Za darmo

Il tesoro della montagna azzurra

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

– Se hai fretta vieni a prenderci.

– La burla dura troppo!

– Ah, la chiami una burla! – rispose il capitano. – Domanda un po’ a quel disgraziato selvaggio che abbiamo ucciso stamane, se abbiamo scherzato… Sei buffo, marinaio.

– Vedrete fra poco, capitano, come sarò buffo io! – urlò il bandito. – I miei uomini continuano a pestare e vi schiacceranno tutti. Mi rincresce per la ragazza, un bel boccone che andrebbe bene al mio comandante… Tuoni di Araucania! Volete finirla?

– Non ancora.

– Ah, demoni dannati! Crepate tutti dunque!

– Invece di urlare tanto mostra un po’ la tua faccia, mascalzone! – gridò, don Pedro, esasperato. – Se ne incaricherà il bocconcino che servirebbe a quel brigante di Ramirez di darti il fatto tuo, capisci, miserabile?

– Oh! Oh! – fece il marinaio. – Anche il piccolo pollo canta! Forza, battete sodo, voialtri, e questa sera avrete tutti doppia razione di acquavite!… Su, indolenti!

Don Pedro e il capitano attesero inutilmente che il briccone si mostrasse. Troppo spaventato per la morte fulminea del selvaggio non osava sfidare il fuoco di quegli abilissimi tiratori.

– Al lavoro, – disse finalmente don Josè.

A un tratto si fermò; l’acqua che aumentava sempre in fondo alla spaccatura, cominciava a riversarsi nel rifugio, rumoreggiando cupamente.

– Matemate, – soggiunse. – Tu mi hai detto che la marea non giungeva fin qui.

– Infatti, in sette giorni che noi abbiamo abitato questo luogo, mai abbiamo visto l’acqua entrare.

– Come è che ora invade anche questa galleria?

Matemate scosse la testa senza rispondere. Non riusciva a trovare alcuna spiegazione. Anche don Pedro era molto preoccupato dell’avanzata nell’acqua.

– Resteremo affogati qui dentro, – chiese a don Josè, che stava osservando ora la volta, ora lo strato inferiore, che serviva in certo qual modo da pavimento.

– Di solito le maree del Pacifico sono deboli, – rispose il capitano – e le alte maree sono rarissime. Io credo che dipenda dall’abbassamento dei suolo, dovuto alla compressione che subiscono le pareti, a causa dell’incessante martellamento dei selvaggi. Non saprei trovare altra spiegazione… Bah! Speriamo che l’acqua non arrivi tanto in alto da affogarci.

– Ma la volta continua ad abbassarsi. È già scesa di almeno mezzo metro.

– Me ne accorgo io che sono costretto a lavorare curvo. Su, don Pedro, aiutiamo questi due bravi selvaggi, e voi, señorita, sempre al vostro posto. Non vi spaventate se l’acqua seguita a salire.

– Non lascerò la guardia finché non mi sarà arrivata alla gola, – rispose l’intrepida fanciulla.

La galleria era stretta, non avendo tempo i due kanaki di allargarla. Bastava loro di aprire un passaggio sufficiente per inoltrarvisi strisciando. Lavoravano però con rabbia estrema, inquieti anch’essi per l’avanzare della marea. Sopra, i selvaggi raddoppiavano non meno rabbiosamente, i colpi. Un’altra mezz’ora trascorse, durante la quale l’acqua non smise di invadere il rifugio. Mina, che vigilava sempre all’entrata, ne aveva fino alle ginocchia, e intanto la volta si abbassava sempre più. Il terribile momento in cui non sarebbe rimasto più posto ai disgraziati assediati non doveva essere molto lontano.

– O affogati o soffocati, – mormorò il capitano, pur non smettendo di aiutare validamente i kanaki. A un tratto Mina mandò un grido.

– Che cosa c’è? – chiese don Pedro, che ritirava le radici tagliate e strappate.

– La volta tocca la mia testa e l’acqua sale rapidamente, – rispose la fanciulla. – Noi sprofondiamo dentro le rhizophore del fondo.

Tutti avevano interrotto il lavoro. Quel grido che annunciava una catastrofe imminente si era ripercosso in tutti i cuori. Mina era sempre presso l’uscita del rifugio, immersa nell’acqua fino alle anche, mentre la volta l’aveva già raggiunta, obbligandola a curvarsi.

– Stiamo per essere sepolti vivi fra questi ammassi di radici…– disse don Pedro, con angoscia. – Capitano, salvate almeno mia sorella, prima che l’apertura si chiuda del tutto.

– Ah, mio Dio! – esclamò il capitano, strappandosi i capelli. – Quell’infame non poteva condannarci a un supplizio più spaventoso!

– Arrendiamoci, don Josè.

– E dopo? Se si trattasse di morire combattendo mi rassegnerei, ma avere per tomba lo stomaco di quei selvaggi mi fa paura.

Si volse verso Matemate, il quale guardava, atterrito, l’acqua che si alzava.

– Potremo raggiungere la superficie prima che l’aria venga a mancare? – chiese. – Fra un’ora e forse meno il nostro rifugio si troverà tutto sott’acqua.

– Non dobbiamo essere lontani dallo strato superiore, – rispose il kanako. – Basterebbe tagliare le radici verticalmente per arrivarci presto.

– Cambiamo allora direzione al nostro lavoro.

– Incontreremo i nemici, uomo bianco. Essi lavorano a breve distanza da noi.

– Preferisco dare loro battaglia, piuttosto che morire qui soffocato.

Il kanako lo guardò per qualche istante senza rispondere, come se qualche pensiero lo tormentasse.

– Se si potesse attendere la notte per uscire, – disse poi, come parlando fra sé.

– È impossibile, – rispose il capitano. – Mancano ancora parecchie ore alla scomparsa del sole.

– Si potrebbe aspettare quel momento.

– L’aria fra poco mancherà, l’acqua sale e la volta discende.

– Potremo respirare egualmente, – disse Matemate, dopo un altro breve silenzio. – Lascia fare a me, uomo bianco.

– Rispondi della nostra salvezza?

– Completamente, – rispose il kanako con voce ferma. – Attacchiamo lo strato verticalmente, più presto che sia possibile, per raggiungere la superficie, prima che l’acqua ci affoghi.

Il selvaggio aveva parlato con tanta convinzione, che il capitano credette inutile insistere per avere maggiori spiegazioni. Il tempo stringeva e non era quello il momento per discutere. Matemate s’introdusse nel passaggio dove già suo fratello lavorava e attaccò risolutamente lo strato superiore. Mina aveva cominciato a ritirarsi, poiché l’acqua aumentava sempre e l’apertura minacciava di chiudersi. Don Pedro e il capitano aiutavano i lavoranti, ritirando le radici e gettandole fuori dalla nicchia. Sopra le loro teste i colpi non finivano. I mangiatori di carne umana possedevano certo dei muscoli d’acciaio. Un’ora dopo, il rifugio scompariva completamente sott’acqua e l’apertura che fino allora aveva dato aria ai lavoratori, scomparve. Una profonda oscurità aveva avvolto gli assediati.

– È la fine! – esclamò Pedro, spingendo la sorella verso la galleria..

Come per smentirlo, si era subito sentito un hu!hu!… che pareva uscito dalle labbra di Koturè, che si trovava più avanti di tutti. Quella esclamazione di gioia, particolare ai kanaki, i quali non si esprimono diversamente quando sono soddisfatti, aveva colpito il capitano.

– Matemate! – chiamò.

– Che cosa vuoi? – chiese il kanako, che lavorava più in alto, tentando di allargare il passaggio.

– Tuo fratello mi sembra allegro.

– E ne ha ragione.

– Perché?

– Siamo vicini alla superficie.

– Ma mi sembra che l’aria non arrivi.

– Passami il tuo coltello, uomo bianco. Basterà fare un piccolo squarcio.

– Non se ne accorgeranno i mangiatori di carne umana?.

– Koturé agirà con precauzione.

La navaja del capitano, passò nelle mani del kanako. Tutti ascoltavano ansiosamente respirando a stento, poiché l’aria diventava di minuto in minuto irrespirabile. A un tratto si udì Koturé mormorare:

– Ecco: lo strato è tagliato.

Il selvaggio aveva tagliato le radici in più punti, allargandole poi con il braccio in modo da formare parecchi piccoli condotti sboccanti appena a fior di terra.

– Finalmente! – esclamò il capitano. – Credevo…

Si era subito interrotto, sentendo delle voci scendere attraverso quella specie di tubi che Koturé manteneva aperti, tendendo spesso le radici a restringersi. I selvaggi non battevano più gli strati erbosi. Sembrava che si consigliassero sul da farsi. Certo dovevano ormai essersi accorti della scomparsa del rifugio. Matemate che ascoltava attentamente, a un certo momento urtò il capitano che stava sotto di lui.

– Non ci siamo ingannati, disse.

– Che cosa vuoi dire, amico?

– Che non sono i Nuku quelli che ci assediano.

– Sono selvaggi appartenenti a un’altra tribù?

– Sì: questi sono i Kahoa.

– Come va questa faccenda? Sei sicuro di non ingannarti? – chiese il capitano.

– No, uomo bianco: conosco la loro lingua che rassomiglia molto a quella che parla la mia tribù.

– Eppure ieri quell’uomo guidava dei Nuku; così tu mi hai detto.

– È verissimo.

– Sono migliori o peggiori degli altri questi Kahoa?

– Sono anch’essi mangiatori di carne umana, ma non così feroci come i Nuku.

– Che le due tribù si siano alleate?

– Può darsi che l’uomo bianco che è arrivato con il gran canotto, abbia assoldato anche questi guerrieri, quantunque valgano ben poco

– Sicché tu credi che se noi balzassimo improvvisamente fuori facendo fuoco…

– Non so se resisterebbero a lungo, – rispose Matemate. – Temono soprattutto le armi che tuonano. Ah, se non avessero con loro quell’uomo bianco che li guida!

– Non prenderti pensiero per quello, perché la mia palla sarà per lui.

– Aspettiamo la notte. Hu! Hu! Hu!

– Che cos’hai ancora?

– Il piccolo fratello bianco ha sempre il tabù con sé?

– Sempre.

– I Kahoa adorano il misterioso simbolo dei notù. Vedremo, a me basta che l’uomo bianco non ci sia più.

– Spiegati meglio.

Matemate non rispose e il capitano non insistette. Conosceva ormai la cocciutaggine del kanako. Quantunque fossero stretti quasi l’uno sopra l’altro e serrati fra le radici, gli assediati diedero fondo alle loro ultime noci di cocco. Tutti sopportavano con stoicismo quel supplizio, e nessuno, nemmeno Mina, si lagnava, quantunque si sentissero come sepolti vivi e condannati a una immobilità quasi assoluta. Don Pedro e Mina occupavano la galleria obliqua insieme a Hermosa, non avendo potuto passare avanti, sicché l’aria giungeva piuttosto scarsa fino a loro: il capitano e i due kanaki, si trovano, lungo il tubo verticale, l’uno sull’altro, dimodocheè il primo era obbligato a sopportare il peso degli altri due. Nessuno parlava per paura che il suono delle loro voci arrivasse agli orecchi acutissimi dei selvaggi. Quei bricconi, quantunque dovessero essere ormai convinti che gli assediati si trovavano rinchiusi vivi o moribondi fra gli strati delle rhizophore, non si erano ancora decisi ad andarsene. Che cosa aspettavano? Era quello che si chiedevano angosciosamente il capitano e don Pedro. La loro attesa non fu lunga, poiché dopo un paio d’ore udirono la voce dell’uomo bianco, che diceva:

 

– È ora di andare a vedere se sono crepati. La marea si è ritirata e potremo aprire facilmente un passaggio fino al loro rifugio. Già a quest’ora l’acqua li avrà affogati.

– Miserabile! – mormorò don Josè. – Vedrai fra poco che cosa sapranno fare questi morti!

Attesero alcuni minuti, poi non sentendo più nulla, Koturé allargò uno di quei tubi che avevano loro fornita l’aria, sollevando e tagliando con infinite precauzioni le radici. Con un’ultima e poderosa spinta sollevò un bel tratto di terriccio misto a foglie e, allargatolo, sporse il capo. La notte stava per calare e presso al foro non si scorgeva nessuno. Dalla parte della fenditura, si udiva invece parlare e si alzavano sprazzi di luce rossastra proiettati senza dubbio da rotoli di corteccia di niaulis la torcia dei neocaledoni.

– Possiamo uscire? – chiese Matemate.

– Non vedo alcuna sentinella e questo mi preoccupa, – rispose Koturé.

– Nessuno può aspettarsi la nostra comparsa, – disse il capitano. – Su Koturé impugna la scure e balza fuori. Noi siamo pronti ad appoggiarti con le armi che tuonano.

Il kanako, con uno sforzo supremo, allargò maggiormente il foro e con un balzo sì trovò all’aperto, gettandosi prontamente a terra per non farsi scorgere. Per sua fortuna in quel luogo si alzavano parecchi fusti di rhizophore, quindi non era facile scoprirlo subito. Matemate lo aveva prontamente seguito, imitando quella prudente manovra, poi toccò al capitano il quale aiutò a uscire Mina. Pedro fu l’ultimo.

– Capitano, – chiese il giovane – la polvere dei nostri fucili avrà sofferto?

– Non credo, – rispose don Josè.

– Possiamo dunque essere sicuri dei nostri colpi?

– Perfettamente: conosco le mie carabine.

– Allora ho la pelle di quel cane di uomo bianco.

– Lasciate a me, don Pedro, – disse il capitano. – Il conto devo saldarlo io. L’ho giurato.

I due kanaki, dopo aver scambiato alcune parole, si erano messi a strisciare fra i fusti delle rhizophore, tentando di guadagnare la boscaglia che si ergeva a un centinaio di metri. Disgraziatamente per loro, venti passi più in là non c’erano più tronchi. Il terreno appariva cosparso di ammassi di radici e di foglie, però senza cespugli, senza macchie e senza fusti. Matemate, che si era messo alla testa del drappello, stava per dare qualche consiglio ai suoi amici dalla pelle bianca, quando un grido gutturale echeggiò a breve distanza.

– All’armi!

I due kanaki avevano fatto un salto indietro, brandendo le loro armi. Al grido lanciato certamente da qualche sentinella nascosta in mezzo ai fusti delle rhizophore, aveva risposto subito un clamore spaventoso, che proveniva dalla parte della fenditura. Il capitano, con uno sforzo supremo sgusciò da quella specie di tubo che lo imprigionava e puntò la carabina, mentre Pedro, spingeva la sorella. Una turba di selvaggi accorreva, ululando e agitando rompiteste, e asce di pietra e di ferro. Erano tutti guerrieri di alta statura, con la pelle molto scura, quasi nudi, ma con i corpi abbelliti più o meno da tatuaggi che formavano delle curve intrecciate, delle linee e degli zigzag a varie tinte. Erano preceduti dall’uomo bianco, un brutto tipo di pirata, tozzo e muscoloso, più largo che alto, con una selva di capelli rossastri e una lunga barba incolta che nascondeva malamente una orribile cicatrice che gli deturpava il viso da un orecchio all’altro.

– Ah! furfanti! – aveva urlato il bandito con la sua vociaccia rauca da ubriacone. – Non siete ancora crepati! Tanto meglio! Mi pagherete la morte di quel disgraziato kanako.

Il capitano ebbe uno spaventoso scoppio d’ira.

– Ignobile pirata, a me dai del furfante! – tuonò, andando verso il miserabile, con la carabina puntata.

– Alto là signor mio, – rispose il bruto. – Ho anch’io un fucile fra le mani e dietro di me quaranta guerrieri pronti a farvi a pezzi e anche a mangiarvi, se io lo voglio. Giù le armi!

– Eccole!

Il capitano aveva fatto fuoco mentre don Pedro e Mina dirigevano le loro carabine verso i selvaggi, i quali, conoscendo la potenza di quelle armi, avevano arrestato di colpo il loro slancio. Il bandito, colpito in mezzo alla fronte, cadde sulle ginocchia allargando le braccia, poi stramazzò in avanti, con il viso contro terra. Sentendo lo sparo e vedendo cadere il loro capo, i selvaggi, che stavano per circondare completamente i naufraghi e i due loro alleati, avevano allargate le loro file, guardando con un misto di spavento e d’ammirazione il comandante dell’Andalusia ancora avvolto in una nuvola di fumo. Non avevano però abbandonate le loro armi, né sembravano disposti a scappare. Matemate, che impugnava fieramente la scure di pietra, si era accostato al capitano.

– Dite al figlio del grande capo dei Krahoa di darmi subito il simbolo, – gli disse rapidamente. – Forse quello ci salverà.

Don Josè tradusse la frase, mentre ricaricava precipitosamente la carabina. Don Pedro che aveva compreso ciò che voleva tentare il kanako, fu pronto a togliersi, di sotto la camicia, il pezzo di corteccia che portava quei segni misteriosi. Matemate lo prese e, mostrandolo ai selvaggi, gridò per tre volte, con voce tuonante:

– Tabù! Tabù! Tabù!

E stese un braccio verso i naufraghi, come per prenderli sotto la sua protezione. I Kahoa, udendo quel grido, avevano allargato maggiormente il cerchio, poi un vecchio guerriero che doveva essere un capo, avendo infisse nei capelli crespi due penne di notù, avanzò titubante verso Matemate, che teneva sempre alto il simbolo misterioso dei Krahoa.

– Che cosa mostri tu? – chiese, quando gli fu vicino.

– Guarda bene, vecchio, – rispose Matemate – se i tuoi occhi ti servono ancora.

Il capo guardò sospettosamente i due uomini bianchi e la fanciulla, che tenevano sempre puntate le carabine, temendo senza dubbio qualche tradimento, poi fattosi animo si avvicinò ancor più al kanako, gettando sul simbolo un rapido sguardo. Un grande stupore apparve sul viso del capo.

– Il duk-duk! – esclamò con profondo terrore.

Poi si gettò a terra, percuotendosi il capo con le mani a più riprese, in segno di profondo rispetto. Tutti i suoi guerrieri lo imitarono, lasciando cadere le armi. Il prezioso talismano ancora una volta aveva salvati i naufraghi.

XII. IL RE BIANCO

Le società segrete esistono anche fra i cannibali dell’Oceania e portano il nome di duk-duk. Soltanto dopo i dodici anni i giovani antropofaghi hanno il diritto di far parte di quelle associazioni. Anzi gli amici li avvertono che la voce del duk-duk, che sarebbe uno spirito errante, s’è fatta sentire per chiamarli a far parte della setta. Si stabilisce il giorno e il giovane neofita viene condotto verso un recinto che è la sede del duk-duk e dove i soci tengono le loro riunioni. Amici e parenti lo accompagnano con altissime grida e con un furioso rullare di tamburi di legno, per avvertire lo spirito che un altro socio desidera far parte della setta. Allora un mostro spaventoso, che ha in testa un enorme cappello di foglie di baniano e sul viso una maschera orribile formata di pezzi di corteccia d’albero, e che porta alla cintura parecchi crani umani, appartenenti a nemici divorati, esce dal recinto e si mette a danzare furiosamente intorno al neofita. Tutti devono evitare con cura il suo contatto poiché sono convinti di morire anche se appena sfiorati. Tutta la cerimonia si riduce a questo. Il nuovo socio, dopo aver preso conoscenza del simbolo sociale, che nella Nuova Caledonia è quasi sempre rappresentato da tre notù circondati da alcuni segni misteriosi, paga da bere e da mangiare a tutti i presenti e può contare sull’aiuto e sulla protezione dei soci. Il simbolo non lo possono possedere che i grandi capi, i quali sono dichiarati tabù ossia sacri. È come la bandiera della società e a chi la tiene vengono resi onori altissimi da parte di tutti gli iscritti all’associazione. Il simbolo però non è sempre eguale, poiché nelle isole molto popolate ci sono parecchie associazioni del duk-duk. Avviene così che chi conserva quell’emblema sia onorato anche da tribù nemiche e non lo sia affatto invece da altre. Per una strana e fortunata combinazione, i Nuku, che il marinaio di Ramirez spingeva al massacro dei naufraghi, appartenevano all’associazione del duk-duk dei tre notù, quindi è facile comprendere il loro stupore nel vedere nelle mani di quegli uomini bianchi il misterioso simbolo, che accordava loro il diritto del tabù ossia dell’inviolabilità e del potere supremo. Il vecchio guerriero, che doveva essere il capo della tribù, dopo l’omaggio reso dai suoi sudditi agli stranieri che possedevano prezioso talismano, si era nuovamente accostato al capitano che, per la sua alta statura e per il temerario atto compiuto, poteva benissimo venire considerato come il capo degli uomini bianchi, dicendogli:

– Comanda, ordina: tu sei tabuato e hai il diritto di esigere da noi tutto quello che desideri.

Quell’uomo parlava la lingua dei Krahoa, e don Josè non si trovò imbarazzato a rispondere.

– Voglio sapere prima di tutto se voi siete alleati dei Keti – disse.

– No, i Keti sono nostri nemici, che ci divorano spesso molte donne e molti fanciulli.

– E perché hai prestato aiuto a quell’uomo bianco che ancora ieri era con i Keti?

– È giunto fra noi alcuni giorni or sono, alla testa di una forte colonna di quei guerrieri, mostrandoci il simbolo del duk-duk.

– L’hai proprio visto?

– Sì, uomo bianco, – rispose il Nuku.

– Era identico a quello che poco fa ti ho mostrato?

– Eguale.

– Continua dunque, – disse don Josè.

– Poiché egli era in possesso del simbolo, noi non abbiamo osato respingere i Keti che lo accompagnavano. Solo il nostro capo osò muovere qualche osservazione all’uomo bianco e pagò la sua imprudenza con la vita.

– Chi lo uccise?

– L’uomo bianco, con un colpo di tuono.

– E poi?

– Si fece nominare senz’altro capo della nostra tribù, imponendoci di adorarlo come un genio del mare e di obbedirlo. Noi eravamo tanto terrorizzati, anche per la presenza dei Keti che minacciavano di divorarci tutti, che non osammo vendicare la morte del nostro capo.

– Sono ancora nel tuo villaggio i Keti?

– No: sono ripartiti ieri.

– Credi che ritorneranno?

– Non lo so, – rispose il nuku.

– Se lo tenteranno ci saremo noi a difendere la tua tribù, – disse don Josè.

– Tu sei un grande guerriero, poiché hai vendicata la morte del nostro capo e noi siamo pronti a obbedirti. Vuoi prendere il suo posto? La nostra tribù è priva di un capo e non può farne senza.

– Io, re di selvaggi! – esclamò don Josè, ridendo e volgendosi verso don Pedro e Mina che attendevano impazientemente la fine di quel colloquio.

– Vi si offre una corona! – esclamarono i due giovani.

– Quella dei Nuku.

– E la rifiutate? – chiese don Pedro.

– Bisogna pensarci un po’ sopra, signore. Io non ho mai aspirato a diventare un potente della terra. E poi, un monarca antropofago!

– Non lo era diventato forse anche mio padre?

– Questo è vero.

– Voi re dei Nuku e io dei Krahoa. Che cosa vorreste di meglio.

– E io principessa antropofaga, – disse Mina, ridendo. – Ho ben diritto anch’io a una carica.

– Mi consigliereste di accettare? – chiese don Josè.

– Pensate capitano, che noi abbiamo bisogno di aiuto per poter disputare il tesoro a quel furfante ai Ramirez. Egli ha i Keti, mi avete detto; noi avremo i Nuku e i Krahoa. Vedremo se sarà capace di tenere testa alle due nostre tribù. E poi abbiamo da salvare, se non Emanuel, almeno quel bravo Reton prima che lo mettano allo spiedo.

 

– Allora varchiamo il Rubicone, – concluse il capitano. – Dopotutto non sarò il primo uomo di mare che è diventato un capo tribù di selvaggi.

Si consigliò brevemente con i due kanaki e avendo avuta la loro approvazione, riferì al sottocapo dei Nuku che accettava senz’altro la corona. A quella notizia, gli antropofaghi ebbero una vera esplosione di gioia e, tanto per cominciare le feste dell’incoronazione, fu proposto seduta stante di fare a pezzi il marinaio di Ramirez e di divorarlo sul posto, dopo averlo convenientemente rosolato su una graticola. Ci volle non poco al nuovo capo per dissuaderli, accampando come scusa che gli uomini bianchi non possono divorare i loro simili, senza scatenare l’ira delle divinità dei mari e delle montagne. I volti dei nuovi sudditi si allungarono un po’, tuttavia lasciarono in pace il cadavere. Si disposero su due file, misero in mezzo il loro nuovo capo, insieme ai suoi compagni e si misero in marcia, preceduti da un drappello di esploratori per evitare qualche sorpresa, essendo le tribù sempre in guerra fra loro. Raggiunta la foresta, che sembrava si stendesse per molte leghe, piegarono verso sud, illuminando la via con torce di niaulis. La foresta era foltissima, però i selvaggi guerrieri, che dovevano conoscerla a fondo non erano imbarazzati a trovare i passaggi. Quella marcia notturna fatta nel più profondo silenzio, durò due ore, poi la colonna arrivò davanti a un vasto spiazzo, aperto nel mezzo dell’immensa foresta, sul quale non c’erano che delle piante di niaulis, disposte con un certo ordine e che servivano d’appoggio a un numero considerevole di capanne. La colonna, dopo aver risposto ai fischi di allarme delle sentinelle che vigilavano in mezzo ai cespugli, entrò nel villaggio, sempre nel più profondo silenzio, essendo gli abitanti già addormentati e portarono don Josè e i suoi compagni fino a una capanna molto più vasta delle altre che si appoggiava a quattro niaulis ed era circondata da una solida palizzata.

– Sei nella tua casa, – disse il sottocapo, al nuovo monarca. – Sono lieto che un altro uomo bianco sia con noi.

Diede ai due kanaki due torce, poi si ritirò con tutti i suoi guerrieri, non senza aver annunciato che l’indomani si sarebbe proceduto alle feste dell’incoronazione con un numeroso pilù-pilù. La capanna, oltre ad essere vasta, era anche ben pulita e fornita di stuoie che dovevano servire da letti. I mobili consistevano in grandi vasi di terracotta pieni di banane, di noci di cocco, di tuberi colossali. Nel mezzo, fra i quattro tronchi dei niaulis, troneggiava un vaso di dimensioni colossali adorno di una dozzina di crani umani. Era quello che serviva a cucinare i prigionieri nelle grandi feste! Don Josè e i suoi compagni, che non si reggevano più in piedi per la stanchezza, scambiarono appena poche parole, vuotarono alcune noci di cocco, poi si lasciarono cadere sulle stuoie, mentre i due fedeli kanaki si coricavano dietro alla porta insieme a Hermosa, per impedire a chiunque di entrare, non avendo ancora piena fiducia dei Nuku. Era appena spuntato il sole, quando i naufraghi furono svegliati da un fragoroso battere di tamburi di legno, eseguito davanti alla capanna reale. Aperta la porta, videro il sottocapo, accompagnato da una mezza dozzina di suonatori e da un gruppo di ragazze che portavano dei grossi panieri, dai quali esalavano dei profumi appetitosi. Era la colazione reale che si offriva al nuovo monarca e ai suoi amici. Don Josè, a cui l’appetito non faceva mai difetto, nemmeno nelle più solenni circostanze, accolse con piacere le portatrici e spinse la sua amabilità fino ad invitare il sottocapo a prendere parte al pasto, considerandolo ormai come il suo primo ministro. I canestri contenevano dei maialetti appena arrostiti, con contorno di magnagne, una specie di leguminose che strisciano al suolo come le liane e che danno una radice grossa come una barbabietola, che si cucina sotto la cenere e contiene una polpa dolciastra e farinosa, molto apprezzata dagli indigeni. C’erano inoltre dei grossi pesci arrostiti, deposti su larghe fette di popoi’, ossia di frutta di albero del pane, ben pestate e lasciate inacidire in buche scavate nel suolo. A tutto ciò il bravuomo aveva aggiunta una bottiglia di acquavite autentica, regalatagli senza dubbio dal marinaio di Ramirez e che certo aveva messo in serbo per le grandi occasioni. I naufraghi e i due kanaki, che dopo i notù non avevano mangiato altro, diedero un buon saggio del loro invidiabile appetito, poi dopo avere mandato al diavolo i suonatori che durante la colazione non avevano smesso un solo momento di assordarli coi loro tamburi di legno, impegnarono una vivace discussione. Si trattava di cercare il mezzo di liberare Reton, poi di preparare un vero piano di battaglia per rendere impotente Ramirez, prima che marciasse alla conquista del tesoro della Montagna Azzurra.

– Vediamo che cosa sa questo selvaggio sui Keti, – disse il capitano a don Pedro e a Mina. – Prima di accingerci a questa impresa, è necessario conoscere le forze dei nostri avversari e molte altre cose.

– Soprattutto riguardanti mio padre, – disse don Pedro con voce commossa. – Gli avvenimenti che si sono succeduti vertiginosamente, non ci hanno ancora lasciato il tempo di avere qualche notizia su di lui.

– Il pilù-pilù non avrà luogo che dopo la scomparsa del sole, quindi possiamo discorrere a nostro agio. Il mio primo ministro non ci disturberà.

Si voltò verso Matemate che stava sorseggiando, in un piccolo guscio di conchiglia, la sua acquavite, facendo schioccare di quando in quando la lingua.

– È a te che spetta per primo la parola, – gli disse. – Tu hai conosciuto il gran capo bianco dei Krahoa, è vero?

– Sì, – rispose il kanako. – Ero anzi uno dei suoi guerrieri favoriti.

– È molto tempo che è morto?

Il kanako si provò, come l’altra volta, a contare sulle dita, spezzò una bacchetta, facendone diversi stecchi, poi rinunziò a un calcolo che per lui era troppo difficile.

– Molto no, – disse poi. – So che la luna piena si è mostrata sei volte.

– Di che male è morto?

– Di un colpo di lancia ricevuto in un combattimento contro i Tonguin. La battaglia era perduta per i nostri, quando il capo bianco, radunati attorno a sé i più valorosi guerrieri, assalì i nemici, mettendoli in fuga e uccidendo, con un gran colpo di scure, il loro capo. Disgraziatamente, mentre li inseguiva una lancia lo colpì in mezzo al petto e dopo quindici giorni morì, non avendo potuto i maghi della tribù, estrarre la punta di pietra che era penetrata nelle sue carni.

– E come era venuto il gran capo bianco presso la tua tribù? – chiese il capitano, dopo aver tradotto ai due giovani le risposte.

– Era stato raccolto sulle spiagge della baia di Bualabea, presso la foce del Diao, – rispose Matemate. – Il suo grande canotto era stato affondato da una tempesta. Tutti gli uomini che lo accompagnavano erano annegati

– Si era salvato solo lui?

– Sì, era solo quando fu trovato dai miei guerrieri.

– E non fu divorato? – chiese il capitano.

– Fu creduto un genio del mare, anche perché i nostri stregoni avevano annunciato l’arrivo di un uomo straordinario, parente del sole, che avrebbe reso alla nostra tribù dei grandi servizi. Il nostro capo era stato allora divorato dai Tonguin, e il supremo potere fu concesso all’uomo bianco.

– E fu amato dalla tua tribù?

– Sì, poiché insegnò ai miei compatrioti tante cose utilissime che prima ignoravano: quel vecchio regalatoci dal mare fu il nostro buon genio. Il nostro villaggio, grazie a lui è oggi il più popolato e il più sicuro di tutta l’isola e l’intera popolazione canta sempre le lodi dedicate all’uomo bianco.

– Era stato nominato anche gran capo dell’associazione dei duk-duk?

– Sì, – rispose Matemate. – Era lui solo il possessore del simbolo.

– E perché furono gettate in mare delle copie di quel misterioso emblema che protegge tutti coloro che lo posseggono?

– Egli spesso diceva, piangendo, di avere lasciati due figli, in un paese lontano che si trova dove nasce il sole.

– Povero padre mio! – esclamò Mina, che ascoltava ansiosa la traduzione che faceva il capitano.

– Quando s’accorse che la morte ormai si avvicinava, fece chiudere dentro dei barili che erano stati raccolti sulla spiaggia, dei simboli del duk-duk, – riprese il kanako. – Egli sperava che qualcuno potesse arrivare fino ai suoi figli.