da ventiquattro ore quei disgraziati non avevano avuto per razione che poche briciole di biscotto e la fame tormentava ferocemente i loro stomaci. Il capitano giunto sull’orlo della zattera si appoggiò a un barile, essendo il mare un po’ mosso, e puntò il cannocchiale verso ponente, scrutando attentamente l’orizzonte.

– Nulla? – chiese dopo qualche tempo don Pedro.

– Ho scoperto una leggera sfumatura laggiù, che potrebbe essere una nube lontanissima, ma anche una montagna.

– Ce ne sono di alte nella Nuova Caledonia?

– Tre o quattro che pare spingano le loro vette oltre i quattro e i cinquemila piedi: però quelle si trovano tutte verso sud. Può darsi che ce ne sia qualcuna anche a nord, essendo quest’isola poco esplorata.

– Potrebbe essere anche una costa?

– No, è impossibile, – rispose il capitano. – Sono troppo basse e poi dobbiamo tener conto della curva della terra. Cercheremo di non perdere di vista quella sfumatura e intanto ci dirigeremo, per quanto ci sarà possibile in quella direzione. Andiamo a far colazione, don Pedro.

– Con carne cruda?

– Chi oserebbe accendere il fuoco su una zattera? Che cosa accadrebbe di noi se si sviluppasse un incendio? D’altronde vi abituerete più presto di quanto credete.

– E Mina?

– Abbiamo ancora un po’ di prosciutto e lo conserveremo per vostra sorella, ma poi? … Dovrà adattarsi, don Pedro, se non vorrà morire di fame.

Mezzo sword-fish era stato già tagliato in fette sottile dal cuoco di bordo; l’altro era stato messo da parte in un barile. Il capitano radunò l’equipaggio e procedette alla distribuzione avvertendo tutti di economizzare la razione, poiché fino al giorno seguente non avrebbe dato altro. Della provvista non erano rimasti che due unici biscotti, e per consenso comune furono offerti alla señorita, la sola che potesse far eccezione alla legge comune. La colazione fu triste. L’idea di nutrirsi con quel pesce che aveva causata la morte al disgraziato marinaio, aveva frenato perfino l’appetito formidabile di quei robustissimi uomini. La fame feroce però non tardò a vincere gli scrupoli, e le fette di pesce, crude, ancora sanguinanti, scomparvero totalmente nei loro stomaci. Terminata la colazione, il capitano fece cucire dentro un pezzo di vela il morto, e dopo aver recitato una breve preghiera lo fece scivolare dolcemente in mare. La salma era appena sprofondata che un largo cerchio di sangue salì alla superficie. Qualche pescecane, che stava in agguato sotto la zattera, non meno affamato forse dell’equipaggio, aveva a sua volta fatta la sua colazione.

– Ecco le tombe riservate ai marinai, – disse il capitano, con un sospiro.

– Ed ecco un cadavere che forse un giorno rimpiangeremo, – soggiunse sottovoce il bosmano, scotendo tristemente il capo. – Speriamo che Dio non lo voglia!

Fortunatamente nessuno aveva udite quelle terribili parole. I marinai, già molto impressionati e non poco scoraggiati, si erano rimessi in osservazione, dispersi qua e là a gruppetti, interrogando ansiosamente l’orizzonte e spiando i pesci, che di quando in quando si mostravano intorno alla zattera, guardandosi bene però dal lasciarsi prendere. A mezzogiorno don Josè, che non voleva a nessun costo allarmare i suoi uomini, finse di fare il punto, quantunque il sestante e il cronometro fossero inservibili.

– Bah, non siamo che a centosettanta miglia dalla baia, – disse ai marinai che lo circondavano, ansiosi di conoscere la posizione della zattera. – Un po’ di vento che soffi e andremo a riposarci sotto l’ombra dei cocchi e dei niaulis.

Mentiva, poiché pochi minuti dopo abbordava don Pedro che usciva dalla tenda sotto la quale si riposava Mina, dicendogli sottovoce.

– Brutte nuove.

– Perché? – chiese il giovane, non senza dimostrare una profonda apprensione.

– La linea che avevo scorto stamane e che poteva essere una montagna non è più visibile.

– Scomparsa?

– Purtroppo!

– Che cosa ne arguite, don Josè?

– Che la zattera si sia molto spostata.

– Verso quale direzione?

– Settentrione, se le nostre bussole sono sempre esatte.

– Allora abbiamo oltrepassata già la baia.

– Non posso assicurarvelo, don Pedro. Nondimeno ho qualche dubbio.

– Che cosa accadrà di noi, se il vento e le correnti ci spingono lontani dalla nostra meta?

– Chi può dirlo?

– Io provo, comandante, una profonda angoscia. Pensate che domani anche lo sword-fish sarà finito e voi sapete a quale prezzo l’abbiamo acquistato.

– Con una vita umana, – rispose il capitano con voce triste. – Chissà! Qualche volta il mare offre delle risorse. Ah, se si potesse scorgere qualche vela!

– C’è qualche probabilità di un simile incontro? – chiese don Pedro.

Il capitano dell’Andalusia fece con le mani un gesto vago, poi disse con voce lenta, quasi esitante:

– Siamo fuori dalla rotta che tengono i velieri che vanno alle isole della Sonda e nei mari della Cina. Incontrarne una sarebbe una fortuna insperata. Già io, francamente, non calcolo su quelli. Voi siete figlio di uomo di mare e ve lo dico. A nessuno dei miei uomini farei una simile confidenza.

– Prevedete dei tristi giorni, don Josè?

– Io non sono Dio, – rispose il capitano. – Il nostro destino è nelle sue mani.

Dopo mezzogiorno una brezza fresca, cosa veramente insolita sotto quei climi ardenti, si era levata soffiando però sempre da sud-est, ciò che doveva spingere la zattera oltre i capi settentrionali della Nuova Caledonia. Invano il bosmano cercava di regolare la corsa del galleggiante: la deriva era sempre accentuata, perfino troppo. Quel venticello fresco, quantunque soffiasse irregolarmente, aveva però rinfrancato un po’ l’equipaggio, facendogli balenare la speranza di un non lontano approdo. Anche la comparsa di alcuni uccelli marini, che non si erano più visti dopo la furiosa burrasca che aveva mandato l’Andalusia sui frangenti, aveva contribuito non poco a calmare le apprensioni dei naufraghi. Non erano né albatros, né fregate, volatili che si possono incontrare anche a mille miglia al largo dalle isole o dai continenti, ma sule, che ordinariamente non si allontanano troppo dalle coste, e rondoni marini che hanno i loro nidi fra le scogliere degli isolotti. Per di più un gran numero di alghe apparivano in mezzo a una certa polvere giallastra, che i marinai inglesi chiamano sano-dustol, ossia segatura di legno, e che è prodotta da un’alga microscopica che si polverizza facilmente sotto l’impeto delle onde e che cresce in prossimità delle spiagge. Il capitano a cui nulla sfuggiva, dopo aver notato quelle novità si era affrettato a entrare nella tenda dove don Pedro teneva compagnia a sua sorella, prospettandole sempre la speranza di un prossimo approdo, affinché la fanciulla non si perdesse d’animo. Dobbiamo però dire che Mina, quantunque non abituata ai disagi delle lunghe navigazioni, si era mantenuta sempre calma e non aveva perso nulla del suo coraggio.

 

– Qualche buona notizia? – aveva subito chiesto don Pedro, vedendo entrare il comandante.

– Da certi segni ritengo che la terra non sia molto lontana, – aveva risposto don Josè.

– Siamo sempre sulla linea della Nuova Caledonia?

– A settentrione non vi sono isole oltre quella di Bualabea che chiude la baia omonima. Credo quindi fermamente di avere davanti a noi la grande terra dei Kanaki.

– E quando arriveremo, capitano? – chiese Mina.

– Io non posso per ora rispondere alla vostra domanda, señorita, – rispose don Josè. – Tutto dipende dal vento, e questo, disgraziatamente, non soffia sempre forte. E poi c’è qualche corrente che ci fa sempre andare verso settentrione.

– Pensate che domani i viveri saranno nuovamente terminati? – disse don Pedro.

– Quando si ha dell’acqua si può resistere alcuni giorni. E poi la terra non è molto lontana e un giorno o l’altro ce la vedremo sorgere davanti con le sue fresche e meravigliose foreste cariche di frutta deliziosa… Coraggio, mio povero amico: il tesoro della Montagna Azzurra non ci porterà sfortuna!

La notte fu tutt’altro che buona, appunto a causa dei cavalloni che arrivavano con un certo impeto. Qualche burrasca doveva essere scoppiata molto lontano e i poveri naufraghi ne subivano le conseguenze. Quantunque ci fosse una grande agitazione fra l’equipaggio che non riusciva a chiudere occhio, poiché il rollio li faceva rotolare ora avanti e ora indietro, il bosmano, don Josè e don Pedro non dimenticarono di esercitare, a turno, una rigorosa sorveglianza con la speranza di sorprendere il traditore. Ma sia che il miserabile si fosse accorto che vigilavano attentamente sulla cassa contenente gli strumenti o che si fosse accontentato dei gravissimi danni commessi, non si lasciò prendere. Nessun marinaio si era avvicinato alla piccola tenda. Solo Emanuel, il giovane mozzo che godeva la simpatia di tutti, eccettuata quella del bosmano, e che era il meno sospettabile, durante il suo turno di guardia si era fermato qualche istante dietro la tenda per cercare un pezzo di fune e un chiodo per prepararsi un amo da pesca. Quando il sole tornò a mostrarsi all’orizzonte, la situazione non era cambiata. L’ondata pesante che veniva da est, non era cessata e nessuna terra era in vista.

– Nulla, sempre nulla! – esclamò il capitano facendo un gesto di disperazione. Poi soggiunse sottovoce: – E non poter sapere dove ci troviamo, per colpa di un miserabile!

I marinai erano divenuti cupi, tristi, con la disperazione più profonda dipinta sul viso. Lo avevano circondato interrogandolo con lo sguardo.

– Coraggio, amici, – disse don Josè, riacquistando prontamente tutta la sua energia. – La Nuova Caledonia non può essere lontana. Se il vento si alza, in poche ore potremo raggiungerla.

– I viveri quest’oggi saranno finiti, signore, – osservò un marinaio.

– Che cosa accadrà di noi domani se non riusciremo a catturare nessun pesce? – osservò un altro.

– Non si muore di fame per un digiuno di ventiquattro o quarantott’ore, – rispose il capitano. – La mancanza d’acqua sarebbe ben più terribile.

– E se il digiuno dovesse prolungarsi per delle settimane? – chiese un altro. – Sono tre giorni che viviamo con una razione infima.

– Io non ne mangio più di te…

– È vero, capitano Ulloa, – risposero tutti gli altri in coro.

Si sciolsero, disponendosi sui bordi della zattera con la speranza di poter catturare qualche pesce o di sorprendere quel maledetto squalo che si teneva ostinatamente nascosto sotto il galleggiante, mettendo in fuga con la sua presenza tutti gli altri pesci. A mezzogiorno, non avendo preso assolutamente nulla, sebbene possedessero tre o quattro buone canne da pesca, il capitano divise l’altra metà dello sword-fish, che fu immediatamente divorata. Perfino Mina, dopo molte esitazioni, fu costretta a seguire l’esempio degli altri, avendo ormai terminata la sua magrissima provvista di prosciutto salato e il suo ultimo biscotto. Un senso di vero terrore colse i marinai, quando rivolsero il loro sguardo verso la cassa vuota che aveva contenuta la loro ultima risorsa. Fortunatamente parve che Dio avesse compassione di quei disgraziati, poiché qualche ora dopo, Emanuel, che stava sempre in vedetta, non prendendo che dei brevissimi riposi, segnalò uno stormo di giganteschi pesci-volanti che avanzavano da ponente, descrivendo fulminee parabole, perseguitati accanitamente da una sciame di quei grossi uccellacci, dal becco robustissimo, chiamati rompitori d’ossa. Dovevano avere degli altri nemici sott’acqua, delle dorate o dei pesci-spada, perché se non sono minacciati, i pesci-volanti non si abbandonano troppo spesso a quella ginnastica indiavolata. Un grido di gioia si era alzato fra l’equipaggio a cui aveva subito risposto una voce:

– A me una canna! Lasciate fare! Li prenderò al volo!

Un marinaio, barbuto e dalla muscolatura potente, era balzato in piedi fissando lo sguardo sui peschi che si dirigevano verso la zattera.

– Datemi un avanzo qualsiasi dello sword-fish! – aveva subito aggiunto. – Mi incarico io di catturarne qualcuno.

– Ci sono ancora delle budella, – aveva risposto un altro marinaio.

– Presto tagliamone un pezzo.

– Che cosa vuoi fare, John? – chiese il capitano al pescatore improvvisato. – Vuoi cogliere al volo quei pesci che se non m’inganno, sono lunghi quasi come te?

– Sì, capitano, e con l›amo, – rispose il marinaio che era un nordamericano. – Quando ero in California non tornavo mai alla spiaggia senza rimorchiarmi dietro quattro o cinque di quelle bestie.

– E tu vuoi catturare un pesce che pesa almeno duecento libbre? Sono dei giganti, quelli!

– Li conosco capitano: aspettate e vi mostrerò come noi americani peschiamo al volo…Camerati, vi assicuro un’abbondante cena!

Quantunque nessuno avesse molta fiducia nel marinaio che si proponeva, con una semplice canna, di arrestare di colpo quei volatili di mare, si erano tutti ritirati verso poppa per lasciarlo libero di eseguire il suo colpo maestro. Mina, avvertita da suo fratello di quella pesca straordinaria, si era unita a loro. I pesci-volanti, che erano quattro o cinquecento per lo meno, continuavano a fuggire, avanzando verso la zattera. Stretti da vicino dai loro nemici acquatici e perseguitati non meno accanitamente dai feroci rompitori di ossa che li afferravano al volo, descrivevano dei fulminei zig-zag, vibrando disperatamente le loro natatoie, poi si lasciavano cadere a piombo sollevando enormi spruzzi d’acqua. L’americano, ritto a qualche passo dal margine della zattera, con le gambe ben allargate, faceva fischiare la sua lunga funicella alla quale era attaccato un solido amo, imprimendole un rapidissimo movimento circolare. Aspettava il momento buono per fare il colpo che doveva stupire i naufraghi. John, vigile, attentissimo, aspettava, senza cessare di far circolare la sua funicella. Di quando in quando, con un colpo improvviso, la lanciava in alto per provare l’elasticità delle sue braccia.

A un tratto la sua voce si fece udire:

– Che nessun parli!

Venti o trenta pesci-volanti si erano bruscamente alzati, mentre sotto di loro apparivano delle lunghe e acutissime lame nerastre: erano le armi terribili degli sword-fish. Quei voraci pesci inseguivano accanitamente le prede e quando cadevano, da bravi spadaccini, le infilzavano senza quasi mai sbagliare il colpo. Lo sword, la dorata e le sfirene sono i più tremendi nemici dei pesci volanti. Quando ne incontrano un branco li perseguitano con ferocia e non la smettono finché non li hanno completamente distrutti. John era pronto. La sua funicella s’innalzò quasi verticalmente descrivendo poi una rapidissima curva che avvolse completamente il primo pesce-volante che passava sopra la zattera. L’amo si era infisso profondamente in un fianco del povero animale, facendolo precipitare di colpo.

– Impadronitevi di questo! – urlò l’americano, prendendo una seconda canna. – Lesti! Staccatelo prima, poi issatelo a bordo.

Un altro colpo maestro, più preciso e fulmineo del primo e un altro dittalottero sprofondò, dibattendosi disordinatamente. Poi un terzo fu catturato. Gli altri pesci-volanti, pur essendo perseguitati dai rompitori di ossa, si guardarono bene dal passare sopra il galleggiante, dove trovavano altri nemici non meno affamati. I tre pesci, imbrigliati dai colpi maestri dell’americano, si dibattevano con furore, opponendo una resistenza straordinaria. Ora si lanciavano quasi verticalmente fuori dall’acqua, roteando su se stessi; ora descrivevano dei bruschi angoli, cercando di liberarsi degli ami che straziavano le loro carni. La lotta durò una buona mezz’ora, poi furono tirati a bordo e uccisi a colpi di coltello. Quella sera i naufraghi ebbero una cena abbondante, se non eccellente, e la cassa delle provviste si riempì.

VI. LA RIVOLTA

Altri due giorni erano trascorsi, senza che la situazione dei disgraziati naufraghi fosse in alcun modo migliorata. La inafferrabile terra dei Kanaki pareva fuggisse sempre davanti alla zattera, che pure aveva percorso una trentina di miglia mantenendo sempre la sua rotta. Nessuna nave si era mostrata, né vicina, né lontana. Solo qualche uccello marino si era avvicinato alla zattera, attratto più che altro dalla curiosità, ma si era subito allontanato, prima ancora che il capitano e don Pedro, che erano entrambi abilissimi tiratori, avessero avuto il tempo di prendere i fucili. Le provviste, fornite dall’abilità del nordamericano, diminuivano a vista d’occhio, nonostante l’economia del comandante. E le poche che ancora rimanevano minacciavano di corrompersi poiché il caldo era sempre intensissimo e i naufraghi non avevano nemmeno un grammo di sale. La cupa disperazione dell’equipaggio, in quei due giorni, era aumentata. Dove si trovavano? Dove il vento e le correnti avevano spinto la zattera? Era vicina o lontana quell’isola che nascondeva il tesoro della Montagna Azzurra? Inutilmente avevano rivolto domande su domande al capitano per sapere almeno su quale rotta navigavano. Il disgraziato, messo alle strette, aveva dovuto confessare che il cronometro durante il trasporto aveva subito un guasto. Quella notizia aveva prodotto un maggiore scoraggiamento fra i naufraghi dell’Andalusia. Guai, se avessero saputo che un miserabile che si trovava fra di loro era stato l’autore di quell’infamia e fossero riusciti a scoprirlo! Fortunatamente il capitano, che sperava di poterlo sorprendere, si era ben guardato dal comunicare loro il suo segreto. La notte del terzo giorno, dopo la cattura dei pesci-volanti, avvenne un fatto che produsse una enorme impressione nell’animo di don Josè, don Pedro e del bosmano. Tutta la notte la zattera era rimasta immobile, appena mossa dal cambiamento del flusso, non avendo soffiato il menomo alito di vento. Verso l’alba il bosmano, a cui era toccato l’ultimo turno di guardia, si era recato a prora con la speranza di scoprire le montagne dell’isola, quando la sua attenzione fu attirata da un pezzo di sughero simile a quelli che usano i pescatori per le loro lenze, galleggiante a qualche metro dalla zattera. Molto sorpreso per quel fatto inaspettato, non avendo mai visto di quei sugheri a bordo dell’Andalusia, senza dire nulla ai suoi camerati che stavano raccolti a poppa, presso il timone, aveva preso un lungo remo e maneggiandolo cautamente era riuscito a impadronirsi del minuscolo gavitello. Non poteva essere la doga di un baleniere, con le cifre e il nome della nave, in quanto quegli arditi pescatori usano delle tavolette di sughero di dimensioni maggiori. Il vecchio marinaio che aveva fatto nella sua gioventù più di una campagna con i balenieri nordamericani della California e dell’Oregon non poteva ingannarsi. Nascose rapidamente il piccolo gavitello sotto la casacca, temendo di essere scorto dai suoi camerati, e si diresse sollecitamente verso la piccola tenda per avvertire il capitano di quella straordinaria scoperta, che poteva annunciare la vicinanza di qualche nave pescatrice di trepang. Bastò una sola scossa per far balzare in piedi don Josè, il quale aspettandosi di momento in momento qualche notizia, dormiva con un occhio solo.

 

– La costa? – chiese, vedendosi davanti il bosmano.

– Non ancora, comandante, per nostra disgrazia, – rispose Reton. – Comincio però a sperare che non sia molto lontana… Guardate che cosa ho raccolto poco fa.

Il capitano afferrò la tavoletta di sughero, guardandola attentamente da una parte e dell’altra. A un tratto un grido li sfuggì dalle labbra e così alto da svegliare anche don Pedro e Mina.

– Che cosa succede, comandante? – chiese il giovane alzandosi prontamente – È forse in vista la Nuova Caledonia?

– Ancora un tradimento, – rispose don Josè, che appariva in preda a una grande agitazione.

Il bosmano imprecando, si batteva la testa con i pugni poderosi.

– Che cosa dite, capitano? – chiese poi con ansia.

– Che quel traditore continua la sua opera infame.

– Quel pezzo di sughero…

– È un segnale affidato alle onde e alle correnti.

– A quale scopo? – domandò don Pedro.

– Guardate anche voi dunque, – rispose il capitano che sembrava dovesse scoppiare dalla collera.

Don Pedro, a sua volta, si impadronì del sughero e poté distinguere tre strani geroglifici sormontati da un uccello, una specie di colombo, probabilmente un notù, incisi con qualche chiodo o con la punta di un coltello.

– Il segnale misterioso del documento! – esclamò.

– Guardate più sotto, don Pedro.

– Vedo un A

– Che vorrà significare Andalusia, suppongo, – disse il capitano.

– E che cosa volete concludere? – chiese Mina.

Il capitano stette un momento raccolto, poi chiese a don Pedro:

– Voi non avete mostrato a nessuno quel pezzo di corteccia di niauli?

– No, capitano.

– Ne siete ben certo?

– L’ho sempre tenuto nascosto sotto la mia camicia, dopo il naufragio dell’Andalusia.

– E prima?

– L’ho tenuto nella mia cassetta, chiusa a doppio giro di chiave.

– Come può allora uno dei nostri marinai conoscere il segreto? – si chiese don Josè. – Ecco un mistero assolutamente inesplicabile.

– E che cosa volete concludere? – chiese per la seconda volta Mina.

– Che qui sotto c’è la mano del capitano Ramirez, – rispose don Josè. – Quel miserabile deve aver corrotto qualcuno dei miei uomini. Quella doga è un segnale affidato alle onde e probabilmente non sarà stato il solo. Chissà quanti ne sono stati gettati dal traditore, a nostra insaputa con la speranza che qualcuno venga raccolto dall’equipaggio dell’Esmeralda… Tu Reton, hai mai veduto di questi sugheri a bordo dell’Andalusia?

– Mai, – rispose il bosmano. – Solo i pescatori ne usano e noi avevamo ben altro da fare che prendere pesci.

– Ah! – esclamò in quel momento don Pedro che continuava ad osservare la doga. – Ci sono dei segni anche sui margini.

– Quali segni?

– Sette punti e quattro lineette, più cinque numeri: un due, un dieci e un ventiquattro.

– Dei segni convenzionali che avranno il loro significato, – disse il capitano, dopo averli osservati. – Canaglie!

– Voi dunque credete, capitano, che questo sughero sia stato lanciato per segnalare qualche cosa a quel bandito di Ramirez? – chiese il bosmano.

– Solo quel furfante possiede una copia del talismano che ci permetterà di farci consegnare dai krahoa il tesoro raccolto da don Belgrano.

– È vero! – esclamò don Pedro. – E come dovremo regolarci ora?

– Non ci rimane che di raddoppiare la sorveglianza per sorprendere quel traditore, – disse il capitano.

– Ah, se potessi mettergli le mani addosso! – borbottò Reton, digrignando i denti. – Che bella colazione per il pescecane che si nasconde sotto la zattera!

A un tratto si batté la fronte, poi disse:

– Tò… Una sera ho visto Emanuel gettare un pezzo di sughero, per attirare i pesci, come mi disse.

– Vorresti incolpare quel ragazzo? – chiese il capitano, alzando le spalle. – Tu hai la mania di vedere sempre un nemico in quel povero diavolo. Chi ha gettato questo non può essere che un marinaio e molto furbo. Conserviamo il segreto e non dite nulla a nessuno. Non bisogna insospettire il traditore.

– E occhi aperti, aggiunse il bosmano. – Invece di quattro farò otto ore di guardia notturna.

Uscirono tutti insieme, simulando un’aria tranquilla e si spinsero verso prora per osservare l’orizzonte. Quasi tutti i marinai vi si erano già radunati, spingendo lontano, su quella sterminata pianura liquida, di un bell’azzurro profondo costellato di scintillii d’oro, il loro sguardo acutissimo. Nulla: sempre nulla. L’orizzonte era purissimo, senza la più piccola nube e senza il profilo di una montagna. Una calma immensa regnava sul Pacifico.

– Si direbbe che siamo maledetti – disse il capitano, dopo aver guardato in tutte le direzioni. – Anche il vento congiura contro di noi. A questa calma preferirei la tempesta, qualunque cosa dovesse succedere.

Alla notte il capitano, don Pedro e il bosmano raddoppiarono la sorveglianza ma non notarono nulla di insolito. I marinai, stanchi, affamati e assetati, poiché il previdente capitano continuava a diminuire le razioni, non avevano lasciati i loro posti, anzi non avevano smesso di russare, essendosi tutti rifiutati di fare i loro turni, giudicandoli inutili. Nessuno aveva fiducia nell’incontro di una nave, trovandosi la zattera in zone non frequentate da velieri. Altri due giorni trascorsero ancora e senza cibo. Inutilmente tutti avevano cercato di pescare e invano il capitano aveva sparato alcuni colpi contro un gigantesco albatros che era passato sopra la zattera a una tale altezza però da non poterlo colpire. Irritati da tanti patimenti, i marinai cominciarono a diventare pericolosi. Non obbedivano più né agli ordini del capitano, né a quelli del bosmano. Una sorda collera si era già da qualche tempo manifestata, specialmente contro don Pedro e sua sorella, che ritenevano responsabili di tutte le loro disgrazie. Senza quel maledetto tesoro, forse l’Andalusia non sarebbe naufragata e avrebbe ancora navigato pacificamente lungo le coste occidentali dell’America. Don Josè, che li teneva d’occhio, non aveva tardato ad accorgersi della loro irritazione e ne aveva avvertito Reton.

– Se non tocchiamo terra al più presto o non troviamo il modo di rinnovare le provviste, non so che cosa accadrà, – disse. – Io tremo per Mina e per suo fratello. Ho già notato che alcuni marinai ieri sera fissavano con sguardo di ardente bramosia la ragazza.

– Vivaddio! – rispose il bosmano. – Chi la tocca è un uomo morto, parola di Reton! Avete avvertito don Pedro?

– Me ne sono ben guardato.

– Avete fatto bene. I fucili e le munizioni sono sempre sotto la tenda?

– Sì, Reton.

– Badate che non li rubino.

– Non chiudo occhio di notte.

– Ne abbiamo nove, se non sbaglio. Se ne gettassimo almeno cinque in mare?

– Ci avevo già pensato, ma non possiamo privarci delle armi che possono esserci necessarie sulla terra dei Kanaki, esito ad assumermi una tale responsabilità.

– Questo è vero. Potrebbe essere una imprudenza terribile e nondimeno, un giorno o l’altro, se le cose non cambiano, saremo costretti a sbarazzarci dei fucili in più. La fame e i patimenti possono rendere feroci questi uomini.

– E spingerli a rinnovare i mostruosi banchetti di carne umana dei naufraghi della Medusa, – aggiunse il capitano con un sospiro.

I timori di don Josè, poiché la notte stessa, fra le dieci e le undici, sette marinai, fra i quali si trovava anche Emanuel, si raccolsero a prora della zattera e fingendo di pescare intavolarono a voce bassa una terribili discussione. Il mozzo, malgrado la sua giovane età, godeva di un certo ascendente su alcuni componenti dell’equipaggio che erano stati amici di suo padre, un bravo e coraggioso pilota.