Za darmo

Il tesoro della montagna azzurra

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XXIV. L’ABBORDAGGIO

Quando il bosmano vide Matemate e poi Mina scomparire per il sabordo, si preparò a difendere il quadro. Aveva le sue due pistole, i due fucili trovati dalla giovane e la scure del kanako, armi sufficienti per trattenere per alcuni minuti gli assalitori. Non aveva d’altronde l’intenzione di resistere a lungo; a lui bastava tenere occupati gli ubriaconi per un po’ di tempo affinché i fuggiaschi potessero allontanarsi con piena sicurezza. I colpi di puntale grandinavano con un frastuono infernale. I marinai sembravano invasi da un pazzo furore. Le tavole della porta, sotto quegli urti impetuosi saltavano con mille scricchiolii e, ogni volta che una cedeva, erano grida di trionfo.

– Date dentro! – urlavano gli uni.

– Ancora un buon colpo! – gridavano ali altri.

– Avremo la «smorfiosa» e quel brigante di barbablu!

– Su, picchia forte!

Reton, nascosto dietro la tavola della porta che opponeva maggior resistenza, aspettava abbastanza tranquillamente di dare a quelle canaglie la lezione che si era promessa. La barricata, sotto i colpi sempre più impetuosi di quei forsennati, non poteva durare a lungo, ma il bosmano non se ne preoccupava. Matemate e Mina ormai nuotavano indisturbati verso il promontorio e il bravo bosmano non desiderava di più. La tavola assalita furiosamente, si spostò, e dieci mani, armate di coltellacci, si allungarono verso Reton.

– Arrenditi, barbablu! – urlarono sette od otto voci. – Sei preso.

– Prendetemi, – rispose il bosmano. – Non mi difendo più.

Alzò le braccia al di sopra della tavola e scaricò le pistole attraverso la breccia. Le quattro detonazioni furono seguite da urla orribili e da uno stramazzare di corpi umani, Quanti erano caduti? Reton non pensò nemmeno a domandarselo. Approfittando dello sgomento degli assalitori, in due salti attraversò il quadrato, entrò nella cabina e si gettò a capofitto in mare. Si lasciò andare a picco per parecchi metri, poi tagliando l’acqua obliquamente, ricomparve a galla a trenta o quaranta metri dalla poppa della nave. Rinnovò la sua provvista d’aria, poi tornò a tuffarsi, nuotando sott’acqua, quantunque fosse convinto di non essere stato né visto, né sentito saltare dal sabordo. Il rumore della risacca che si rompeva verso la costa, lo decise a rimontare. L’Esmeralda non era che a duecento passi. Sulla tolda si vedevano delle lanterne e si udivano grida feroci.

– Sembra che si siano finalmente accorti che abbiamo preso il largo, – disse. – Pescatemi se ne avete il coraggio.

Guardò avanti a sé e gli sembrò di scorgere due macchie nere a fior d’acqua, in direzione del promontorio.

– Sono Matemate e la señorita, senza dubbio, – mormorò. – Che corsa hanno fatto!

Si allungò sull’acqua e si mise a nuotare vigorosamente. Dieci minuti dopo approdava al promontorio. Stava per uscire dall’acqua, quando scorse una scialuppa scendere il Diao e avviarsi verso l’Esmeralda, che era sempre visibile, malgrado la profonda oscurità. Reton aguzzò lo sguardo e vide che era carica di uomini vestiti di bianco.

– Che sia Ramirez che ritorna alla sua nave? – si chiese. – È impossibile che in così breve tempo abbia raccolto il tesoro della Montagna Azzurra. Caramba dell’inferno! Scommetterei una pipa di tabacco contro dieci piastre, che quegli uomini sono gli stessi che hanno cercato di assalirci sull’isolotto. Mascalzoni potevate ritardare il vostro ritorno di un paio d’ore!… Ah, non abbiamo fortuna!

Uscì lentamente dall’acqua, sdraiandosi sulla sabbia e seguì con lo sguardo la scialuppa che scendeva il fiume. La vide attraversare la foce e abbordare l’Esmeralda sotto l’anca poppiera di babordo.

– Vedremo se questo rinforzo ch’io non mi aspettavo salverà la vostra nave da un abbordaggio, – disse Reton. – Anche noi, avremo la nostra rivincita.

Si rialzò e si mise a correre lungo la spiaggia, tenendosi sotto l’ombra proiettata dagli alberi e arrivò al campo, nel momento in cui i kahoa stavano radunandosi sulla spiaggia.

Il capitano, don Pedro, Mina e Matemate erano là.

– Eccolo, – disse il kanako con voce allegra.

– Ah, mio bravo Reton! – esclamò don José, precipitandosi verso il bosmano. – Temevo di non rivederti più.

– Macché! Me ne sono andato tranquillamente, dopo aver ucciso o storpiato alcuni di quei briganti, – rispose Reton. – Non sono così temibili come pensavo; e poi sono sempre ubriachi.

– E noi siamo pronti a farli prigionieri. Abbiamo costruito quattro gigantesche zattere per condurci fino alla nave e i kahoa non domandano altro che di menare le mani.

– Devo però avvertirvi, don José, che l’equipaggio ha ricevuto dei rinforzi, – disse Reton. – Pochi uomini di certo, poiché la scialuppa che li trasportava non era molto grossa.

– Tu l’hai vista?

– Sì, nel momento in cui stavo per prendere terra. Suppongo che siano quei marinai contro cui abbiamo sparato così bene in quel vallone.

– Non c’erano i nuku con loro?

– Ho visto una sola scialuppa, ma credo che farete bene ad affrettare l’abbordaggio. Gli antropofaghi potrebbero arrivare da un momento all’altro.

– Basta così, Reton. A te il comando della prima zattera, a me la seconda, la terza a Koturé e la quarta a Matemate. Quando avremo privato Ramirez della sua nave, lo sfido a portarsi il tesoro in America. O scenderà a patti o uccideremo lui e tutti i suoi banditi… Salpiamo!

Quattro gigantesche zattere, costruite con tronchi di kauris e che avevano sul davanti una specie di barricata, formata di grossi pali per difendere gli equipaggi dalla mitraglia stavano legate vicino alla spiaggia. Don José fece dividere i kahoa in quattro drappelli, poi diede il comando d’imbarcarsi e di dirigersi verso la nave. Aveva imbarcato con sé don Pedro; ma aveva rifiutato di prendere Mina, non volendo esporla ai pericoli di un abbordaggio e l’aveva lasciata a terra sotto la scorta di quattro isolani. I kahoa, che si erano fabbricati dei remi, spinsero avanti i pesanti galleggianti, cercando di non fare alcun rumore. Quelle precauzioni non erano però necessarie, poiché nessun lume brillava a bordo dell’Esmeralda. Sembrava che tutto l’equipaggio, sicuro di non venire disturbato, dormisse.

– Non sospettano un attacco, disse don José a don Pedro. – Sarebbe una bella fortuna se potessimo assalirli di sorpresa. Hanno dei pezzi d’artiglieria e non so che accadrebbe se sparassero!

Le zattere continuavano ad avanzare, scivolando dolcemente sulle acque. I kahoa avvertiti che gli uomini del vascello possedevano delle grosse canne che tuonavano, facevano il possibile per non risvegliare l’attenzione dei nemici. Già l’Esmeralda non era lontana che un centinaio di metri e le zattere stavano per dividersi per accerchiarla, quando una voce echeggiò fra le tenebre:

– Chi va là?

– Naufraghi, – rispose don José.

– Ferma!

– Moriamo di fame e di sete.

– Aspettate l’alba.

– È impossibile!

– All’armi!

– Sono più furbi dei diavoli, – brontolò Reton. – Se fanno tuonare il cannone ci troveremo in un bell’impiccio con questi selvaggi. Fortunatamente so dove si trova la fune che ho lasciata calare dal sabordo. – Poi alzando la voce, gridò:

– Forza amici!

La sua zattera marciava in testa a tutte. I kahoa, che arrancavano disperatamente, la spingevano avanti con rapidità. La stessa voce di prima si fece in quel momento sentire altissima nel gran silenzio della notte:

– All’armi! All’armi! Ci abbordano!

Sul ponte dell’Esmeralda si sentirono dei passi precipitati, dei comandi, delle bestemmie, poi un lampo ruppe le tenebre, seguito da un rombo che si propagò lontano sul mare, rumoreggiando cupamente sotto le foreste che coprivano le rive del Diao. Era il cannone di prora che si faceva sentire. Il capitano dell’Andalusia si era voltato verso i kahoa che montavano la sua zattera e rimase non poco sorpreso nel vederli tutti in piedi con le armi in pugno.

– Non credevo che questi selvaggi fossero così coraggiosi, – disse a don Pedro. Rispondiamo a nostra volta per incoraggiarli.

Spararono due colpi di carabine sul ponte del veliero, a casaccio, poiché era impossibile scorgere i marinai che manovravano il pezzo. Dall’Esmeralda fu risposto con un nembo di mitraglia, che spazzò la zattera, mandando a gambe levate, una dozzina d’isolani. Nemmeno quella seconda scarica, che era stata ben più disastrosa della prima, scosse il coraggio dei kahoa. Incoraggiati dalla presenza dei due uomini bianchi, i quali continuavano a sparare sul ponte più per far comprendere agli uomini di Ramirez che avevano delle armi da fuoco e che erano degli uomini bianchi che li assalivano, che con la speranza di decimarli, gl’isolani a ogni colpo di cannone, avevano risposto con urla di guerra e con nembi di frecce. La zattera di Reton, che era ormai al coperto dai tiri di mitraglia, avanzava sotto poppa, con velocità crescente. In pochi istanti, arrivò, non vista, presso il sabordo da cui pendeva ancora la fune che aveva servito all’evasione di Mina e di Matemate. Il bosmano che si era provvisto della terza carabina, quella della giovane, che era rimasta nelle mani di don Pedro, s’aggrappò alla corda e si issò rapidamente. In coperta il cannone tuonava sempre, appoggiato da cariche di moschetteria che mettevano a dura prova il coraggio degli isolani. In un baleno il vecchio lupo di mare raggiunse la cabina e si precipitò nel quadro, dove si trovavano ancora le pistole e i fucili che avevano adoperato poche ore prima contro gli ubriachi. Venticinque kahoa, armati per la maggior parte di scuri, l’avevano seguito.

– Ci siete tutti? – chiese.

– Tutti, – rispose un capo.

– Caricate a fondo! La nave è ormai nostra!

Si aprirono il passo attraverso la barricata, che non era stata ancora del tutto atterrata e si slanciarono su per la scala stringendo ferocemente le terribili scuri di pietra. Reton li guidava, impugnando la carabina. Nel momento che irrompevano sulla tolda, il cannone per la quarta volta tuonava, prendendo d’infilata le zattere guidate da don José, da Matemate e da Koturé. Reton radunò i suoi uomini e si slanciò alla carica urlando come un indemoniato:

 

– Ecco barbablu.

Alcuni uomini, che stavano sparando dietro alle murate, vedendo irrompere quella valanga di gente, si erano schierati davanti all’albero di trinchetto per tagliare loro il passo. Troppo tardi! I selvaggi, lanciati a corsa sfrenata, caricavano con impeto, menando formidabili colpi di scure.

– Arrendetevi! – gridò il bosmano ai marinai di Ramirez.

All’intimazione fu risposto con una scarica di fucili, che fece stramazzare sulla tolda una decina di selvaggi. Gli assalitori, sconcertati, esitarono un momento. I marinai ne approfittarono per ripiegare verso il castello di prora dove stava il pezzo d’artiglieria.

– Avanti, amici! – gridò Reton, sparando la sua carabina sul gruppo che si stringeva intorno al cannone.

I kahoa, intanto, avevano ripresa la corsa, mandando urla spaventose. I marinai dell’Esmeralda non erano però uomini da voltare le spalle al pericolo. Fecero girare il cannone, dirigendolo verso poppa e presero d’infilata la tolda con una bordata di mitraglia, arrestando per la seconda volta lo slancio dei selvaggi. Fu però il loro ultimo trionfo, poiché le altre tre zattere, non più cannoneggiate, avevano abbordata la nave a prora. Gli equipaggi, guidati dal capitano e da don Pedro, diedero l’assalto all’albero di bompresso, inerpicandosi su per le trinche e per la dolfiniera e comparvero sulle murate, rovesciandosi sul castello. Erano una settantina, resi furiosi per le perdite subite e decisi a mostrare il loro coraggio al capo bianco. Gli uomini di Ramirez, assaliti di fronte, poiché Reton tornava alla carica, e alle spalle, tentarono di formare un piccolo quadrato intorno al cannone, impegnando una lotta disperata. I selvaggi caricavano a fondo, all’impazzáta, con un coraggio straordinario, menando colpi di scure e di lancia. Il piccolo quadrato in un momento fu sfondato. Invano don José, don Pedro e Reton avevano tentato di trattenere i loro alleati. Le loro voci si erano confuse fra le urla di guerra dei selvaggi Il massacro era cominciato e già parecchi uomini bianchi erano caduti, quando sette od otto superstiti, con uno sforzo disperato, riuscirono ad aprirsi il passo attraverso il piccolo drappello guidato da Reton. Attraversarono di corsa la tolda, Inseguito dai kahoa e si gettarono in mare, nuotando verso la costa. Reton si era precipitato verso il cannone per caricarlo e scatenare a sua volta, sui fuggiaschi, una bordata di mitraglia. Il capitano fu però pronto ad arrestarlo.

– Lasciali andare, vecchio mio, – gli disse. – Finiranno sotto i denti degli antropofaghi.

– E se raggiungessero Ramirez?– chiese il bosmano.

– Tanto peggio per loro poiché noi daremo battaglia a quel bandito e più presto di quello che possa credere. Fa sgombrare il ponte dai cadaveri e armare le scialuppe.

– Si parte subito, dunque?

– È necessario raggiungere don Ramirez, prima che metta le mani sul tesoro. Abbiamo cinque lance a bordo. Basteranno per condurci al paese dei krahoa. A quanto pare il bandito ha preferito costeggiare il fiume, anziché risalirlo con le scialuppe.

– Non sarebbero state sufficienti a trasportare tutta la tribù dei nuku. Ha portato con sé perfino le donne e i bambini.

– Ci sono armi a bordo?

– Un paio di fucili e molte scuri.

– Imbarca tutto con munizioni e viveri. Daremo del filo da torcere a don Ramirez.

– E il cannone? Può starci sulla baleniera. Ci sarà preziosissimo contro i nuku.

– Sia pure, purché tu faccia presto. Abbiamo perso troppo tempo e forse quella canaglia è poco lontano dai villaggi dei krahoa. Fortunatamente abbiamo con noi Matemate e Koturé, due uomini che valgono metà del tesoro.

Tutti si erano messi febbrilmente all’opera. Mentre alcuni gettavano in mare i cadaveri o medicavano alla meglio i feriti, gli altri, sotto la direzione del bosmano e di don Pedro, calavano le scialuppe e imbarcavano viveri, munizioni e armi. Una lancia era stata già mandata verso il promontorio per imbarcare. Mina e la sua piccola scorta. Furono scelti venti guerrieri, affinché rimanessero a guardia della nave, e alle tre del mattino le scialuppe lasciavano l’Esmeralda, salendo abbastanza velocemente il Diao, aiutate dalla marea.

XXV. LE ULTIME CARTUCCE DI DON RAMIREZ

Il Diao, che ha le sue sorgenti fra la linea di montagne che scendono lungo le coste occidentali, non è un grande corso d’acqua. Se è largo presso la foce, ben presto si restringe e finisce per non essere più navigabile. Le scialuppe di Don José potevano però contare su due giorni almeno di navigazione, senza incontrare seri ostacoli, mentre molti, senza dubbio, doveva averne incontrati Ramirez, costretto ad aprirsi il passo attraverso le boscaglie. Oltrepassata felicemente la barra, formata da una lunga fila di scogli e di banchi di sabbia, le cinque imbarcazioni cominciarono a risalire il fiume, badando a tenersi nel mezzo, per evitare qualche spiacevole sorpresa. A mezzogiorno, dopo sette ore di faticosa manovra, il capitano concesse a quei bravi selvaggi due ore di riposo. Il calore torrido metteva a dura prova gli americani.

– Corpo di trentamila pipe! – esclamò il bosmano che, prima di riprendere la corsa era passato sulla baleniera dove si trovavano don José, don Pedro e Mina. – Se si continua così arriveremo nel paese dei krahoa perfettamente arrostiti.

– Ramirez non si troverà meglio di noi, – disse don José.

– Che ci preceda di molto?

– Deve avere almeno due giorni di vantaggio.

– Allora arriverà prima di noi e s’impadronirà del tesoro.

– Che non saprà dove mettere, ora che non ha più una nave che lo riconduca in America, – osservò don Pedro.

– Se lo godrà qui il suo tesoro, – soggiunse il bosmano.

– Ma tu dimentichi, vecchio mio, che qui l’oro vale meno delle magnagne e degli ignami. Questi isolani ignorano il suo valore e considerano le pepite come dei ciottoli.

– Fortunato popolo!… Ah!… Carrai!

– Che cosa c’è ancora? – chiese don José.

– Ed Emanuel?

– Sarà partito con lui. Quel furfantello vorrà la sua parte del tesoro. L’avete visto, señorita?

– È rimasto con me fino al momento della partenza della carovana, – rispose la giovane,

– Sai, sorella, che abbiamo trovato, durante l’inseguimento, dei suoi scritti tracciati su un pezzo di corteccia?

– Li lasciava per voi, – rispose Mina.

– Si è dunque pentito quel mariolo? – chiese don José.

– Si era incaricato di proteggermi e di farmi fuggire alla prima occasione.

– Che brutta protezione, – disse Reton.

– Eppure non ho avuto da lagnarmi di lui.

– E perché ti ha abbandonato? – domandò don Pedro.

– Perché don Ramirez si era accorto di non potersi più fidare di lui. Già, una notte, Emanuel aveva cercato di farmi scappare e, forse ci sarebbe riuscito, senza la sorveglianza dei nuku.

– Il diavolo si è fatto eremita, – disse Reton. – Come mai dopo aver tentato di perderci in tutti i modi possibili, ora tenta di favorirci? Che si sia guastato con don Ramirez?

– Certo, – rispose Mina, – perché si trattavano molto freddamente e ho sorpreso più volte Emanuel mormorare parole di minaccia contro il capitano dell’Esmeralda.

– Che fior di mascalzone è quel ragazzaccio! Se vive, diventerà il più famoso briccone dell’America del Sud. Prima però di lasciare quest’isola farò i conti con lui: non sempre il tardo pentimento porta il perdono.

– Non siate cattivo, Reton, – disse Mina. – È ancora un ragazzo e può diventare un giorno un galantuomo.

– Uhm!… – fece il bosmano. – Vedremo, señorita.

Quella seconda corsa delle scialuppe, più faticosa di quella del mattino, durò fino alle otto della sera poi la flottiglia si fermò sulle rive di un isolotto, che sorgeva quasi in mezzo al fiume, non fidandosi il capitano di accamparsi nella foresta, poiché don Ramirez poteva aver lasciato dei nuku dietro di sé per sorvegliare le mosse degli inseguitori. Quella prima notte passata sul Diao trascorse tranquilla, e tutti poterono riposare comodamente. Prima che il sole fosse comparso, le imbarcazioni si rimisero in viaggio, con la baleniera, che era montata dagli uomini bianchi, alla testa. I kahoa, ben riposati e soprattutto ben pasciuti, poiché avevano intaccato notevolmente le provviste, per rimettersi dai lunghi digiuni sofferti, arrancavano con grande lena per vincere la corrente che scendeva piuttosto rapida. Le due rive avevano cominciato già a restringersi e i grandi alberi, che crescevano da una parte e dall’altra, quasi intrecciavano i loro rami al di sopra delle acque, mantenendo una frescura deliziosa, apprezzata soprattutto da Reton, che temeva i colpi di sole. Prima di mezzogiorno, il capitano, che voleva conservare i suoi sudditi in forza, aspettandosi da un momento all’altro qualche attacco da parte dei nuku o dei marinai di Ramirez, e un po’ rassicurato dal profondo silenzio che regnava sotto quelle immense foreste, fece fare un’altra fermata presso la riva destra, non essendovi più isolotti in vista. Sicuro di avere un notevolissimo vantaggio sulla colonna guidata da Ramirez, aveva deciso di riprendere la marcia verso sera, anche per accordare a Mina un lungo riposo, quando un avvenimento inaspettato lo costrinse a ripartire precipitosamente. Avevano appena terminata la colazione, quando Matemate, che aveva perlustrato i dintorni in compagnia del fratello, si accostò al capitano, che stava fumando la pipa, in compagnia di Reton, chiedendogli:

– Hai udito, capo bianco?

– Che cosa? – chiese don José, alzandosi prontamente.

– Ascolta bene.

Il capitano e Reton tesero gli orecchi, ma non sentirono altro che i gorgoglii del fiume e il grido di un kagù, che si ripeteva a intervalli regolari.

– Ho gli orecchi buoni, eppure non sento nulla che possa allarmarti, – disse don José, dopo avere ascoltato per qualche minuto. – Non avrai paura di quell’uccello, suppongo?

– Sarà poi veramente un kagù? – chiese Matemate, la cui fronte si era aggrottata.

– Che cosa vuoi dire?

– Che questo grido non è naturale, quantunque sia molto bene imitato.

– Tu sospetti che sia un segnale allora?

– Sì, capo bianco. C’è qualcuno che risponde sulla riva opposta, – rispose il kanako.

– Cosa vuoi concludere?

– Che il cattivo uomo bianco ha lasciato dei nuku lungo le rive del fiume, per sorvegliarci.

– Che cosa ci consigli allora di fare, Matemate?

– Partire senza ritardo.

– Sono ancora lontani i villaggi dei krahoa?

– Vi giungeremo domani sera, se i kahoa non cedono alla fatica.

– Daremo loro doppia razione di viveri e dell’acquavite. Ne abbiamo imbarcato un barile, è vero, Reton?

– Sì, capitano, – rispose il lupo di mare.

– Partiamo, prima che i nuku ci preparino qualche sorpresa.

I kahoa, che dovevano già essersi accorti che qualche pericolo li minacciava, avendo anche loro udito quei segnali misteriosi, erano già pronti a riprendere i remi, sentendosi più sicuri in mezzo al fiume che sotto le ombre della foresta. Le imbarcazioni furono lanciate in acqua, ognuno riprese e il suo posto e la spedizione prese il largo, sempre preceduta dalla scialuppa alla quale spettava l’incarico di spazzar via i nemici.

– Tenete pronte le armi, – disse il capitano a Mina e a don Pedro. – E tu, Reton, incaricati del cannoncino. Un tempo eri un buon artigliere.

– E spero di esserlo ancora, comandante, – rispose il bosmano. – Vedrete, se i nuku si presenteranno, come li farò saltare sotto i colpi di mitraglia.

– E aprite bene gli occhi soprattutto. Ramirez può aver lasciato qualcuno dei suoi uomini su questo fiume e una palla di fucile è sempre più sicura e più pericolosa di una freccia.

Le grida del kagù non si erano più sentite. Altre dieci miglia erano state percorse e l’intenso calore cominciava a diminuire, quando agli orecchi degli uomini che montavano la baleniera arrivarono dei colpi sordi, come se degli alberi precipitassero nel fiume. Don José aveva fatto fermare subito l’imbarcazione, per lasciar tempo alla scialuppa di Matemate di raggiungerlo.

– Questa volta sono io che ti domando se senti, – disse il capitano al kanako. – Hai percorso spesso questo fiume?

– Molte volte, capo bianco.

– Da cosa provengono dunque questi colpi? C’è forse qualche cascata più avanti?

 

– No, – rispose Matemate.

– Eppure questi tonfi…

– Sono alberi precipitati nel fiume, capo bianco.

– Per fabbricare dei canotti?

Il kanako indugiò alquanto prima di rispondere.

– Non è possibile, – disse poi. – Posso ingannarmi, eppure sono convinto che i nuku ci preparano qualche sorpresa.

– Buttando degli alberi nel Diao?

– Se ostruissero il fiume?

– Caramba! – esclamò don José, colpito da quella risposta. – Non avevo pensato a questo.

– Forse che non ci sono due rive qui? – disse Reton.

– E se quelle rive fossero occupate dai nuku? – rispose il kanako. – Le piante sono folte laggiù e le imboscate sono sempre pericolose.

– Orsù, – disse il capitano, dopo un quarto d’ora di attesa. – Non possiamo rimanere qui eternamente, ora che il tesoro è così vicino. Qualsiasi cosa debba succedere andiamo avanti. Al tuo pezzo, Reton e mitraglia a tuo piacimento. Noi ti aiuteremo meglio che potremo.

Le cinque scialuppe si scostarono, per mettersi l’una dietro l’altra e ripresero a risalire il Diao, avanzando però prudentemente e procurando di tenersi a uguale distanza dalle due rive. Tutti avevano impugnate le armi, aspettando qualche attacco. Reton si era collocato dietro al piccolo pezzo, che occupava tutta la prora della baleniera, mentre il capitano e don Pedro disponevano i loro fucili lungo i bordi. Ne avevano quattordici, avendo raccolto anche quelli dei marinai che i kahoa avevano massacrati sul ponte dell’Esmeralda, numero sufficiente per dare una dura lezione ai nuku e ai loro alleati. I tonfi intanto continuavano, diventando più distinti, man mano che le scialuppe avanzavano. Quantunque le continue curve che il fiume descriveva impedissero ai naviganti di accertarsi veramente di che cosa si trattasse, ormai più nessuno dubitava che i loro nemici lavorassero per ostruire il corso d’acqua. Superata finalmente un’altra curva, la baleniera si trovò davanti a una immensa massa di tronchi d’albero, che occupavano il fiume da una sponda all’altra.

– Matemate non si era ingannato, – disse il capitano.

– Corpo d’un pescecane! – esclamò Reton. – Don Ramirez consuma le sue ultime cartucce per fermarci di nuovo. Io spero che non saremo così sciocchi da cadere sotto quest’ultimo colpo o ritornare indietro.

– Matemate, – disse don José. – Quando abbiamo oltrepassato l’ultimo isolotto?

– Tre ore fa.

– È troppo lontano.

– E poi, – aggiunse don Pedro, – rimarremmo bloccati un’altra volta, perché quei demoni di selvaggi continueranno a rovesciare nel fiume altri alberi.

Il giovane aveva ragione, poiché al di là di quella barricata galleggiante, alberi enormi continuavano a piombare nel fiume con un fracasso infernale.

– Approdiamo e tiriamo le scialuppe a terra, – disse il capitano.– Non c’è altro da fare per ora. Cercheremo di snidare quei maledetti boscaioli a colpi di fucile e di cannone.

La barricata galleggiante non era che a due o trecento metri quindi non c’era tempo da perdere, Le cinque scialuppe virarono rapidamente di bordo e si diressero verso la riva destra, dove s’apriva una cala che serviva di foce a un piccolo corso d’acqua. Reton aveva già puntato il cannoncino carico a mitraglia, nell’ipotesi che i boscaioli, ai quali non doveva essere sfuggita la presenza delle scialuppe si preparassero a impedire lo sbarco. Fu una precauzione inutile, poiché nessun antropofago si mostrò in mezzo alle piante che coprivano la riva. Scesero a terra e si affrettarono a mettere a secco le scialuppe, che non volevano assolutamente perdere. Matemate e Koturé, alla testa di due dozzine di guerrieri, avevano fatto una rapida perlustrazione nei dintorni, senza trovare alcuna traccia dei nemici. L’enorme barricata era già giunta all’altezza della cala, occupando quasi tutta la larghezza del fiume. Guai se le scialuppe si fossero trovate sulla sua rotta! Non avrebbero potuto resistere a un simile urto.

– Aspettiamo che i boscaioli si stanchino, – disse il capitano. – Intanto formiamo un piccolo campo trincerato. Anche i nuku sono di carne e di ossa come noi, e non resisteranno a lungo a un così faticoso lavoro. E tu, Reton, fa sbarcare il cannone che può essere più utile qui che sulla scialuppa.

– Spazzerò tutta la foresta, – rispose il bosmano.

Fu però costretto a farsi aiutare da don Pedro, poiché i kahoa, dopo che avevano sentito tuonare quel tubo di bronzo a bordo dell’Esmeralda, avevano provato una impressione così profonda da non osare nemmeno di guardarlo. Non si fecero però pregare per costruire un buon recinto, capace di resistere a un improvviso assalto degli uomini di Ramirez. Lavoravano anzi con tale rapidità che mezz’ora dopo l’accampamento era pronto. I nuku intanto non cessavano di far cadere alberi. La prima barricata galleggiante era appena passata, che già una seconda non meno gigantesca, scendeva il Diao.

– Finiranno per stancarsi o per rovinare lo loro scuri, – ripeteva il capitano. – Ciò non può durare. Anche se fossero dei titani, non potrebbero resistere più di una giornata.

Attesero un paio d’ore, aspettandosi sempre di momento in momento, qualche furioso assalto, poi vedendo che i nuku non si decidevano a mostrarsi e che gli alberi non cessavano di piombare nel fiume, decisero di andarli a scovare. Un ritardo di ventiquattro ore poteva costare la perdita del tesoro e i naufraghi dell’Andalusia avevano già perso anche troppo tempo. Fu formata una colonna di esploratori, composta di cinquanta uomini, scelti fra i migliori guerrieri della tribù, e fu lanciata attraverso le foreste, sotto la direzione di Reton e di Matemate, con l’incarico di provocare i nuku e di attirarli verso l’accampamento per mitragliarli. Il bosmano, che si vantava di essere un grande condottiero, non esitò un momento a lanciarsi in cerca degli alleati di Ramirez, giurando che avrebbe fatto un massacro. Il capitano e don Pedro erano rimasti al campo per vegliare su Mina e sulle scialuppe che non volevano perdere. Era appena trascorsa mezz’ora, da che gli esploratori erano partiti, quando li videro ritornare correndo. Quel diavolo di Reton, malgrado i suoi anni precedeva i guerrieri, correndo più di una lepre.

– Ci sono alle spalle, – disse, precipitandosi nel campo.

– I nuku? – chiesero don José e don Pedro.

– Sì, e in gran numero.

– E siete scappati? – disse don José.

– Non avevo con me il cannoncino. Se questi imbecilli l’avessero trascinato con loro, a quest’ora non ci sarebbe più un solo nuku in tutta la Nuova Caledonia, – rispose Reton, che ansava come una foca appena uscita dall’acqua. – Quei furfanti sono dei guerrieri terribili, capitano.

– Il pezzo è a tua disposizione. Mi aspetto da te dei veri prodigi.

Urla spaventose echeggiavano intanto sotto gli alberi, accompagnate da qualche colpo di fuoco. I nuku correvano all’assalto del campo, con impeto furioso, guidati probabilmente da qualche marinaio dell’Esmeralda. I kahoa avevano impugnate le armi e aspettavano l’attacco dietro la cinta, decisi a mostrare al capo bianco il loro valore.

– Eccoli! – gridò in quel momento Reton. – All’armi! Coraggio, kahoa! Il capo bianco vi guarda!

Dalla boscaglia uscivano correndo torme di guerrieri, spaventosamente dipinti di rosso, di nero e di bianco, armati di lance, di scuri e di archi. Tre o quattro uomini bianchi li guidavano incoraggiandoli con urla acutissime e sparando a casaccio dei colpi di fucile, con la speranza di spaventare i kahoa. Il vecchio lupo di mare, che desiderava prendersi una rivincita, diede subito fuoco al pezzo di artiglieria, mentre don Pedro e la coraggiosa Mina scaricavano le loro carabine, noncuranti delle frecce che già cominciavano a cadere in buon numero dentro il campo. Quel colpo di tuono produsse un effetto disastroso sui nuku. Si fermarono un momento, guardando con terrore la nuvola di fumo che ondeggiava sopra il piccolo pezzo d’artiglieria, poi invasi dal terrore, scapparono attraverso la boscaglia, nonostante le bestemmie e le imprecazioni dei loro condottieri. I marinai di Ramirez, vedendosi abbandonati, non avevano tardato a seguirli, prima che Reton avesse avuto il tempo di ricaricare il pezzo.