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Il tesoro della montagna azzurra

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II. IL TESORO DELLA MONTAGNA AZZURRA

Sette settimane prima degli avvenimenti narrati, durante una mattinata limpida e tranquilla, un giovane, accompagnato da una bellissima ragazza, saliva a bordo dell’Andalusia, che era ancorata al Callao in attesa di trovare qualche carico per i porti della Cina o del Giappone, chiedendo di parlare subito al capitano Josè Ulloa, proprietario della splendida goletta che formava l’ammirazione di tutti i marinai della costa cilena. Erano Pedro de Belgrano e sua sorella Mina, figli di uno dei più noti armatori e uomini di mare di Valparaiso, scomparso misteriosamente quattro anni prima nell’oceano Pacifico, dopo aver accumulato un bel patrimonio per i suoi eredi. Don Josè Ulloa stava fumando in quel momento la pipa nel salotto del quadro, seduto davanti ad una bottiglia di vecchia caña, e contava di finirla prima di sera. Quando seppe dal mozzo di bordo, che c’era anche una señorita insieme al giovane sconosciuto, aveva dato ordine di farli subito scendere nel quadro e di preparare un buon caffè. Don Pedro e Mina erano, piuttosto esitanti, entrati nel comodo salottino del comandante, accolti con quella ruvida ma franca cordialità degli uomini di mare.

– Consideratevi come a casa vostra… – disse don Josè alzandosi. – E voi, señorita, fatemi l’onore di accomodarvi.

– Siete don Josè Ulloa, vero? – chiese subito il giovane.

– In persona, señor

– Allora voi ci conoscete?

Il lupo di mare guardò attentamente il giovane, poi la señorita, quindi scosse il capo.

– Non mi pare di avervi mai visto – disse – E poi tocco il Callao così di rado, poiché la mia nave è impegnata sempre in lunghe navigazioni…

– Oh, di nome! – esclamò il giovane. – Nostro padre era l’uomo di mare più conosciuto sulle coste cilene e peruviane.

– Come si chiamava?

– Fernando de Belgrano.

Il capitano batté un formidabile pugno sulla tavola, poi vuotò di un sol colpo un bicchiere di caña.

– Rayo de Dios! – esclamò poi gettando via il berretto che gli copriva il capo. – E perché non me lo avete detto prima, giovanotto? Ho fatto dei viaggi attraverso il Pacifico sul suo Sarmento, come secondo di bordo. Grande marinaio, il capitano Fernando! Nessun uomo di mare poteva guidare una nave meglio di lui…E voi siete i suoi figli?

– Sì, capitano, – rispose don Pedro.

– Poveri ragazzi! Mare traditore che insidia sempre gli onesti naviganti! È stato divorato dagli isolani della Polinesia, è vero?

– Ma no, capitano Ulloa.

Un altro pugno formidabile che fece oscillare la bottiglia di caña e saltellare il bicchiere, piombò sulla tavola.

– Mil diables! – esclamò – non è stato divorato dai neozelandesi e dai canaki della Nuova Caledonia o delle isole Salomone? Eppure lo affermano tutti!

– Su quali documenti? – chiese don Pedro.

– Señor, – disse il capitano – voi avete giurato di farmi perdere la pazienza, a quanto pare. Vi prego di spiegarvi. È morto quel bravo capitano o è ancora vivo? Non dimenticate che era il mio migliore amico.

– A quest’ora deve aver resa l’anima a Dio, – rispose il giovane con voce triste. – Almeno così risulterebbe dallo scritto trovato in un barile, dal capitano Ramirez.

– Ramirez! – esclamò l’uomo di mare, corrugando la fronte. – Un pessimo soggetto che si è arricchito massacrando o facendo morire di fame quei disgraziati di cinesi che si lasciano arruolare per venire qui a scavare le miniere di guano. Conosco quel pirata che disonora gli onesti marinai…Avanti señor: mi avete parlato di un barile e di un documento: che cosa volevate dire?

– Che mio padre, dopo quattro anni, ha dato sue notizie. – rispose don Pedro.

– Quali? – gridò il capitano.

– Abbiate la compiacenza di ascoltarmi, don Josè Ulloa, – disse il giovane.

– Sono a vostra disposizione, señor, – rispose il comandante dell’Andalusia ricaricando e riaccendendo la pipa. – Ho tempo da perdere finché vorrete. Questo racconto, che riguarda uno dei miei migliori amici e che forse chiarirà un mistero che ha suo tempo ha molto impressionato tutti i marinai cileni, mi interessa straordinariamente.

– Quindici o venti giorni or sono, il capitano Ramirez che tornava da Canton con un carico di arruolati cinesi…

– I suoi schiavi, che quel miserabile si diverte a tormentare, – lo interruppe il comandante dell’Andalusia con disprezzo profondo. – Vi prego continuate, don Pedro de Belgrano.

– …incontrava nei paraggi dell’isola Lifu, una delle maggiori della Caledonia, un barilotto galleggiante sul mare.

– E che cosa conteneva?

– Un documento scritto in doppio originale, in inglese ed in spagnolo, e due pezzi di scorza d’albero sui quali ci sono dei segni misteriosi che invano ho cercato di decifrare.

– Avete quella corteccia?

– Sì, capitano.

– Fatemela vedere, prima di tutto. Conosco la Nuova Caledonia. Brutta isola, dove non si può fare una passeggiata o una partita di caccia, senza correre il rischio di venire mangiati.

Don Pedro si frugò in una delle ampie tasche del soprabito ed estrasse un involto.

– Ecco, capitano, – disse – esaminate pure questa corteccia; poi continuerò il mio racconto.

Aprì la carta che avvolgeva il talismano e mise davanti al capitano un pezzo di corteccia biancastra che portava incisi e coloriti in rosso tre figure che rassomigliavano a dei grossi piccioni.

– I notù! – esclamò il capitano. – Sebbene malamente incisi li riconosco benissimo.

– Che cosa sono? – chiesero ad una voce don Pedro e Mina con una certa ansietà.

– Ecco, – rispose il capitano – i notù che io ho già cacciato sulle coste della Nuova Caledonia, sono dei bellissimi colombi e posso dire anche molto buoni, grossi quanto una delle nostre galline, con le penne color bronzo, che vivono di preferenza nel più fitto dei boschi, sicché e molto difficile distinguerli. Il loro grido è così forte che rassomiglia al muggito di un bufalo. Quello che vi posso dire, ragazzi miei, è che sono tenuti in molta considerazione dai canaki della Nuova Caledonia, non saprei se per la bellezza delle loro penne, se per la delicatezza delle loro carni o per qualche altro motivo a me ignoto.

– E questa corteccia? – chiese don Pedro.

– È un pezzo di niaulis, – rispose il capitano dopo averla osservata attentamente. – La corteccia di un albero che si stacca facilmente a lunghe strisce.

– Insomma nulla di straordinario in tutto questo, – disse Mina.

– Adagio, señorita, – rispose il comandante. – Questo disegno che rappresenta tre notù può avere il suo valore. Ditemi, prima che mi pronunci definitivamente, che cosa diceva il documento contenuto nel barile trovato da quel briccone di Ramirez?

– Volete leggerlo?

– L’avete con voi?

– Sì, una copia, quella scritta in lingua spagnola.

– E l’altra scritta in inglese?

– È nelle mani del capitano Ramirez.

– Con che diritto? – chiese don Josè.

– Leggete il documento prima, – rispose don Pedro.

Il capitano dell’Andalusia depose la pipa, tracannò un altro bicchiere di caña, poi prese delle carte ingiallite, che il giovinetto aveva levate da un portafoglio di pelle di caimano.

«Datato oggi, ventiquattro marzo 1866 – lesse il capitano. – Nel momento di comparire davanti a Dio, affido alle onde dell›oceano Pacifico i sette barili che ho potuto salvare dal naufragio della mia nave Sarmento appartenente al dipartimento marittimo del Callao, naufragata il 27 gennaio 1863 sulle scogliere della baia di Bualabea. Ho lasciato a Valparaiso due figli, Pedro e Mina, che potrebbero un giorno diventare ricchissimi se seguiranno le mie istruzioni. Accolto dalla tribù dei Krahoa, indigeni antropofagi che mi hanno considerato come un figlio delle onde e che mi hanno nominato loro capo, ho trovato una miniera d’oro che per quattro anni ha reso milioni e milioni di piastre. Mi trovo nell’impossibilità di calcolare la ricchezza del deposito che io ho fatto rinchiudere nei fianchi della Montagna Azzurra, dopo averla tabuata. Unisco al documento un pezzo di corteccia con tre notù, insegna della tribù, fatto in doppia copia nel caso che i miei figli si decidano a venire a prendere il tesoro. Fra pochi giorni sarò morto perché una freccia, probabilmente avvelenata, mi si è piantata profondamente nel petto durante la festa del pilù-pilù. Qualunque navigante raccolga uno dei barili che ho fatto gettare in mare dalla foce del Diao, li consegni ai miei figli in Valparaiso, calle dell’Alcalà.

«Capitano Fernando de Belgrano».

Il comandante dell’Andalusia, letto il documento, era rimasto silenzioso, guardando ora don Pedro e ora Mina.

– Che cosa ne dite, don Ulloa? – chiese il giovanotto, impaziente di rompere quel silenzio.

– Dico che questo è un colpo di fulmine che vorrei che fosse toccato a me, – rispose il lupo di mare. – Si parla di milioni. Valgame Dios! C’è da far girare la testa al più flemmatico uomo d’America!

– Che cosa fareste, capitano? – domandò don Pedro.

– Spiegherei immediatamente tutte le vele, e me andrei, al più presto possibile nella nuova Caledonia, dovessi farmi mangiare da quei cannibali, una gamba o un braccio.

– Ebbene, signor Ulloa, io ero venuto appunto per proporvi questo, – disse il giovane, – certo che voi, vecchio amico di mio padre, non mi avreste negato il vostro aiuto e che avreste accettato di interessarvi all’impresa.

Il capitano dell’Andalusia aveva fatto un balzo, scaraventando a terra la pipa.

– Voi, señor, siete venuto da me per farmi una tale proposta! – esclamò.

– E per offrirvi la terza parte di quel tesoro, se mi aiuterete a conquistarlo. Voi non perderete nulla perché vi chiedo di noleggiare per sei mesi la vostra nave, al prezzo che voi stesso fisserete. Voi già sapete che mio padre ha lasciato a noi un bel patrimonio, senza contare il tesoro che si trova nascosto nella Montagna Azzurra.

 

– Parlate sul serio, señor de Belgrano? – gridò il comandante dell’Andalusia.

– Sì, capitano: ditemi solo quanto dovrò darvi per questa campagna che suppongo non durerà meno di sei o sette mesi.

– Rayo de sol! – esclamò il capitano. – Quando vorreste partire, señor de Belgrano?

– Il più presto possibile, – rispose il giovane – poiché avremo don Ramirez alle spalle.

– Che cosa vuole da voi quel briccone?

– Vi ho già detto che nel barile c’erano due copie di documenti e due di questi emblemi che dovranno servire, suppongo, a farci riconoscere dalla tribù degli indigeni Krahoa.

– Continuate.

– L’altra copia e l’altro pezzo di niaulis sono in mano del capitano Ramirez.

– E non vuole consegnarveli?

– Sì, se gli cedo almeno la metà del tesoro.

– È partito quel brigante?

– Non ancora.

– Sono sicuro, señor de Belgrano, che lo troveremo nelle acque della Nuova Caledonia. Dobbiamo assolutamente precederlo. So che possiede una buona goletta.

Stette un momento in silenzio, come immerso in un profondo pensiero, poi estrasse l’orologio e guardò l’ora.

– Sono le dieci meno sette minuti, – disse. – Ho tutto il tempo necessario per imbarcare altri viveri, oggetti di ricambio, armi e munizioni. A mezzanotte, possiamo spiegare le vele… Emanuel!

Il mozzo accorse prontamente, domandando:

– Desiderate, comandante?

– Dove sono i marinai?

– Nella taverna del Toro.

– Và a radunarli e conducili immediatamente a bordo. Questa notte si salpa.

Il ragazzo uscì correndo, attraversò il pontile, che era stato gettato fra la nave e la calata e si lanciò a terra. Non aveva però fatti dieci passi che cadde fra le braccia di un uomo tozzo, muscoloso, barbuto e colorito quasi come un indiano della Cordigliera, che lo strinse così violentemente da strappargli un grido di dolore.

– Taci, – gli disse lo sconosciuto – e avrai dieci, cento, anche mille piastre se vorrai. Vieni con me e farò la tua fortuna. Non ti chiedo che un quarto d’ora. Tu sei il mozzo dell’Andalusia, è vero?

– Sì, señor

– Chiamami capitano. Seguimi alla lesta. Non desidero che quel giovanotto e quella señorita mi vedano.

III. SUI FRANGENTI

Le trombe marine che spazzano spesso gli oceani, sono il terrore dei naviganti. Guai alla nave che si trova sul loro percorso! Viene aspirata, strappata alle onde, portata in alto dalla colonna roteante e quindi sommersa durante lo sfacelo della tromba. Quella che stava per innalzarsi davanti all’Andalusia doveva avere proporzioni gigantesche, a giudicare dal moto rotatorio delle acque. Il mare era in continuo ribollimento, come sotto l’azione di un gran numero di vulcani sottomarini e sprigionava delle immense nubi di vapore che formavano una moltitudine di colonne grigiastre, pronte a fondersi e collegarsi con la grande nuvola nera che gradatamente si abbassava, impaziente di riunirsi ai cavalloni. Un grande rigonfiamento, simile a una collina, tumultuava davanti alla prora della goletta, aumentando di momento in momento di volume. Non aveva nulla di spaventoso; impressionavano invece i sinistri rumori che ne uscivano di quando in quando e che rassomigliavano ai boati di un cratere. Don Josè, don Pedro e il bosmano, erano saliti sul castello di prora per osservare quel fenomeno che poteva riuscire fatale alla nave.

– Sì, una tromba e il vento è cessato! – esclamò il comandante, con rabbia. – Giungesse almeno un altro colpo di vento e dovesse pure schiantarmi mezza alberatura!

– Non c’è modo di evitarla? – chiese don Pedro che pensava a sua sorella Mina.

– Proveremo a spezzarla con un colpo di artiglieria, – rispose il capitano.

– Ci riuscirete?

– A volte si rompono; tuttavia non vi nascondo che sarà un mezzo disperato.

– Perché comandante?

– La tromba ricadendo solleverà tali ondate da mettere in grave pericolo la mia nave.

– A mali estremi, rimedi estremi, – sentenziò il bosmano cacciandosi in bocca un pezzo di sigaro. – Se il disastro deve accadere, tuffiamoci con la cicca.

In quel momento dall’interno di quella collina mobile uscì, innalzandosi e roteando vertiginosamente, una colonna liquida che andò a congiungersi con la nuvola nera. Mare e cielo si erano uniti per la distruzione di tutto quello che dovevano incontrare sul loro cammino.

Un clamore assordante era echeggiato sulla tolda dell’Andalusia.

– La tromba! La tromba! – gridarono tutti.

Poi, come paralizzati dal terrore che doveva aver tolto loro completamente le forze, diventarono muti, guardando con gli occhi dilatati quel mostro di acqua che già si muoveva, turbinando. Lo spettacolo che offriva quella colonna che pareva di cristallo e che i lampi illuminavano senza posa, se era terrificante, era anche sublime. L’acqua, come se fosse stata aspirata da una pompa di enormi dimensioni, veniva assorbita con mille sibili paurosi, dalla grande nube nera, cambiando ogni istante colore, secondo la violenza e la tinta dei lampi. Il capitano Ulloa, che ne aveva viste altre durante i suoi numerosi viaggi, e che non ignorava quanto fossero pericolose quelle terribili colonne d’acqua, anche per le navi di grossa portata come la sua, benché in preda a grande spavento, non aveva perso completamente la testa.

– Conducete in coperta la señorita Mina, don Pedro! – gridò. Poi volgendosi verso i suoi marinai che non osavano muoversi, soggiunse:

– Al pezzo il miglior puntatore.

– Un momento, comandante, – disse il bosmano. – la scioglierò io la tromba.

– Che cosa vuoi fare?

– La croce di Salomone.

– Vattene al diavolo, vecchio Reton!

Si era lanciato verso il castello di prora dove si trovava il piccolo pezzo d’artiglieria, mentre il bosmano che credeva, come tutti i marinai, ai segni cabalistici, preso il suo coltello di manovra tracciava rapidamente, su un barile, la famosa croce di Salomone. Il pezzo era stato caricato e puntato verso la colonna che continuava ad aggirarsi su se stessa, spostandosi ora in un senso ed ora in un altro, senza però troppo allontanarsi dal luogo dove si era formata. Non aspettava che un colpo di vento per lanciarsi all’impazzata attraverso l’oceano, travolgendo tutto nella sua corsa disastrosa.

– Mira bene! – comandò il capitano al cannoniere. – Se sbagli, non so se avremo il tempo di ritentare il colpo. Il vento si annuncia già laggiù! Viene certo dalla baia di Uitoe.

Il marinaio si era curvato sul pezzo, un piccolo cannone adoperato più per i segnali che come arma di difesa, quantunque all’occorrenza avrebbe potuto servire per mitragliare i selvaggi, poi fece fuoco. La detonazione non si era ancora spenta che un grido di delusione e di collera sfuggì al puntatore. Un’onda gigantesca si era precipitata sull’Andalusia nel momento in cui il colpo partiva, rovesciandola sul tribordo, aveva fatto deviare la palla. Quasi nello stesso tempo, il fragore udito poco prima, che annunciava il colpo di vento, si ripeté, acquistando rapidamente un’intensità spaventosa. La tromba, investita dalle raffiche che ora soffiavano da ponente, cominciò la sua marcia, dapprima lentamente, poi rapidamente, movendo in direzione della goletta. Don Pedro e Mina avevano raggiunto il capitano, tenendosi per mano. Il primo ostentava una certa calma: Mina invece appariva in preda a una grande agitazione ed era pallidissima.

– Tutto sta per finire è vero, don Josè? – disse il giovane.

Il capitano rimase qualche istante silenzioso, torcendosi nervosamente la lunga barba.

– Chissà, – rispose poi. – Talvolta si sfugge anche alle spire delle trombe.

– Non vedete, don Josè, che viene proprio verso di noi? – disse Mina con voce tremante.

– Purtroppo!

– E non si può tentare più nulla? – chiese don Pedro.

– Non possiamo più spiegare vele… Attenti … tenetevi stretti alle funi … il salto … il salto!…

Un colpo di vento, di una violenza inaudita, investì per la seconda volta l’Andalusia abbattendole di colpo l’albero di trinchetto, i cui pennoni portavano ancora alcuni brandelli di tela. Avendolo schiantato un po’ sopra la coffa, l’enorme troncone cadde in mare, dopo aver fracassata due metri della muratura di babordo. Fu una gran fortuna, poiché se fosse accaduto invece attraverso il castello di prora avrebbe ucciso il capitano, don Pedro, Mina e i cinque o sei marinai che stavano con loro. Caduto l’albero, l’Andalusia fu quasi sollevata fuori dalle onde dall’impeto della gran raffica, ma non avendo vele sugli alberi, poiché tutte le rande, le controrande e gli strali erano stati abbassati prima che la tempesta scoppiasse, poté fuggire almeno per il momento al disastro. Guai se il vento l’avesse sorpresa con le vele spiegate! L’avrebbe inabissata di colpo per la prora. Passata la raffica, tre o quattro enormi montagne di acqua spazzarono per qualche minuto la tolda, precipitandosi come immensi torrenti sopra il castello di prora e sfuggendo, con un enorme rimbalzo, al di sopra del cassero. Don Josè, che si era avvinghiato a una trinca del bompresso, cessata quella furia, lanciò un rapido sguardo in coperta e respirò a lungo vedendo a pochi passi da sé don Pedro e la fanciulla abbracciati strettamente al troncone dell’albero di trinchetto.

– Temevo che le onde vi avessero portati via, – mormorò. – La prova è stata dura e purtroppo non sarà l’ultima.

Infatti l’Andalusia doveva fare ancora i conti con la tromba, che avanzava roteando e muggendo cupamente. Una gigantesca corona di spuma circondava la sua base, ricadendo in enormi cascate, mentre la colonna superiore che aveva la circonferenza di circa un centinaio di metri, continuava a tingersi di luci livide. Verso la cima, affondata nell’immensa nuvola, il tuono scrosciava incessantemente e le folgori guizzavano tutt’intorno, descrivendo degli zig-zag fiammeggianti.

– Don Josè! – gridò don Pedro che teneva stretta fra le braccia Mina, che sembrava quasi svenuta.

– Sta per arrivare la fine per noi tutti? Vi prego di dirmelo francamente. La morte non fa paura al figlio di un prode capitano; è per mia sorella che tremo.

– Non posso dir nulla per il momento – rispose il capitano che seguiva attentamente la marcia della colonna. – Noi siamo immobilizzati, mentre la tromba cammina.

– Ci verrà addosso?

– Chi può dirlo? Non ha preso ancora, malgrado il vento, la sua direzione. Può passarci vicina senza toccarci, come può deviare a nord o a sud. Le raffiche balzano in tutte le direzioni e comincio a non capirci più nulla.

– È la fine.

– Non ditelo ancora, don Pedro. Guardate: la tromba torna a spostarsi ora a sud ora a settentrione, e questo gioco angoscioso può durare molto.

– E intanto forse don Ramirez giungerà prima di noi.

– Se la bufera fa tribolare noi, non sarà clemente con lui, se si trova già in questi paraggi, poiché l’uragano deve imperversare su tutta la costa orientale… Portate Mina nel casotto di poppa. La povera fanciulla non si regge più.

Due marinai presero la fanciulla sotto le braccia, perché le onde, che continuavano a infrangersi contro le murate, non la rovesciassero e la condussero al coperto, nell’abitacolo posto davanti alla ruota del timone. Don Pedro era rimasto presso il comandante, pronto però ad accorrere in aiuto della sorella. La furia del mare non si calmava. Le onde, scombussolate dai soprassalti e dai giri turbinosi della tromba, si accaniva contro la nave, percotendone senza posa i fianchi. Salivano a bordo mostrando le loro creste minacciose, poi si aprivano, lasciandole cadere in profondi abissi. Il rollio e il beccheggio erano diventati così spaventosi che l’equipaggio stentava a tenersi in piedi. E nulla da fare, nulla da tentare! Spiegare le vele sarebbe stata una vera pazzia in quel momento, tanto più che non rimanevano che le rande, che potevano offrire buona presa a un nuovo colpo di vento. Don Josè era furioso di trovarsi impotente contro l’uragano e la tromba. Per un momento aveva pensato di ritentare la prova del cannone, poi aveva rinunciato. Colpire la colonna liquida che non cessava di spostarsi, mentre la nave subiva dei soprassalti disordinati, era cosa assolutamente impossibile.

– Affidiamoci al destino,– mormorò con rassegnazione. – Non c’è più altro da fare che prepararsi a morire.

Un po’ fatalista, come quasi tutti gli uomini di mare, si era aggrappato all’argano di prora, aspettando con meravigliosa freddezza d’animo il colpo mortale che doveva subissare l’Andalusia e tutti quelli che la montavano. E quel colpo, disgraziatamente, non era lontano. Non erano trascorsi venti minuti dal secondo turbine, quando sopraggiunse il terzo, il più temuto poiché è quasi sempre il più violento. La colonna d’acqua, investita da quella raffica formidabile, filò dritta verso l’Andalusia, che presentava in quel momento il suo fianco di tribordo. Si udì uno scroscio orrendo, come se tutto il fasciame avesse ceduto, seguito da urla di spavento, poi la nave fu sollevata e presa fra le spire della gigantesca colonna. Don Pedro aveva chiuso gli occhi per non vedere, chiamando angosciosamente Mina. Il capitano, credendo che tutto fosse finito, aveva tratto una pistola per uccidersi sul ponte della sua nave. L’ultima ora invece non era ancora arrivata. La nave seguiva il movimento rotatorio della tromba, ora quasi tutta fuori dall’acqua, ora basandosi sulla spuma che formava come lo zoccolo della colonna. A un tratto la nave subì una scossa spaventosa, come un colpo di tallone e si fermò, mentre la tromba ricadeva in mare sollevando onde altissime.

 

La grande nube, stanca di assorbirla, l’aveva abbandonata, restituendola all’oceano che l’aveva creata. Per alcuni minuti l’Andalusia fu subissata da un diluvio d’acqua tale da impedire al suo equipaggio di sapere se galleggiava ancora o se stava scendendo nei profondi abissi del Pacifico; poi, come per incanto, le onde si spianarono e una calma improvvisa, inesplicabile, successe al ciclone.

– Vivi! Ancora vivi! – gridò don Pedro.

– Vivi per perderci più tardi, – rispose il capitano.

– Ma che cosa è accaduto, don Josè?

– La base della tromba deve aver incontrato sulla marcia qualche scogliera, che per il momento non possiamo vedere, e si è spezzata contro.

– Una vera fortuna.

– Ah! La chiamate così? Non avete udito quello scroscio?

– Certo.

– Era la carena della mia nave che si sfondava.

– Cosa dite, don Josè! – esclamò don Pedro che si era fatto pallidissimo.

– Che il tesoro della Montagna Azzurra può essere perduto per voi.

– Questo non lo crederò mai.

– E come andremo a raccoglierlo se la mia nave si è spezzata?

– Voi non siete ancora ben certo se l’Andalusia sia assolutamente inservibile.

– Un vecchio marinaio difficilmente si inganna.

– Può essersi aperta semplicemente una falla, facilmente riparabile.

– Uhm! – fece il capitano crollando il capo. – Se lo scafo non si muove con tutti questi colpi di mare, vuol dire che le punte delle scogliere sono penetrate ben dentro la stiva e che la trattengono. Che squarci devono avere aperto! Aspettiamo che le ondate prodotte dalla tromba si calmino un po’ e andremo a verificare i danni. Non vi fate però alcuna illusione, don Pedro. Noi non toccheremo certamente la costa della Nuova Caledonia con l’Andalusia.

– E le scialuppe?

– Il mare se l’è portate via tutte, a quanto pare, poiché non ne vedo neppure una appesa ai paranchi.

– E dovremo rimanere qui aspettando che qualcuno venga a raccoglierci? Sarebbe la perdita del tesoro, poiché don Ramirez nel frattempo ne approfitterebbe per rubarmelo.

– Se si trova, come vi ho detto, in questi paraggi, la bufera avrà investito anche la sua nave, – rispose il capitano. – E poi il vostro caso mi ha troppo interessato perché io mi rassegni ad attendere qui un soccorso molto problematico. Le navi non osano spingersi fino qui, non avendo commerci da queste parti. Mil Diables! Non troverebbero da imbarcare che degli antropofagi pronti a divorare, con un appetito straordinario, i loro equipaggi.

– Ma se non abbiamo più imbarcazioni!…

– Eh, il legname non manca qui, don Pedro, e una zattera si può costruire a mare tranquillo! Aspettiamo: i salti di vento pare che siano cessati. Gli uragani che devastano queste regioni sono terribili, però la loro durata, ordinariamente, è breve.

Il capitano Ulloa non si sbagliava. Spezzatasi la tromba e cessate le raffiche, il mare si calmò rapidamente. L’ondulazione era sempre fortissima intorno all’ostacolo che aveva arrestato l’Andalusia, che doveva essere qualche scoglio corallifero ancora in formazione, però anche quella non doveva tardare a finire. I cavalloni non si facevano più sentire. Dovevano essersi allontanati verso ponente, sospinti dalle ultime raffiche che li cacciavano verso le coste australiane. Tre ore dopo, mentre il sole sorgeva maestoso, anche la forte ondulazione cessava, lasciando vedere una serie di scoglietti aguzzi, di natura corallifera, che si stendevano a forma di semicerchio intorno all’Andalusia.

– Me l’ero immaginato, – disse il capitano a don Pedro, dopo aver fatto il giro della nave, osservando attentamente la scogliera. – Eppure questi frangenti che devono aver sventrata l’Andalusia, ci hanno forse salvata la vita.

– Lo credete, capitano? – chiese il giovane.

– Se la tromba non si fosse spezzata contro questo ostacolo avrebbe continuato la sua corsa vertiginosa senza lasciarci e avremmo finito per fare un gran tuffo in fondo all’oceano.

– Non ci troviamo però in troppo buone condizioni.

– Meglio vivi che morti…– rispose il capitano. – Venite don Pedro, e anche tu bosmano. Andiamo a vedere che specie di ferita hanno prodotto queste scogliere alla mia povera nave. Credo che nessun chirurgo potrebbe cucirla.

La visita alla stiva non durò che pochi minuti, poiché l’acqua era entrata in così gran quantità dagli squarci apertisi nella chiglia, da raggiungere il frapponte. Sarebbero occorse due pompe a vapore per svuotarla, e poi a che cosa avrebbe servito? Non c’erano cantieri, in quel tempo, sulle isole del Pacifico.

– L’Andalusia ha terminata la sua carriera, – disse il capitano, quando risalì in coperta, ai marinai che si erano raccolti intorno al boccaporto maestro e che l’aspettavano con angoscia.

– Tutto finito? – chiesero.

– La nave è piena d’acqua e la carena deve essersi spezzata in vari punti. Non c’è più nulla da fare su questo rottame.

– Lo hanno accoltellato, – aggiunse il bosmano, che non sembrava molto impressionato per quel disastro.

– E ora, capitano? – chiese Mina che si trovava tra i presenti.

– Costruiremo una zattera e fileremo verso Bualabea, – rispose il capitano. – Cento miglia non ci spaventeranno e fra tre giorni potremo salutare la Costa della Nuova Caledonia e metterci in cerca dei Krahoa della Montagna Azzurra, señorita.

– E se ci cogliesse una nuova tempesta? – chiese don Pedro.

– Penserà Dio a levarci, per la seconda volta, d’impiccio e mandarci… – si interruppe bruscamente, e battendosi la fronte: – Reton! – esclamò.

– Ebbene, che cosa c’è ancora di nuovo? – domandò il bosmano.

– L’acqua non avrà invaso il deposito dei viveri?

Una imprecazione sfuggì dalle labbra del marinaio.

– Mil diables!

Poi si slanciò come un pazzo verso il boccaporto di poppa scendendo a precipizio la scala che metteva sotto il quadro. Quando tornò in coperta era pallidissimo.

– Tutto è perduto! – esclamò, tendendo i pugni. – Ci sono oltre due metri d’acqua nella cambusa.

Un profondo silenzio seguì queste parole: il capitano, don Pedro e i marinai apparivano esterrefatti per quella inattesa notizia. Il capitano fu il primo a parlare.

– Nulla neppure nella camera comune? – chiese ansiosamente guardando i marinai.

– Io ho due libbre di biscotto, – rispose uno.

– Io ho la mia razione di prosciutto salato, – soggiunse un secondo.

– Ed io una scatola di acciughe, – dichiarò il terzo.

Il capitano attese invano la risposta degli altri.

– E questo è tutto? – chiese finalmente, tergendosi il sudore che gli bagnava la fronte.

Nuovo silenzio.

– Amici, non perdiamo un solo secondo e cominciamo la costruzione della zattera. Fortunatamente l’armeria è dietro la mia cabina, e quando si hanno delle armi da fuoco si può sempre sperare.