Za darmo

Il re del mare

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5. Le confessioni del pilota

La Marianna aveva superata la zona incendiata e navigava in quel momento fra due rive verdeggianti, dove i durion, gli alberi della canfora, i gluga, i sagu, i banani dalle foglie mostruose e le splendide arenghe intrecciavano i loro rami e le loro fronde. Un fiumicello che si riversava nel Kabatuan, aveva impedito al fuoco di estendersi verso l’alto corso, sicchè quelle boscaglie erano state risparmiate.

Una calma assoluta regnava sulle rive, almeno in quel momento. I dayaki non dovevano essersi spinti fino là, perchè si vedevano numerosi uccelli acquatici bagnarsi tranquillamente, segno evidente che si tenevano perfettamente sicuri.

Ed infatti le grosse pelargopsis, dall’enorme becco rosso come il corallo, nuotavano lungo le canne, pescando le belle alcede attraversavano il fiume salutando il veliero con un lungo fischio e all’estremità degli alberi, che spingevano i loro rami sulle acque, i ploceus pispigliavano, dondolandosi entro i loro nidi in forma di borsa, mentre sui banchi sonnecchiavano non pochi coccodrilli lunghi cinque o sei metri, coi dorsi rugosi incrostati d’un fitto strato di fango.

– Ecco quelli che s’incaricheranno di sciogliere la lingua a quell’ostinato malese, – mormorò Yanez, che aveva fissati gli sguardi sui formidabili rettili. – Che bell’occasione! Sambigliong!

Il mastro fu pronto ad accorrere alla chiamata.

– Fa’ gettare un ancorotto.

– Ci fermiamo, capitano Yanez?

– Oh, per pochi minuti solamente e accosta uno di quei banchi più che puoi.

– Volete pescare qualche coccodrillo?

– Vedrai: prepara intanto una solida fune.

Il pilota comparve in quel momento in coperta, colle mani legate dietro al dorso, spinto innanzi dal meticcio che non faceva economia di urti e di minacce.

Il disgraziato era in preda ad un terrore profondo, eppure non pareva ancora disposto a confessare.

– Sambigliong, – disse Yanez, quando l’ancorotto fu calato. – Getta un po’ di carne salata a quei mostri, tanto da stuzzicare un po’ il loro appetito.

La Marianna si era fermata a breve distanza da un banco melmoso, su cui stavano radunati cinque o sei gaviali, fra cui uno mancante della coda, perduta di certo in qualche combattimento.

Si scaldavano al sole, sonnecchiando tranquillamente e anche vedendo accostarsi il veliero non si erano mossi, essendo per loro natura poco diffidenti.

– Destatevi boyo! – gridò Sambigliong, gettando verso il banco alcuni enormi pezzi di carne salata.

I gaviali, vedendo cadere quella manna, si erano alzati, poi vi si erano scagliati sopra disputandoseli ferocemente. In un momento non si vide che un ammasso di scaglie e di code poderosamente agitate che picchiavano in tutte le direzioni, poi, messi in appetito da quei pochi bocconi si spinsero verso l’orlo del banco, alzando le loro ampie mascelle, armate di lunghi denti, verso la Marianna, in attesa d’un’altra distribuzione.

– Signor Yanez, – disse Sambigliong, – aspettano qualche cosa di meglio quegli insaziabili ghiottoni.

– Daremo loro un uomo, – rispose il portoghese, guardando il pilota che fissava cogli occhi smarriti le gole spalancate dei mostri, come se avesse compreso che quell’uomo era lui.

– Signore, – balbettò, accostandosi a Yanez.

– Taci! – gli rispose questi seccamente.

– Che cosa volete fare di me?

– Lo saprai presto. A te, Sambigliong.

Il mastro annodò attorno ai fianchi del disgraziato malese una solida corda, poi alzandolo bruscamente fra le poderose braccia, lo gettò fuori dal bordo prima che avesse pensato ad opporre qualsiasi resistenza.

Padada aveva mandato un urlo terribile, credendo di cadere fra le mascelle di quei formidabili rettili, invece rimase sospeso fra l’acqua ed il bordo.

I gaviali, vedendo quella preda umana, con un balzo si erano precipitati in acqua, nuotando velocemente verso la Marianna.

Il pilota, pazzo dal terrore, si dibatteva disperatamente girando e rigirando su se stesso e mandando urla strozzate. Un’angoscia indescrivibile traspariva dai suoi lineamenti spaventosamente alterati.

– Aiuto! Aiuto! Grazia! Salvatemi… – gridava, facendo sforzi supremi per spezzare le corde che gli legavano le mani.

Yanez, in piedi sul capo di banda, aggrappato alla grisella di babordo del trinchetto, lo guardava impassibilmente, mentre i gaviali tentavano di afferrare la preda, slanciandosi più che mezzi fuori dell’acqua, con poderosi colpi di coda.

– Se Padada non muore di spavento è un vero miracolo, – disse Tangusa.

– Hanno la pelle dura i malesi, – rispose Yanez. – Lasciamolo gridare un po’.

Il povero uomo gridava a squarciagola, peggio d’una scimmia rossa, urlando sempre: – Aiuto! grazia! Mi raggiungono… grazia, signore!

Yanez fece cenno a Sambigliong di ritirare un po’ la fune, essendo un gaviale riuscito a toccare coll’estremità del muso la preda, poi, volgendosi verso il pilota che continuava a dibattersi, raggrizzando più che poteva le gambe:

– Vuoi che ti lasci cadere nelle gole dei boyo o che ti faccia issare? La tua vita sta in mano tua.

– No… signore… issatemi… mi toccano… non posso più.

– Parlerai?

– Sì, parlerò… vi dirò tutto… tutto…

– Giuralo su Vairang kidul, giacchè è la protettrice dei cacciatori di nidi di salangane.

– Lo giuro… signore…

– Ti avverto prima che, se quando ti avremo tirato su, ti rifiuterai di confessarmi ogni cosa, ti getterò senz’altro fra le mascelle del più grosso gaviale.

– Non ne ho alcun desiderio e…

– Continua, – disse Yanez.

– Quando avrò tutto confessato non mi ucciderete egualmente?

– Non so che cosa farne della tua pelle. Rimarrai prigioniero fino al nostro ritorno, poi andrai a farti appiccare dove vorrai. Seguimi nel quadro e anche tu, Tangusa.

Il malese a cui non pareva ancora vero di trovarsi vivo e che batteva i denti pel terrore, che non gli era completamente passato, seguì, senza farsi pregare, il portoghese ed il meticcio.

– Ed ora ascoltiamo la tua interessante confessione, – disse Yanez, sdraiandosi su un divanetto e riaccendendo la sigaretta che aveva lasciata spegnere, per meglio assistere ai salti dei gaviali ed ai contorcimenti del pilota. – Bada che tu hai giurato e che io non sono uomo da lasciarmi giocare, nè prendere a gabbo.

– Vi dirò tutto, padrone.

– Dunque sono stati i dayaki a mandarti incontro alla Marianna.

– Non posso negarlo, – rispose il malese.

– È stato il pellegrino.

– No, signore; io non ho mai parlato con quell’uomo.

– Chi è?

– Ma… sarebbe un po’ difficile a dirlo, nè saprei dirvi da dove sia piombato costui. È giunto qui alcune settimane or sono, con molte casse piene d’armi e ben fornito di denaro, di ghinee e di fiorini olandesi.

– Solo?

– Lo credo.

– E che cosa ha fatto poi?

– Si è presentato ai capi tribù, i quali lo ricevettero con deferenza, avendo in testa il turbante verde dei pellegrini che hanno visitato il sepolcro del Profeta. Che cosa poi abbia narrato loro e promesso, io lo ignoro. So solo che pochi giorni dopo, i dayaki erano tutti in armi e che chiedevano la testa di Tremal-Naik, che fino allora era stato il loro protettore.

– Ha regalato a quei fanatici imbecilli le armi?

– E anche molto denaro.

– È vero che un giorno una nave inglese è giunta alla foce del Kabatuan e che quel pellegrino si è abboccato col comandante? – chiese Yanez.

– Sì, signore, anzi aggiungerò che durante la notte l’equipaggio sbarcò altre casse piene d’armi.

– Non sai a che razza appartiene quell’uomo?

– No, signore: quello che vi posso dire è che la sua pelle è oscura assai e che parla il bornese con difficoltà.

– Che mistero impenetrabile! – mormorò Yanez. – Mi romperò il capo senza riuscire a schiarirlo.

Stette un momento silenzioso, come se si fosse immerso in un profondo pensiero, poi chiese:

– Come avevano fatto a sapere che la Marianna giungeva in soccorso di Tremal-Naik?

– Pare che sia stato un servo dell’indiano a informare i capi dayaki ed il pellegrino.

– Quale incarico ti avevano dato?

Il malese ebbe una breve esitazione, poi rispose:

– Di arenare la vostra nave, innanzi tutto.

– Non mi ero dunque ingannato, dubitando di te. E poi?

– Lasciate che non confessi il resto.

– Parla liberamente: ti ho promesso di lasciarti la vita ed io non manco alla mia parola.

– Di approfittare dell’assalto dei dayaki per incendiarvi la nave.

– Grazie della tua franchezza, – disse Yanez, ridendo. – Sicchè avevano deciso la nostra morte?

– Sì, signore. Pare che il pellegrino abbia avuto qualche motivo di dolersi delle tigri di Mompracem.

– Anche di noi! – esclamò Yanez, che cadeva di sorpresa in sorpresa.

– Chi può essere costui? Noi non abbiamo mai avuto a che fare con dei fanatici mussulmani.

– Non so che cosa dirvi, signore.

– Se è vero quello che ci hai narrato, quel miserabile ci insidierà dovunque?

– Non vi lascerà tranquilli, badate a me e farà di tutto per massacrarvi dal primo all’ultimo, – disse il pilota. – Io so che ha fatto giurare ai capi dayaki di non risparmiarvi.

– E noi faremo il possibile per ucciderne più che potremo, è vero, Tangusa?

– Sì, signor Yanez, – rispose il meticcio.

– Padada, – disse il portoghese, – sai tu che la fattoria di Pangutaran sia già assediata?

– Non lo credo, signore, avendo il pellegrino radunate quasi tutte le sue forze per schiacciare prima voi.

– Dunque la via che va dall’imbarcadero al kampong di Tremal-Naik può essere libera.

– O almeno poco guardata.

– Quanto ti ha dato il pellegrino perchè tu mandassi la mia nave sui banchi e me la incendiassi?

 

– Cinquanta fiorini e due carabine.

– Io te ne darò duecento se tu mi guidi al kampong.

– Accetto, signore, – rispose il malese, – e avrei accettato anche senza alcun compenso, dovendovi la vita.

– Siamo ancora lontani dall’imbarcadero?

– Fra un paio d’ore vi giungeremo, è vero? – disse Tangusa guardando il malese.

– Fors’anche prima.

Yanez sciolse le corde che stringevano le mani del prigioniero e uscì, dicendo:

– Saliamo in coperta.

Sul fiume regnava ancora una gran calma e le acque si svolgevano tranquille, fra due rive coperte di superbe felci arborescenti, di belle piante di cycas, di pandanus, di casuarine e di palme, che spiegavano a ventaglio le loro gigantesche foglie piumate.

Fra i rotangs che cadevano in festoni lungo i tronchi degli alberi, vi erano delle siamang, quelle orride scimmie nere che hanno la fronte bassissima, gli occhi infossati, la bocca enorme, il naso piatto e sotto la gola un lungo gozzo che pende come una vescica gonfia, le quali saltellavano di ramo in ramo, senza dimostrare alcuna preoccupazione. In acqua invece nuotavano fra le erbe, numerose bewah, quelle gigantesche lucertole semi-acquatiche che raggiungono sovente i due metri di lunghezza. Dei dayaki nessun indizio. Se fossero stati vicini, i quadrumani non avrebbero mostrato tanta tranquillità, essendo in generale estremamente diffidenti.

La Marianna, che s’avanzava assai lentamente aiutata anche dai remi, non potendo il vento soffiare troppo liberamente fra quelle due immense muraglie di verzura, continuò a salire indisturbata fino al mezzodì, poi si arrestò dinanzi ad una specie di piattaforma che s’avanzava nell’acqua sorretta da alcune file di pali.

– L’imbarcadero del kampong di Pangutaran, – avevano esclamato simultaneamente il pilota e Tangusa.

– Giù le àncore e accosta, – aveva comandato subito il portoghese. – Alle spingarde gli artiglieri.

Due ancorotti furono affondati e il veliero, spinto dalla corrente, andò ad appoggiarsi all’imbarcadero ai cui pali fu legato.

Yanez era salito sulla murata, per accertarsi meglio che nessun dayako si trovava imboscato su quella riva.

Che qui crudeli selvaggi vi fossero passati non vi era dubbio, potendosi scorgere a breve distanza dall’imbarcadero gli avanzi di parecchie capanne distrutte dal fuoco e una vasta tettoia semi-scoperchiata, coi pilastri anneriti dal fumo e dalle fiamme.

– Pare che non vi sia nessuno qui, – disse Yanez, volgendosi verso il meticcio che si era pure rizzato sulla murata.

– Non si aspettavano che noi giungessimo fino qui, – rispose Tangusa. – Erano troppo sicuri di poterci fermare e massacrare alla foce del fiume.

– Quanto distiamo dal kampong!

– Un paio d’ore, signor Yanez.

– Facendo tuonare i cannoni da caccia, Tremal-Naik potrebbe udirci?

– È probabile. Contate di partire subito?

– Sarebbe imprudenza. Aspettiamo la notte; passeremo più facilmente e forse senza essere veduti.

– Quanti uomini prenderemo?

– Non più di venti. Mi preme che la Marianna non rimanga troppo sprovvista. Se la perdessimo sarebbe finita, per tutti, anche per Tremal-Naik e per Darma.

Frattanto noi faremo una breve esplorazione nei dintorni, per accertarci che non ci si tenda qualche agguato. Questa tranquillità non mi rassicura affatto.

Fece mettere in batteria le spingarde e i pezzi, volgendoli verso l’imbarcadero, rizzando delle barricate formate con barili pieni di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti.

Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell’equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull’imbarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.

6. La carica degli elefanti

Una piccola radura, malamente dissodata, scorgendosi ancora i tronchi degli alberi spuntare dal suolo, si estendeva dinanzi all’imbarcadero e dietro agli avanzi di capanne e di tettoie risparmiate dall’incendio.

Al di là cominciava la grande e fitta foresta, composta per la maggior parte d’immense felci arboree, di cycas, di durion e di casuarine, e ingombra di rotangs di lunghezza smisurata che formavano delle vere reti.

Nessun rumore turbava il silenzio che regnava sotto quei maestosi alberi. Solo, di quando in quando, fra il fogliame udivasi un debole grido lanciato da qualche gek-kò, la lucertola cantatrice, o il pispiglio di qualche chalcostetha, quei piccolissimi uccelli dai colori brillanti a riflessi metallici che, in quelle isole malesi, tengono il posto dei tronchilichi americani.

Yanez ed i suoi uomini, dopo essere rimasti qualche tempo in ascolto, un po’ rassicurati da quella calma e dal contegno pacifico d’una coppia di scimmie buto sopra un banano, dopo aver fatto un giro intorno alle capanne, si inoltrarono verso la foresta, esplorandone i margini per una larghezza d’un mezzo miglio, senza trovare alcuna traccia dei loro implacabili nemici.

– Pare impossibile che siano scomparsi, – disse Yanez, a cui riusciva inesplicabile quell’improvvisa tregua dopo tanto accanimento. – Che abbiano rinunciato a tormentarci, dopo le batoste che hanno preso?

– Uhm! – fece il pilota. – Se il pellegrino aveva giurato la vostra perdita, ritengo che farà il possibile per avere le vostre teste.

– Mettici anche la tua nel numero, – disse il portoghese. – Torniamo a bordo e aspettiamo la notte.

Il ritorno lo compirono senza essere stati molestati, confermandosi vieppiù nella supposizione che i dayaki non fossero ancora giunti in quei dintorni.

Appena calato il sole, Yanez fece subito i preparativi della partenza. Vi erano ancora a bordo trentasei uomini, compresi i feriti.

Ne scelse quindici, non volendo indebolire troppo l’equipaggio il quale poteva, durante la sua assenza, venire assalito, e verso le nove, dopo aver raccomandato a Sambigliong la più attiva sorveglianza onde non si facesse sorprendere, ridiscendeva a terra con Tangusa, il pilota e la scorta.

Erano tutti formidabilmente armati, con carabine indiane di lungo tiro e parangs, quelle terribili sciabole che con un solo colpo decapitano un uomo, e ampiamente provvisti di munizioni, ignorando se Tremal-Naik ne avesse tante da poter reggere anche ad un assedio.

– Avanti e soprattutto fate meno rumore che sia possibile, – disse Yanez, nel momento in cui si cacciavano sotto i boschi. – Noi non siamo ancora sicuri di trovare la via sgombra.

Si volse indietro per dare un ultimo sguardo al veliero, la cui massa spiccava vivamente sulle acque del fiume, semi-confusa fra i vegetali che crescevano sulla riva e senza sapere il perchè, provò una stretta al cuore.

– Si direbbe che ho un brutto presentimento, – mormorò con inquietudine. – Che lo perda?

Scacciò l’importuno pensiero e si mise alla testa della scorta, preceduto di pochi passi dal meticcio e dal pilota, i soli che potessero orientarsi in mezzo a quel caos di enormi vegetali e fra le reti immense formate dai nepentes, dai gomuti e dai rotangs.

Come al mattino un silenzio profondo regnava sotto quella infinita volta di verzura, come se quella foresta fosse assolutamente priva di animali feroci e di selvaggina. Persino gli uccelli notturni, quei grossi pipistrelli pelosi, che sono così comuni nelle isole malesi, mancavano. Solo le lucertole cantanti, che sono per lo più notturne, facevano udire di tratto in tratto il loro lieve grido stridente.

Essendo il cielo coperto, un’afa pesante regnava sotto le immense foglie, incrociantisi strettamente a trenta o quaranta metri dal suolo.

– Si direbbe che minaccia un uragano, – disse Yanez che respirava con grande fatica.

– E scoppierà presto, signore, – rispose il meticcio. – Ho veduto il sole tramontare fra una nuvola nerastra e giungeremo appena a tempo al kampong.

– Se nessuno ci arresterà.

– Finora, signore, i dayaki non si sono mostrati.

– Purchè non li troviamo presso il kampong. Speriamo che abbiano levato l’assedio.

– Non saranno tanti da opporre una seria resistenza, almeno pel momento. Quelli che ci hanno aspettati alla foce del fiume forse non sono ancora tornati.

– Se tardassero solo ventiquattro ore, non li temerei più, – rispose Yanez. – La Marianna, con equipaggio rinforzato, diverrebbe imprendibile. Avrà molti difensori Tremal-Naik?

– Suppongo che abbia potuto raccogliere una ventina di malesi, signor Yanez.

– Avremo così un piccolo esercito che darà da fare a quel maledetto pellegrino. Affrettiamo il passo e cerchiamo di giungere al kampong prima che l’alba sorga.

La foresta non permetteva però che si avanzassero così rapidamente come avrebbero desiderato, essendo caduti in mezzo ad una antica piantagione di pepe che avvolgeva gli alberi in una rete assolutamente inestricabile.

Le grosse piante non erano riuscite a soffocare i sarmenti altissimi i quali, ripiegandosi verso il suolo e collegandosi coi rotangs ed i calamus o avvolgendosi intorno alle mostruose radici uscite dal suolo per mancanza di spazio, formavano un intrecciamento colossale che opponeva una solida resistenza.

– Mano ai parangs, – disse Yanez, vedendo che le due guide non riuscivano a passare.

– Faremo rumore, – osservò il pilota.

– Non ho già alcuna voglia di tornarmene indietro.

– I dayaki possono udirci, signore.

– Se ci assalgono li riceveremo come si meritano. Affrettiamoci.

A colpi di sciabola riuscirono ad aprirsi un varco e sempre sciabolando a destra ed a manca, continuarono ad inoltrarsi nell’interminabile foresta.

Marciavano da un’ora, lottando ostinatamente contro le piante, quando il pilota s’arrestò bruscamente, dicendo:

– Fermi tutti.

– I dayachì? – chiese sotto voce Yanez, che lo aveva subito raggiunto.

– Non lo so, signore.

– Hai udito qualche cosa?

– Dei rami scricchiolare dinanzi a noi.

– Andiamo a vedere, Tangusa, e voi tutti rimanete qui e non fate fuoco se io non vi do il segnale.

Si gettò a terra trovandosi dinanzi a un caos di radici e di sarmenti e si mise a strisciare verso il luogo dove il malese asseriva d’aver udito i rami scricchiolare.

Il meticcio gli si era messo dietro cercando di non far rumore.

Percorsero così una cinquantina di metri e s’arrestarono sotto le enormi corolle d’un fiore mostruoso, un crubul che aveva una circonferenza di oltre tre metri, e che tramandava un odore poco piacevole.

Essendovi intorno a quel fiore un po’ di spazio libero, era facile scoprire degli uomini che si avanzassero attraverso la foresta.

– Padada non si era ingannato, – disse Yanez, dopo essere rimasto qualche po’ in ascolto.

– Sì, qualcuno si avvicina, – confermò il meticcio.

– E questo cos’è? – chiese a un tratto Yanez.

In lontananza si udì in quel momento un rombo strano che pareva prodotto dall’avanzarsi di qualche furgone o d’un treno ferroviario.

– Non è il tuono, – disse il portoghese.

– Non lampeggia ancora, – disse Tangusa.

– Si direbbe che un fiume ha rotto gli argini e straripa.

– Non è caduta ancora una goccia d’acqua e poi il Kabatuan è lontano.

– Che cosa sarà?

– E s’approssima rapidamente, signore.

– Verso di noi?

– Sì.

– Taci!

Appoggiò un orecchio al suolo ed ascoltò nuovamente, trattenendo il respiro.

La terra trasmetteva nettamente quel rombo inesplicabile che pareva prodotto dal rapido avanzarsi di masse enormi.

– Non comprendo assolutamente nulla, – disse finalmente Yanez, rialzandosi. – È meglio che ci ripieghiamo verso la scorta; chissà che il pilota non ci spieghi questo mistero.

Sgusciarono sotto i giganteschi petali del crubul e rifecero il cammino percorso, scivolando fra gli infinti sarmenti.

Quando raggiunsero il luogo ove avevano lasciati i loro uomini, s’avvidero che anche la scorta era in preda ad una viva agitazione, udendosi anche là quel fragore. Solo Padada pareva tranquillo.

– Da che cosa proviene questo baccano? – gli chiese Yanez.

– È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo, signore, – rispose il pilota. – Saranno certamente moltissimi.

– Degli elefanti! E chi può aver spaventato quei colossi?

– Degli uomini, io credo.

– Che i dayaki si avanzino da ponente? È di là che il fragore viene.

– È quello che pensavo anch’io.

– Che cosa mi consigli di fare?

– Di allontanarci al più presto.

– Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via?

 

– È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati.

– Avanti dunque, – comandò il portoghese, con voce risoluta. – Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayaki.

Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotangs ed i calamus, mentre il fragore aumentava rapidamente d’intensità.

Il pilota doveva aver indovinato giusto. Fra il fracasso assordante prodotto dall’incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti. Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d’uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori.

Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta.

Yanez e i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi.

Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato.

Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente:

– Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono!

Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti.

Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perchè i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda.

Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante.

Non era che l’avanguardia quella, poichè pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli.

Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo.

Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole.

– Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! – aveva esclamato Padada.

Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli.

Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici.

– Non muovetevi e non fate fuoco! – aveva ripetuto precipitosamente Padada.

Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta, sempre perseguitati dai dayaki.

– Che siano cacciatori? – chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza.

– Che cacciavano noi, – rispose il malese. – La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l’imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti. Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c’incontrino sulla loro corsa e ci travolgano.

– Possiamo quindi rivederli ancora?

– È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran.

– Siamo lontani molto ancora?

– Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci nè orientare, nè correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell’alba.

– Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa.

– Quale, signore?

– Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali.

– Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahut siamesi o i cornac indiani, – disse Tangusa, che assisteva al colloquio.

– Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi.

– E si presteranno a quel giuoco?

– Continueranno a scappare finchè i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi.

– Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto!

Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta.

Fortunatamente le piante non crescevano così l’una presso all’altra ed i cespugli e i rotangs erano rari, sicchè potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato.

In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora, ora intenso ed ora più debole.

I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l’altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell’immensa foresta.

Padada e il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguìta dai pachidermi.

Dopo una buona mezz’ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poichè il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finchè cessò completamente.

– Ci credono ancora lontani dal kampong, – disse il pilota, dopo d’aver ascoltato per qualche po’. – Vanno a cercarci verso il Kabatuan.

– Quanta ostinazione in quei furfanti, – disse Yanez. – È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata.

– Eh, signor mio, – rispose Padada, – sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l’espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile.

– Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l’ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo.

– Rinunziate a sapere chi è quell’uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi?

– Non ho ancora pronunciato l’ultima parola, – rispose Yanez, con un sorriso. – Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l’indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi.

– Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano.

– Fra poco troveremo le prime piantagioni, – disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. – Se non m’inganno siamo presso il Marapohe.

– Che cos’è? – chiese Yanez.

– Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori!

– Che cosa c’è?

– Vedo dei fuochi brillare laggiù! – esclamò Tangusa.

Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale.

– Il kampong! – chiese.

– O un fuoco degli assedianti? – disse invece Tangusa.

– Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria?

– Prenderemo il nemico alle spalle, signore.

– Tacete, – disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi.

– Che cosa c’è ancora? – chiese Yanez, dopo qualche minuto.

– Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong si trova dinanzi a noi, signore.

– Attraversiamolo, – rispose Yanez risolutamente, – e piombiamo sugli assedianti a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.