Za darmo

Il re del mare

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– All’armi! Ecco il nemico!

Yanez e Tremal-Naik, che si erano coricati sul parapetto, erano balzati in piedi.

– Alle spingarde! – aveva gridato il portoghese con voce tuonante.

Alla luce dei lampi, luce vivissima perchè era un bagliore continuo, con incessante accompagnamento di tuoni formidabili, si vedevano i dayaki attraversare la pianura a corsa sfrenata, a gruppi, a drappelli, coi loro giganteschi scudi alzati per proteggersi dai rovesci d’acqua.

Parevano demoni vomitati dall’inferno e l’illusione, con quel lampeggiare che proiettava sulla terra fasci di luce ora rossastra e ora livida, ora cadaverica, era perfetta.

Le spingarde, che come dicemmo erano state coperte a tempo colle tettoie, avevano cominciato a sparare furiosamente, falciando le cime degli arbusti spinosi prima che la mitraglia cadesse sulla pianura.

Anche i malesi, i giavanesi ed i pirati che non erano occupati al servizio delle bocche da fuoco, sparavano come meglio potevano, rannicchiati dietro i parapetti, ma l’acqua che cadeva era tanta e tanta che il più delle volte le carabine facevano cilecca.

La bufera rendeva la difesa estremamente difficile con le armi da fuoco, e non accennava a calmarsi, anzi! È vero che non doveva durare molto; gli uragani che scoppiano in quelle regioni acquistano una intensità spaventevole, di cui non possiamo farci un’idea, ma ordinariamente non si prolungano al di là d’una mezz’ora.

Anzi, talvolta cessano dopo pochi minuti. Che furia però in quel brevissimo tempo! Pare che l’universo intero vada a catafascio o che un incendio immenso lo divori, nonostante le trombe d’acqua che si rovesciano dal cielo.

La nube nera pareva che fosse diventata di fuoco e che tutti i venti si fossero concentrati sulla pianura stendendosi intorno al kampong di Tremal-Naik.

Gli alberi si torcevano come fossero semplici fuscelli; i giganteschi durion che pareva dovessero sfidare le più tremende convulsioni terrestri e celesti, rovinavano al suolo sradicati da quelle raffiche irresistibili; i poderosi pombo si spogliavano rapidamente dei loro rami; le gigantesche foglie delle palme e dei banani volavano per l’aria come mostruosi volatili.

Acqua, vento e fuoco si mescolavano gareggiando di violenza, mentre in alto, sulla cima della cupola fiammeggiante, i tuoni facevano udire la poderosa voce della tempesta, soffocando completamente i rombi del mirim, dei lilà e delle spingarde.

I difensori del kampong, quantunque accecati dai lampi e affogati sotto quei getti d’acqua colossali, non si smarrivano d’animo e mantenevano il loro fuoco vivissimo mitragliando le orde selvagge che si avanzavano mescendo le loro urla ai tuoni del cielo.

– Non arrestatevi! – gridavano senza posa Yanez, Tremal-Naik e Sambigliong, che si trovavano sotto la tettoia che riparava la spingarda della saracinesca.

I dayaki che non subivano già grosse perdite, non marciando più in colonna, ben presto giunsero sotto le piante spinose che si misero a sciabolare furiosamente coi loro pesanti kampilang, per aprirsi un varco che permettesse loro di montare liberamente all’assalto della cinta.

Tutto il loro sforzo si era concentrato verso le saracinesche che ormai conoscevano. Era quello il punto più solido del kampong, ma anche quello che offriva maggiori probabilità di poter invadere la fattoria. Alcuni drappelli si erano muniti di travi pesanti per servirsene come di arieti e sfondare i panconi della cinta.

Yanez e Tremal-Naik, comprendendo che stavano per giuocare la loro ultima carta, avevano fatti accorrere tutti i servi del kampong coi pentoloni colmi di caucciù. Quel liquido terribile, ancora una volta, poteva rendere maggiori servigi che le armi da fuoco.

I dayaki, che massacravano rapidamente gli arbusti spinosi, giungevano. Un drappello dopo essersi aperto un largo sentiero, sbucò sotto la cinta ed assalì risolutamente la saracinesca percuotendola poderosamente con un tronco d’albero spinto innanzi da trenta o quaranta braccia.

Una pioggia di caucciù bollente, che cadde sulle loro teste, bruciando ad un tempo i loro capelli e la cotenna, li costrinse ad abbandonare precipitosamente l’impresa.

Un altro non ebbe miglior fortuna; ma giungeva il grosso che la mitraglia delle spingarde non era riuscita a trattenere.

Due o trecento uomini, resi furibondi dall’ostinata resistenza che opponevano gli assediati, si rovesciarono contro la cinta appoggiando ai parapetti delle grosse canne di bambù per dare la scalata alle terrazze. Alle grida di Yanez e di Tremal-Naik, tutti gli uomini del kampong erano accorsi da quella parte, non lasciando che pochi artiglieri alle spingarde.

Avevano gettate le carabine, diventate quasi inutili con quell’acquazzone che non cessava ancora, ed avevano impugnati i parangs, armi non meno pesanti e non meno taglienti dei kampilang dei dayaki.

Gli assalitori, nonostante gli spruzzi abbondanti del liquido infernale, montavano intrepidamente all’attacco con un coraggio disperato, mandando clamori orribili.

I primi che giungono sui parapetti, rotolano nel fossato sottostante con le mani tagliate o la testa spaccata, ma altri ne sopraggiungono menando formidabili colpi di kampilang per allontanare i difensori.

Si arrampicano come le scimmie, su pei bambù o balzandosi l’uno addosso all’altro formano delle piramidi umane che nemmeno il caucciù, che continua a venire versato, riesce a scuotere.

Mandano urla spaventevoli, la loro pelle cade a brandelli e fuma, eppure quei fanatici, incoraggiati dalla voce del pellegrino che echeggia in mezzo alle piante spinose, resistono con una tenacia che fa impallidire Yanez, il quale comincia a perdere buona parte della sua fiducia.

I difensori del kampong, soprattutto i Tigrotti della Malesia, non dimostrano tuttavia meno tenacia, nè meno coraggio degli assalitori.

I loro parangs, manovrati da braccia solide, tagliano nel vivo e mutilano orrendamente quelli che riescono a issarsi sui parapetti.

Mentre i dayaki urlano:

– Allah! Allah! Allah! -, nè più nè meno dei fanatici mussulmani delle sabbiose terre dell’Arabia, i pirati di Yanez rispondono con non meno entusiasmo:

– Viva Mompracem! Largo alle tigri dell’arcipelago!

Il sangue scorre a fiotti. Le palizzate della cinta grondano e le terrazze si arrossano.

Da una parte e dall’altra combattono con pari furore, mentre l’uragano imperversa sempre e somministra la luce ai combattenti onde possano scannarsi meglio.

La tenacia e il coraggio dei dayaki, non guadagnano gran che. Tre volte i guerrieri del pellegrino, tutto sfidando, il fuoco delle spingarde collocate agli angoli che li prende di fianco con bordate di chiodi, i getti di caucciù ed i parangs che li mutilano, sono mandati all’assalto e hanno raggiunti e anche scavalcati i parapetti e tre volte sono stati costretti a lasciarsi cadere nei fossati già pieni di morti e di feriti.

– Ancora uno sforzo! – urla Yanez, che vede gli assalitori esitare. – Uno sforzo ancora e avremo ragione di questi testardi.

Le spingarde raddoppiano il fuoco ed i malesi e i giavanesi, che hanno avuto un momento di riposo, tornano a tagliare nel vivo, mentre i servi rovesciano gli ultimi vasi contenenti il caucciù.

L’attacco si rallenta, i dayaki tentano per la quarta volta la scalata, non più con lo slancio e col fanatismo di prima.

La paura comincia ad impossessarsi dei loro animi. Non invocano nemmeno più Allah.

Tuttavia il loro ultimo sforzo non è meno pericoloso. Sono ancora in buon numero, mentre la guarnigione si è assottigliata non poco, esposta al fuoco di alcuni tiratori nascosti sotto gli arbusti.

E poi la stanchezza comincia a farsi sentire. Le lunghe sciabole pesano nelle mani dei malesi e dei giavanesi, se non in quelle dei Tigrotti di Mompracem.

I tagliatori di teste tornano ad arrampicarsi, mentre i loro compagni che sono nel fossato, tentano con uno sforzo supremo di aprire una breccia nella saracinesca percuotendo i panconi colle travi.

Guai se i difensori si perdono d’animo. È finita per tutti. Anche per la graziosa Darma!

Yanez volta la spingarda in modo che la mitraglia rada il parapetto, gridando contemporaneamente ai suoi uomini che stanno per avventarsi sugli assalitori che già si preparano a balzare sulle terrazze:

– Indietro… un momento solo!

Il colpo parte e la mitraglia spazza da un angolo all’altro della cinta, tutto il parapetto, fulminando o storpiando quanti nemici si trovano sopra.

Nel medesimo tempo i servi rovesciano tutte le caldaie ancora rimaste su coloro che s’accaniscono contro la saracinesca.

Il fumo si era appena dileguato, quando una tigre superba si scaglia sul parapetto mandando un aoung ferocissimo, abbranca un dayako rimasto sospeso e miracolosamente illeso e gli pianta i denti nel cranio.

Alla vista di quel terribile carnivoro che i lampi incessanti mostrano come se fosse di pieno giorno, un terrore invincibile invade gli assalitori.

Se anche le belve della foresta accorrono in aiuto dell’uomo bianco e dell’indiano, vuol dire che gli uomini sono più potenti del pellegrino della Mecca.

La ritirata si converte in pochi istanti in una fuga precipitosa, disordinata. Dei selvaggi gettano perfino gli scudi e i kampilang per correre più lesti.

Più nessuno obbedisce ai capi, nè alle grida del pellegrino che invano si sfiata a urlare:

– Avanti per Allah! Maometto vi protegge!

Non erano dopotutto così sciocchi per accorgersi che Allah ed il Profeta non li avevano affatto protetti.

Mentre scappavano a rotta di collo, spronati dai tiri delle spingarde, un uomo si era slanciato sulla terrazza, muovendo rapidamente verso Yanez e Tremal-Naik. Era anche quello un bel tipo di indiano di circa quarant’anni, meno alto di Tremal-Naik ed invece più membruto, dalla pelle abbronzata con certi riflessi dell’ottone, che spiccava vivamente sul suo vestito bianco, cogli occhi nerissimi e fieri ed i lineamenti fini ad un tempo ed energici.

 

Vedendolo Yanez aveva mandato un grido di gioia:

– Kammamuri!

– Il mio bravo maharatto! – aveva esclamato dal canto suo Tremal-Naik.

– Arrivo troppo tardi, – rispose il nuovo arrivato, – è vero padrone?

– In tempo per vedere i talloni dei dayaki, – rispose Tremal-Naik.

– Sei salito in questo momento? – chiese il portoghese.

– Sì, signor Yanez, ed è stato un vero miracolo se i vostri uomini non mi hanno ucciso. Mi arrampicavo sulla fune e proprio nel momento che tiravano una bordata di chiodi.

– Sei stato a Mompracem?

– Sì, signor Yanez.

– Dunque hai veduto la Tigre della Malesia?

– L’ho lasciata sette giorni or sono.

– Sei giunto solo?

– Solo, signor Yanez.

– Non hai condotto alcun rinforzo?

– No.

– Va’a rifocillarti, che devi essere stremato dalle privazioni. Fra poco noi saremo da te, – disse Tremal-Naik. – Yanez, diamo gli ultimi colpi ai fuggiaschi e tu, Darma, – gridò, volgendosi verso la tigre, che portava il medesimo nome di sua figlia, – lascia quell’uomo e vattene in cucina.

12. L’orgia dei dayaki

Dieci minuti dopo Yanez e Tremal-Naik, assicuratisi che i dayaki avevano sgombrato anche la zona alberata e che tutti si erano ripiegati sui loro accampamenti, certi di non venire più disturbati, almeno per quella notte, lasciavano la terrazza per raggiungere il maharatto.

L’uragano stava per calmarsi. La nera nube si era squarciata e attraverso uno strappo mostravasi la luna.

Solo in lontananza il tuono continuava a brontolare e si udiva il vento ululare sinistramente sotto le folte foreste che circondavano la pianura.

Trovarono Kammamuri nel salotto da pranzo, seduto dinanzi alla tavola, che divideva fraternamente un pollo arrostito colla tigre.

– È finita la battaglia, padrone? – chiese, rivolgendosi a Tremal-Naik.

– E spero che non avranno più desiderio di ritornare per qualche tempo, – rispose l’indiano. – È la seconda sconfitta che subiscono.

– Quali nuove rechi da Mompracem? – chiese Yanez, sedendosi di fronte al maharatto. – Io sono stupito di averti veduto giungere senza una scorta. Gli uomini non mancano a Mompracem.

– È vero, signor Yanez, ma anche là sono non meno necessari di qui, – rispose il maharatto.

Il portoghese e anche Tremal-Naik avevano fatto un gesto di stupore.

– Padrone, signor Yanez, io reco da Mompracem delle gravi notizie.

– Spiegati meglio, – disse il portoghese. – Chi può minacciare il covo delle tigri di Mompracem?

– Un nemico non meno misterioso del pellegrino, appoggiato dagli inglesi di Labuan e dal nipote di James Brooke, il nuovo rajah di Sarawak.

Yanez aveva lasciato cadere un pugno così formidabile sul tavolo, da far traballare i bicchieri e le bottiglie.

– Anche Mompracem minacciata! – esclamò.

– Sì, signor Yanez, e la cosa è più grave di quello che credete. Il governatore di Labuan ha notificato a Sandokan che deve prepararsi a sgombrare l’isola.

– La nostra Mompracem? E per quale motivo?

– Egli ha scritto alla Tigre che la presenza degli antichi pirati costituisce un pericolo permanente per la tranquillità e per lo sviluppo della colonia inglese; che l’isola è troppo vicina e troppo difesa; e che infine serve d’incoraggiamento ai pirati bornesi i quali cominciano ad alzare la testa e scorrere il mare, contando sull’appoggio vostro.

– Menzogne! Noi da molti anni abbiamo rinunciato alle nostre scorrerie e non prestiamo più appoggio ai bornesi, che scorazzano i mari della Malesia.

– Sono infamie! – gridò Tremal-Naik. – È questa la ricompensa che l’Inghilterra riserbava pei valorosi che hanno liberata l’India dagli strangolatori? Hanno ben ragione di chiamare quel governo l’insaziabile leopardo.

– E Sandokan, che cosa ha risposto a quell’insolente governatore? – chiese Yanez.

– Che è pronto a difendere la propria isola e che non cederà dinanzi ad alcuna minaccia.

– E sta fortificandosi?

– Ha fatto arruolare già cento dayaki di Sarawak e a quest’ora li avrà ricevuti. Voi sapete che contate ancora dei fidi amici fra gli antichi partigiani di Muda Hassim, il competitore di James Brooke, lo sterminatore dei pirati.

– Sì, vi son laggiù delle persone che si ricordano ancora che fummo noi a rovesciare Brooke e rimandarlo in Inghilterra senza una ghinea, – rispose Yanez. – E chi è che ha mosso tutta questa guerra? Qui i dayaki fanatizzati da un pellegrino che vogliono la testa del tuo padrone; là gli inglesi aizzati da chissà chi, giacchè fino a poche settimane or sono noi vivevamo in buoni rapporti col governatore di Labuan.

– E pare che vi sia anche il rajah di Sarawak della partita, il nipote di Brooke, – aggiunse Kammamuri. – Una nave di quel reame, senza alcun motivo plausibile, ha affondato in questi giorni un praho di Sandokan lasciando affogare l’intero equipaggio. Mandata la Marianna a dargli la caccia e chiedere al comandante spiegazioni e riparazioni, per tutta risposta l’equipaggio ricevette l’intimazione di seguirlo a Sarawak.

– Ciò che non avrà fatto, suppongo, – disse Tremal-Naik.

– No, ma dovette ritornare più che in fretta a Mompracem sotto il fuoco d’una nave a vapore giunta improvvisamente per sostenere la prima, e che portava pure sul picco le bandiere del rajah.

– Tremal-Naik, – disse Yanez che si era alzato e che passeggiava nervosamente per la sala. – Mi viene un sospetto.

– E quale?

– Che tutta questa congiura sia opera del rajah per vendicare la caduta di suo zio e che si sia accordato col governo inglese. Già noi siamo una spina per Labuan, che è così prossima a Mompracem e che noi molti anni fa per poco non abbiamo espugnata e conquistata.

– Non solo, signor Yanez, vi è qualche altro nella partita, – disse Kammamuri.

– E chi?

– Sapete che cosa mi ha raccontato l’ex servo del mio padrone che mi ha aiutato ad attraversare gli accampamenti dei dayaki e giungere qui inosservato?

– Che cosa? – chiesero ad una voce Yanez e Tremal-Naik.

– Che il pellegrino che ha fanatizzato i dayaki e che li ha armati e pagati largamente, non è un arabo, come lo si è creduto finora, bensì un indiano.

– Un indiano! – esclamarono i due amici.

– E ho da dirvi qualche cosa di più grave ancora, che vi farà aprire di più gli occhi e meglio comprendere con quale nemico noi abbiamo da fare. L’ex servo ha aggiunto d’averlo sorpreso una notte in una capanna inginocchiato dinanzi ad una bacinella piena d’acqua contenente dei piccoli pesci rossi, dei manghi del Gange, di certo.

– Per Giove! – esclamò Yanez, fermandosi di colpo, mentre Tremal-Naik balzava in piedi col viso alterato. – Un bacino con dei pesci dentro!

– Sì, signor Yanez.

– Allora quell’uomo è un thug! – esclamò Tremal-Naik con accento di terrore.

– Deve essere tale perchè solamente gli strangolatori indiani adorano i manghi del Gange che, secondo le loro credenze, incarnano l’anima della dea Kalì, – rispose Kammamuri.

Per alcuni istanti nella sala regnò un profondo silenzio. Perfino Darma, la superba tigre ammaestrata, divorava la sua cena senza più brontolare, come se avesse compresa la gravità eccezionale della situazione.

– Udiamo, – disse ad un tratto Yanez, che aveva riacquistato subito il suo sangue freddo. – Chi è l’uomo che ti ha raccontato ciò?

– Karia, un dayako che fu ai nostri servigi e che ora si trova nel campo dei ribelli, un uomo intelligentissimo che corseggiò i mari parecchi anni. Un giorno gli ho salvato la vita, mentre una tigre stava per divorarlo ed ha conservato a me un po’ di riconoscenza. È stato lui, come vi dissi, a farmi attraversare le linee dei ribelli.

– Dove lo avevi trovato? – chiese Tremal-Naik.

– Nella foresta, mentre io cercavo di accostarmi inosservato al kampong. Invece di tradirmi e di consegnarmi al pellegrino, mi guidò qui, dopo d’avervi avvertiti, con una freccia ed un mio biglietto, della mia presenza.

– Possiamo quindi fidarci di quanto ti ha narrato? – disse Yanez.

– Pienamente; e poi non ha mai udito parlare dei thugs indiani ed è rimasto molto meravigliato quando mi udì a dire che se il pellegrino adorava di nascosto i pesci non era mussulmano.

– Yanez, – disse Tremal-Naik, che era ancora in preda ad una profonda agitazione, – che cosa pensi di fare?

Il portoghese, appoggiato alla tavola, con una mano sulla fronte e la testa china, pareva che meditasse profondamente.

– Siamo stati degli stupidi, – disse ad un tratto. – Io mi chiedo come mai non abbiamo pensato che quel dannato pellegrino potesse essere un thug! Eppure l’odio che ha contro di te, Tremal-Naik, che hai rapito prima loro la Vergine della pagoda e poi hai strappato pur loro tua figlia Darma, che doveva surrogare sua madre, doveva bastare per aprirci gli occhi.

Poi, dopo un breve silenzio, aggiunse:

– Se noi non avessimo veduto Suyodhana, il loro capo, spirare sotto il pugnale di Sandokan, si potrebbe credere che tutto ciò è opera sua, ma noi tutti abbiamo constatata la sua morte ed abbiamo veduto il suo cadavere gettato nella gran fossa comune assieme ai ribelli di Delhi.

– Chi può essere quel pellegrino? Uno dei luogotenenti di Suyodhana?

– Yanez, che cosa dobbiamo fare? – chiese per la seconda volta Tremal-Naik. – Ora che sappiamo che vi è la mano dei thugs che noi credevamo per sempre annichiliti, io tremo per la vita della mia Darma.

– Non ci resta che andarcene al più presto da qui e raggiungere Sandokan. Qui non abbiamo più nulla da fare ed io e Sandokan sapremo compensarti largamente di ciò che abbandoni nelle mani dei dayaki.

– Sono ancora abbastanza ricco e ho, tu lo sai, delle fattorie anche nel Bengala. Vorrei invece sapere come potremmo noi fuggire cogli assedianti alle costole.

– Il mezzo lo troveremo. Si dice che la notte porti consiglio. Già che i dayaki ci lasciano un momento tranquilli, andiamo a riposare. Sambigliong s’incaricherà di disporre gli uomini di guardia. Chissà che domani il mio cervello non abbia trovato qualche buona idea.

Certi che gli assedianti, colla terribile batosta ricevuta, non sarebbero tornati alla riscossa, i tre uomini che erano stanchissimi si ritrassero nelle loro stanze non certo lieti, specialmente il portoghese e Tremal-Naik, della brutta piega che prendevano le cose.

La notte passò tranquilla. I dayaki, scoraggiati e anche addolorati per le gravi perdite subite, non avevano più osato lasciare i loro accampamenti che dovevano rigurgitare di feriti.

Gli uomini di guardia del kampong udirono fino all’alba rullare i tamburoni e i lamenti dei parenti dei morti rimasti nei fossati delle cinte, che nessuno aveva levati di là.

Al mattino seguente Yanez, che aveva dormito male e pochissimo, angosciato dalle tristi notizie recate dal maharatto, era già in piedi prima ancora che il sole fosse spuntato all’orizzonte.

Pareva che fosse tormentato da qualche idea, perchè, invece di scendere nella sala per farsi servire il thè come faceva tutte le mattine, raggiunse il terrazzo su cui esisteva ancora un pezzo della torretta di legno che le artiglierie nemiche avevano demolito e di lassù si mise ad osservare attentamente le cinte e la disposizione interna del kampong.

La fattoria formava un vasto parallelogrammo, tagliato a metà dal bengalow e dalle tettoie e da una palizzata in modo da poter dividere la difesa.

La prima parte, dove trovavasi la saracinesca, comprendeva i fabbricati in muratura: la seconda le aie e le abitazioni della servitù e dei campieri e i recinti degli animali. Fu quella disposizione, prima non attentamente notata, che colpì il portoghese.

– Per Giove! – mormorò, stropicciandosi allegramente le mani. – Ciò si presta meravigliosamente al mio progetto. Tutto dipende dalla provvista delle cantine del mio amico Tremal-Naik. Se il bram abbonda il colpo è fatto. I dayaki non sono meno golosi dei negri e anche su loro i forti liquori esercitano un fascino irresistibile. Cane d’un pellegrino! Ti preparerò un tiro da maestro.

Ridiscese visibilmente soddisfatto e trovò Tremal-Naik e Kammamuri nel salotto, che stavano vuotando alcune tazze di thè.

– Hai trovato nessuna buona idea che ci permetta di andarcene? – chiese, rivolgendosi al padre della fanciulla.

– Ho tormentato invano tutta la notte il mio cervello, – rispose Tremal-Naik che sembrava assai abbattuto. – Non vi sarebbe che un solo tentativo da fare, un tentativo disperato.

– Quale?

– Di aprirci il passo attraverso le file degli assedianti coi parangs in pugno.

 

– E farci probabilmente massacrare, – rispose Yanez. – Trenta contro trecento, avendo ormai dieci o dodici uomini feriti che non varranno gran che in una lotta corpo a corpo; brutto affare.

– Non ho trovato altro di meglio.

– Di quanti vasi di bram disponi? – chiese bruscamente Yanez.

– A che cosa potrebbe servirci quel liquore? – chiesero ad una voce Tremal-Naik e Kammamuri guardandolo con sorpresa.

– Per farci scappare, amici miei.

– Scherzi, Yanez.

– No, Tremal-Naik. D’altronde il momento sarebbe male scelto. Sei ben provvisto?

– Le mie cantine sono piene, provvedendo io tutte le tribù dei dintorni.

– I dayaki sono buoni bevitori, vero?

– Come tutti i popoli selvaggi.

– Se trovassero sui loro passi un centinaio di vasi di quel liquore, a loro disposizione, credi tu che si fermerebbero per vuotarli?

– Non glielo impedirebbe nemmeno il cannone, – rispose Tremal-Naik.

– Allora, miei cari amici, il pellegrino è giocato, – disse Yanez.

– Non ti comprendiamo.

– Il kampong è diviso in due dalla palizzata interna?

– Sì, l’ho fatto appositamente costruire per opporre maggiore resistenza nel caso che il nemico avesse potuto forzare la saracinesca, – rispose Tremal-Naik.

– L’idea è stata buona, amico mio, e ci servirà magnificamente in questo momento. Noi concentreremo tutte le nostre difese verso le aie e le abitazioni dei servi, lasciando ai dayaki il passo libero e abbandonando loro il bengalow e le tettoie.

– Come! – esclamò Tremal-Naik. – Tu cederesti loro le nostre migliori opere di difesa?

– Non ci servirebbero più dal momento che abbiamo deciso di evacuare la piazza, – rispose Yanez. – Anzi abbatteremo una parte della cinta che guarda la saracinesca per attirare meglio i dayaki.

– La palizzata interna non è molto solida.

– Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram, – disse Yanez ridendo. – Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra.

– Si ubriacheranno, ne sono certo.

– È quello che desidero; perchè noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d’aver incendiato il bengalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore.

– Tippo Sahib, il Napoleone dell’India non sarebbe certo capace di architettare un simile piano.

– Quella non era una tigre di Mompracem, – disse Yanez con comica serietà.

– Cadranno nel laccio i dayaki.

– Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli.

– A quando il colpo? – chiese Kammamuri.

– Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti.

– All’opera Yanez, – disse Tremal-Naik. – Io ho piena fiducia nel tuo piano.

– Hai un cavallo per Darma?

– Ne ho quattro e buoni.

– Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla?

– Tre giorni, signore.

– Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle.

L’audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obiezioni. D’altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell’assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione.

I preparativi vennero cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bengalow.

Vi erano più di ottanta vasi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcolica.

Verso il tramonto, la guarnigione abbattè una parte della cinta e dopo aver isolate le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong.

Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bengalow, abbondantemente innaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico.

Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell’incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors’anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto.

Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi.

Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria annunciarono il nemico.

I dayaki avevano formato sei piccole colonne d’assalto e s’avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bengalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa.

I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all’impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang.

Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bengalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori.

Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere.

L’alcol che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi.

– Bram! Bram!

Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido.

Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s’imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco.

Un sorso, solo un sorso e poi avanti all’attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell’inazione della guarnigione del kampong; d’altronde era infinitamente migliore, quell’ardente liquore, delle palle di piombo.

Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi.

Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa.

Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minacce dei capi.

Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata.

Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bengalow uscivano torrenti di fumo nero.

Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati.

I dayaki non parevano preoccuparsi dell’incendio che minacciava di divorare l’intero kampong.

Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando, e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile.

I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perchè non avrebbero approfittato di quell’abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli?