Za darmo

Il re del mare

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– Gettalo su qualche branda e saliamo subito. Il cannoneggiamento diventa vivissimo.

Sambigliong alzò il pilota, che pareva non desse più alcun segno di vita, e lo adagiò su un tappeto, poi tutti e due salirono rapidamente sulla tolda, nel momento in cui i due cannoni da caccia tornavano a tuonare con tale fragore da far tremare tutto il veliero.

Il combattimento fra la Marianna e la flottiglia si era impegnato con grande ardore.

Le scialuppe doppie, che, come abbiamo detto, erano armate di lilà, si erano disposte su una fronte piuttosto larga, a destra e a sinistra del praho, onde dividere maggiormente il fuoco del veliero e si erano impegnate risolutamente a proteggere le altre imbarcazioni che, quantunque più piccole, portavano equipaggi più numerosi, riserbati certamente per l’attacco finale.

Gli spari si succedevano agli spari e le palle, quantunque tutte di piccolo calibro, fischiavano in gran numero sulla Marianna, smussando qualche pennone, forando le vele, maltrattando il sartiame e scheggiando le murate. Alcuni uomini erano stati già feriti e qualcuno ucciso, nondimeno gli artiglieri di Mompracem facevano freddamente il loro dovere, con una calma ed un sangue freddo meraviglioso.

Le spingarde, essendo ormai la distanza diminuita, avevano pure cominciato a tuonare, lanciando sulla flottiglia bordate di mitraglia, composta per la maggior parte di chiodi, che si piantavano nella pelle dei dayaki, facendoli urlare come scimmie rosse.

Nonostante quelle scariche formidabili, la flottiglia non cessava di avanzare. I dayaki, che sono generalmente coraggiosi non meno dei malesi e che non temono la morte, davano dentro ai remi furiosamente, mentre quelli che erano armati di fucile, mantenevano un fuoco vivissimo, quantunque poco efficace, non avendo molta pratica di quelle armi, che forse adoperavano per la prima volta.

Erano già giunte le scialuppe a cinquecento passi, quando il praho su cui si era concentrato il fuoco dei pezzi da caccia della Marianna, si coricò su un fianco.

Aveva ormai perduto i suoi due alberi, il bilanciere era stato fracassato di colpo da una palla tiratagli da Yanez e le sue murate erano state ridotte in così cattivo stato, che non esistevano quasi più.

– Smonta il mirim, Sambigliong! – gridò Yanez, vedendo una doppia scialuppa accostarsi al praho coll’evidente intenzione d’impadronirsi del pezzo d’artiglieria, prima che il piccolo veliero affondasse.

– Sì, comandante, – rispose il malese, che serviva al pezzo da caccia di babordo.

– E voi altri mitragliate l’equipaggio prima che venga raccolto, – aggiunse il portoghese, che dall’alto del cassero seguiva attentamente le mosse della flottiglia, senza levarsi dalle labbra la sigaretta.

Una bordata colpì il praho, bordata di pezzi da caccia e di spingarde, smontando il mirim il cui carrello fu fracassato di colpo e spazzando il ponte da prora a poppa, con un uragano di mitraglia che storpiò e ferì la maggior parte dell’equipaggio.

– Bel colpo! – esclamò il portoghese, colla sua flemma abituale. – Eccone uno che non ci darà più fastidio.

Il piccolo veliero non era ormai che un rottame che si empiva rapidamente d’acqua. Gli uomini che erano sfuggiti a quella tremenda bordata, si erano gettati in mare e nuotavano verso le scialuppe, mentre i pontoni tiravano furiosamente coi lilà con non troppa fortuna, quantunque la Marianna, colla sua mole ed immobilizzata come era, offrisse un ottimo bersaglio.

Ad un tratto il legno si capovolse bruscamente, rovesciando in acqua morti e feriti e rimase colla chiglia in aria.

Urla feroci s’alzarono dalle scialuppe, vedendo il praho andarsene alla deriva in quello stato.

– Gridate come oche, – disse Yanez. – Ci vuole ben altro per vincere le tigri di Mompracem, miei cari. Fuoco sulle scialuppe! Avanti, fucilieri! L’affare diventa caldo.

Sebbene privati del praho che col suo pezzo poteva contrabbattere i cannoni da caccia, la flottiglia aveva ripreso la corsa e s’avvicinava rapidamente alla Marianna.

Le tigri di Mompracem non facevano economia nè di palle nè di polvere. Colpi di cannone e di spingarda si alternavano a nutrite scariche di fucileria che facevano dei larghi vuoti fra gli equipaggi delle scialuppe e dei pontoni.

Quei vecchi guerrieri, che un giorno avevano fatto tremare gli inglesi di Labuan, che avevano vinto e rovesciato James Booke, il rajah di Sarawak, e che avevano distrutti, dopo formidabili combattimenti, i terribili thugs indiani, si difendevano con accanimento ammirabile, senza nemmeno prendersi la briga di ripararsi dietro i bordi.

Anzi, sprezzanti d’ogni pericolo, nonostante i consigli del portoghese che ci teneva a conservare i suoi uomini, erano saliti tutti sulle murate per mirare meglio e di là, e anche dalle coffe, facevano un fuoco infernale sulle scialuppe, decimando crudelmente i loro equipaggi.

Gli assalitori però erano così numerosi, che quelle gravi perdite non li scoraggiavano. Altre scialuppe, uscite dal fiume, avevano raggiunta la flottiglia e anche quelle cariche di guerrieri. Erano almeno trecento selvaggi, sufficientemente armati, che muovevano all’abbordaggio della Marianna, risoluti, a quanto pareva, ad espugnarla e massacrare i suoi difensori fino all’ultimo, non potendosi sperare quartiere da quei barbari sanguinari che non hanno che un solo desiderio: quello di fare raccolta di crani umani.

– La faccenda minaccia di diventare seria, – mormorò Yanez, vedendo quelle nuove scialuppe. – Tigrotti miei, date dentro più che potete o noi finiremo per lasciare qui le nostre teste. Quel cane d’un pellegrino li ha fanatizzati per bene e li ha fatti diventare idrofobi.

S’accostò al pezzo da caccia di tribordo, che in quel momento era stato scaricato e allontanò Sambigliong che stava pigliando la mira.

– Lascia che mi scaldi un po’ anch’io, – disse. – Se non sfasciamo i pontoni e mandiamo in acqua i loro lilà, fra tre minuti saranno qui.

– Le spine li tratterranno, capitano.

– Eh, non so, mio caro. I loro kampilang avranno buon gioco.

– Ed i nostri gabbieri non ne avranno meno colle loro granate.

– Sia, ma preferisco che non giungano qui.

Diede fuoco al pezzo e, come al solito, non mancò il colpo. Uno dei pontoni, formati da due scialuppe riunite da un ponte, andò a catafascio. Le prore, spaccate a livello d’acqua, in un momento si riempirono ed il galleggiante affondò.

Un secondo fu pure gravemente maltrattato, ma al terzo colpo di cannone sparato da Yanez le scialuppe erano già quasi sotto.

– Impugnate i parangs e portate le spingarde a poppa! – gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. – Sgombrate la prora!

In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d’acciaio irte di punte sottilissime.

I dayaki, resi furiosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso.

Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini.

– Stringete le file attorno alle spingarde! – gridò.

I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all’abbordaggio.

Le canne dei fucili e delle carabine indiane erano diventate così ardenti che scottavano le mani dei tiratori.

I dayaki arrivavano, inerpicandosi come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori.

Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta.

Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso, erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull’albero istesso.

Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria.

– Dentro colle spingarde! – gridò Yanez che li aveva lasciati fare.

Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello.

Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto.

Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti.

I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti sangue.

La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle tigri di Mompracem.

Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d’acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare.

Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, lanciando intorno frammenti di metallo.

I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un’altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe.

 

– Pare che ne abbiano finalmente abbastanza, – disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. – Ciò v’insegnerà a temere le vecchie tigri di Mompracem.

La disfatta degli isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più.

Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume.

– Se ne sono andati, – disse Yanez. – Speriamo che ci lascino tranquilli.

– Ci aspetteranno nel fiume, signore, – disse Sambigliong.

– E vi daranno nuovamente battaglia, – aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze.

– Lo credi? – chiese il portoghese.

– Ne sono certo, signore.

– Daremo loro un’altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d’importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong?

– Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purchè il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo.

– Quanti uomini abbiamo perduto? – chiese Yanez a Kickatany, il malese che funzionava da medico a bordo.

– Ve ne sono otto nell’infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti.

– Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! – esclamò Yanez. – Orsù, così è la guerra, – aggiunse poi con un sospiro.

Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine:

– La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.

3. Sul Kabatuan

L’acqua già da cinque ore continuava a montare nella baia e a poco a poco aveva coperto interamente il banco, su cui la Marianna si era incagliata.

Era quindi quello il buon momento per cercare di liberarsi e la cosa non sembrava dovesse essere molto difficile, poichè i marinai avevano rimarcato un leggero spostamento della ruota di prua. Il veliero non galleggiava ancora; tuttavia nessuno disperava di riuscire a levarlo da quel cattivo passo, aiutandolo con qualche sforzo.

Sbarazzata la coperta dei cadaveri che la ingombravano, essendo molti dayaki caduti sul castello di prora sotto le micidiali scariche delle spingarde ed a mezza nave, e, ricollocate nelle casse le pericolosissime palle d’acciaio, che avevano arrestato così bene l’attacco dei bellicosi isolani, i Tigrotti di Mompracem si misero alacremente all’opera sotto la direzione di Yanez e di Sambigliong.

Furono gettati due ancorotti a sessanta passi dalla poppa, su un buon fondo e le gomene passate all’argano onde trarre indietro la nave ed aiutare l’azione della marea, poi le vele furono girate in modo che la spinta del vento avvenisse non più verso la prora.

– All’argano, ragazzi! – gridò Yanez, quando tutto fu pronto. – Noi ci leveremo presto di qui.

Già qualche scricchiolo si era udito sotto la ruota, segno evidente che l’acqua tendeva, aumentando sempre, a sollevare la carena.

Dodici uomini si erano precipitati verso l’argano, mentre altrettanti si erano gettati sulle funi collegate ai due ancorotti, affinchè lo sforzo fosse maggiore, e, al comando del portoghese, i primi avevano cominciato a spingere energicamente le aspe.

Avevano dato appena quattro o cinque giri all’argano, quando la Marianna scivolò, per modo di dire, sul banco su cui s’appoggiava, virando lentamente sul tribordo, per l’azione del vento che gonfiava fortemente le due immense vele.

– Eccoci liberi! – aveva esclamato Yanez, con voce giuliva. – Forse sarebbe bastata la sola marea a trarci di qui. Che bella sorpresa pel pilota, quando si risveglierà. Salpate gli ancorotti, contrabbracciate le vele e avanti, diritti verso il fiume.

– Lo imboccheremo senza attendere l’alba? – chiese Sambigliong.

– È largo e profondo, mi ha detto Tangusa, e non è interrotto da banchi, – rispose Yanez. – Preferisco attraversare la foce ora e sorprendere i dayaki, che non s’aspettano di certo di vederci così presto.

Con uno sforzo poderoso i marinai dell’argano avevano strappati dal fondo i due ancorotti, mentre i gabbieri avevano orientato rapidamente le due vele e i fiocchi del bompresso. Tangusa, che non aveva lasciata la tolda, si era messo alla barra del timone, essendo il solo che conoscesse la foce del Kabatuan.

– Conducici solamente entro il fiume, mio bravo ragazzo, – gli aveva detto Yanez. – Poi penseremo noi a guidare la Marianna e tu andrai a riposarti.

– Oh signore, non sono già un fanciullo, – aveva risposto il meticcio, – per aver bisogno d’un immediato riposo. Quel balsamo prodigioso, sparso sulle mie ferite da Kickatany, mi ha calmato i dolori.

– Ah! – esclamò ad un tratto Yanez, mentre la Marianna, girato prudentemente il banco, s’avanzava verso il fiume, – tu non mi hai ancora narrato come sei caduto nelle mani dei dayaki e il perchè ti hanno martirizzato.

– Non mi avevano lasciato il tempo, quei furfanti, di finire di raccontarvi la mia triste avventura, – rispose il meticcio forzandosi a sorridere.

– Venivi dal kampong di Tremal-Naik, quando ti catturarono?

– Sì, signor Yanez. Il mio padrone mi aveva incaricato di raggiungere le rive della baia per guidarvi sul fiume.

– Era certo dunque che noi non avremmo indugiato ad accorrere in suo aiuto.

– Non ne dubitava, signore.

– Dove sei stato sorpreso?

– Sulle isolette della foce.

– Quando?

– Due giorni or sono. Alcuni uomini che avevano lavorato nelle piantagioni del kampong mi avevano subito riconosciuto, sicchè assalirono senza indugio il mio canotto e mi fecero prigioniero. Dovevano essersi immaginati che Tremal-Naik mi aveva mandato alla costa per attendere qualche soccorso, perchè mi sottoposero ad un lungo interrogatorio, minacciando di accopparmi se non rivelavo loro lo scopo della mia gita. Siccome rifiutavo ostinatamente di rispondere, quei miserabili mi gettarono in una buca che era prossima ad un formicaio, mi legarono per bene, poi mi fecero sul corpo alcune incisioni onde il sangue uscisse.

– Briganti!

– Voi sapete, signor Yanez, quanto sono avide di carne le formiche bianche. Attirate dall’odore del sangue non tardarono ad accorrere a battaglioni e cominciarono a divorarmi, vivo, pezzetto a pezzetto.

– Un supplizio degno di selvaggi.

– E che durò un buon quarto d’ora facendomi provare tormenti spaventevoli. Fortunatamente quegli insetti si erano gettati anche sulle corde che mi legavano le braccia e le gambe e non tardarono a rosicchiare anche quelle, essendo state spalmate d’olio di cocco onde, disseccandosi, mi stringessero vieppiù.

– E tu, appena libero, scappasti? – disse Yanez.

– Ve lo potete immaginare, – rispose il meticcio. – Essendosi i dayaki allontanati, mi gettai nella vicina foresta, raggiunsi il fiume e avendo trovato sulla riva un canotto munito d’una vela, presi senza indugio il largo, avendo già scorto in lontananza il vostro veliero.

– Sei stato però ben vendicato!

– E ne sono lieto, signor Yanez. Quei selvaggi non meritano compassione. Oh!

Quell’esclamazione gli era sfuggita, scorgendo alcuni fuochi che brillavano sulle coste delle isolette che formavano la barra del fiume.

– I dayaki vegliano, signor Yanez, – disse.

– Lo vedo, – rispose il portoghese. – Possiamo passare al largo, senza essere veduti?

– Prenderemo l’ultimo canale, – rispose il meticcio, dopo d’aver osservato attentamente la foce del fiume. – In quella direzione non vedo brillare alcun fuoco.

– Vi sarà acqua bastante?

– Sì, ma vi sono dei banchi colà.

– Ah! diavolo!

– Non temete, signor Yanez. Conosco benissimo la foce e spero di farvi entrare nel Kabatuan senza malanni.

– Noi intanto prenderemo le nostre precauzioni per respingere qualsiasi attacco, – rispose il portoghese, avvicinandosi verso il castello di prora.

La Marianna, spinta da una leggera brezza di ponente, scivolava dolcemente, come se appena sfiorasse l’acqua, accostandosi sempre più alla foce del fiume.

La marea che montava ancora doveva facilitare l’entrata, risalendo per un buon tratto il Kabatuan.

L’equipaggio, eccettuati due o tre uomini incaricati della cura dei feriti, era tutto in coperta, al posto di combattimento, non essendo improbabile che i dayaki, nonostante la terribile sconfitta, tentassero nuovamente un abbordaggio o aprissero il fuoco tenendosi nascosti fra i boschetti che coprivano le isole.

Tangusa che teneva la barra e che, come abbiamo detto, conosceva a menadito la baia, guidò la Marianna in modo da tenerla lontana dai fuochi che ardevano presso le scogliere e che dovevano dominare gli accampamenti dei nemici, poi con un’abile manovra la spinse dentro un canale piuttosto stretto che s’apriva fra la costa ed un isolotto, senza che alcun grido d’allarme fosse partito nè da una parte nè dall’altra.

– Siamo nel fiume, signore, – disse a Yanez, che lo aveva raggiunto.

– Non ti sembra un po’ strano che i dayaki non si siano accorti della nostra entrata?

– Forse dormivano della grossa e non sospettavano che noi potessimo trarci così felicemente dal banco.

– Uhm! – fece il portoghese, scuotendo il capo.

– Dubitate?

– Io ritengo che ci abbiano lasciati passare per darci battaglia sull’alto corso del fiume.

– Può darsi, signor Yanez.

– Quando potremo giungere?

– Non prima di mezzodì.

– Quanto dista il kampong dal fiume?

– Due miglia.

– Di foresta, probabilmente.

– E folta, signore.

– Peccato che Tremal-Naik non abbia fondata la sua principale fattoria sul fiume. Noi saremo costretti a dividere le nostre forze. È bensì vero che i miei Tigrotti si battono splendidamente sia sui ponti dei loro prahos, che a terra.

– Saliamo dunque, signore? Il vento è favorevole e la marea ci spingerà per qualche ora ancora.

– Avanti e bada di non mandare la Marianna in secco.

– Conosco troppo bene il fiume.

– Il veliero superò una lingua di terra che formava la barra del fiume e rimontò la corrente, spinto dalla brezza notturna che gonfiava le sue enormi vele.

Quel corso d’acqua, che è ancora oggidì poco noto, in causa della continua ostilità dei dayaki che non risparmiano nemmeno le teste degli esploratori europei, era largo un centinaio di metri e scorreva fra due rive piuttosto alte, coperte da manghi, da durion e da alberi gommiferi. Nessun fuoco si vedeva brillare sotto gli alberi, nè si udiva alcun rumore che indicasse la presenza di quei formidabili cacciatori di teste.

Solo di quando in quando nelle acque, che dovevano essere profonde, echeggiava un tonfo prodotto dall’improvvisa immersione di qualche gaviale addormentato a fior d’acqua, che la massa del veliero aveva spaventato. Quel silenzio tuttavia non rassicurava affatto Yanez, il quale anzi raddoppiava la vigilanza, cercando di scoprire qualche cosa sotto la fosca ombra degli alberi.

– No, – mormorava, – è impossibile che noi abbiamo potuto passare inosservati. Deve succedere qualche cosa; fortunatamente conosciamo il nemico e non ci coglierà di sorpresa.

Era trascorsa una mezz’ora, senza che nulla fosse accaduto di straordinario, ed il portoghese cominciava a rassicurarsi, quando, verso il basso corso del fiume, si vide una linea di fuoco alzarsi al di sopra dei grandi alberi.

– Toh! un razzo! – aveva esclamato Sambigliong, che aveva potuto scorgerlo prima che si spegnesse.

La fronte di Yanez si era abbuiata.

– Come mai questi selvaggi posseggono dei razzi di segnalazione? – si chiese.

– Capitano, – disse Sambigliong, – ciò è una prova che in tutta questa faccenda vi è lo zampino degli inglesi. Questi ignoranti non li hanno mai conosciuti prima d’ora.

– O che li abbia portati quel pellegrino misterioso.

– Là, guardate, comandante: si risponde.

Yanez si era vivamente voltato verso la prora ed a una notevole distanza, verso l’alto corso del fiume, invece, aveva veduto spegnersi in cielo un’altra linea di fuoco.

– Tangusa, – disse, volgendosi verso il meticcio, che non aveva abbandonata la barra. – Pare che si preparino a farci passare una brutta notte, gli ex coltivatori del tuo padrone.

– Lo sospetto anch’io, signore, – rispose il meticcio.

In quell’istante verso prora si udirono delle esclamazioni.

– Lucciole!

– O fuochi?

 

– Guarda lassù.

– Brucia il fiume!

– Signor Yanez! Signor Yanez!

Il portoghese in pochi salti fu sul castello di prora, dove si erano già radunati parecchi uomini dell’equipaggio.

Tutto l’alto corso del fiume, che scendeva in linea quasi retta con leggeri serpeggiamenti, appariva coperto da miriadi di punti luminosi che ora si raggruppavano ed ora si disperdevano, per riunirsi poco dopo in linee ed in macchie foltissime.

Yanez era rimasto talmente sorpreso, che stette per qualche minuto silenzioso.

– Qualche fenomeno, capitano? – chiese Sambigliong. – È impossibile che quelle siano lucciole.

– Nemmeno io lo credo, – rispose finalmente Yanez, la cui fronte si abbuiava sempre più.

Tangusa che aveva affidato momentaneamente la barra a uno dei timonieri, era pure accorso, allarmato da quelle esclamazioni.

– Sapresti dirmi di che cosa si tratta? – chiese Yanez, vedendolo.

– Quelli sono fuochi che scendono il fiume, signore, – rispose il meticcio.

– È impossibile! Se ognuno di quei punti luminosi segnalasse una barca, ve ne dovrebbero essere delle migliaia e non credo che i dayaki ne posseggano tante, nemmeno riunendo tutte quelle che si trovano sui fiumi bornesi.

– Eppure sono fuochi, – replicò Tangusa.

– Accesi dove?

– Non so, signore.

– Su dei tronchi d’albero?

– Non saprei dirvelo.

– Il fatto è che quei fuochi s’avvicinano, capitano, e che la Marianna potrebbe correre il pericolo d’incendiarsi.

Yanez lanciò un «per Giove!» tuonante che fece stupire Sambigliong, che non l’aveva mai veduto prima d’allora uscire dai gangheri.

– Che cos’hanno preparato quelle canaglie? – esclamò il bravo portoghese.

– Capitano, prepariamo per maggior precauzione le pompe.

– E arma i nostri uomini di buttafuori e di manovelle per allontanare quei fuochi. Questi maledetti selvaggi cercano d’incendiare la nostra nave. Su lesti, Tigrotti miei: non vi è tempo da perdere.

Quelle centinaia e centinaia di punti luminosi ingrandivano a vista d’occhio, trascinati dalla corrente e coprivano un tratto immenso di fiume.

Scendevano a gruppi, danzando con un effetto meraviglioso, che in altre occasioni Yanez avrebbe certamente ammirato, ma non in quel momento. Giravano su loro stessi, seguendo i gorghi, formando delle linee circolari e delle spirali, che poi bruscamente si rompevano, oppure delle linee rette che poi diventavano delle serpentine.

Un gran numero filava lungo le rive; molti invece, anzi i più danzavano in mezzo, essendo la corrente ivi più rapida.

Dove posassero nessuno poteva dirlo, essendo la notte oscura, anche a causa dell’ombra proiettata dalle piante altissime che coprivano le rive. Certo però dovevano ardere su dei minuscoli galleggianti.

Tutto l’equipaggio, armatosi frettolosamente di buttafuori, di pennoni, di aste e di manovelle, si era disposto lungo i fianchi della Marianna per allontanare quei fuochi pericolosi. Alcuni erano scesi nella rete delle dolfiniere del bompresso e nelle bancazze per poter meglio agire.

– Sempre in mezzo al fiume! – aveva gridato Yanez a Tangusa, che aveva ripresa la barra del timone. – Se prenderemo fuoco, faremo presto a poggiare sull’una o sull’altra riva.

La flottiglia giungeva a ondate, correndo addosso alla Marianna la quale s’avanzava lentamente essendo il vento debolissimo.

– Recatemi uno di quei fuochi, – disse Yanez ai malesi che si erano calati nella rete della dolfiniera, la cui estremità inferiore sfiorava quasi l’acqua.

Tutti i marinai si erano messi all’opera, vibrando furiosi colpi di buttafuori e di manovelle su quei fuochi galleggianti che ormai circondavano la Marianna.

Un malese, presone uno, lo aveva recato a Yanez. Si componeva d’una mezza noce di cocco, piena di bambace inzuppato d’una materia resinosa e attaccaticcia che ardeva meglio dell’olio vegetale, di cui fanno ordinariamente uso i bornesi al pari dei siamesi.

– Ah! Bricconi! – aveva esclamato il portoghese. – Ecco una trovata meravigliosa che io non avrei mai immaginata! Come sono diventati furbi, da un momento all’altro, questi dayaki! Tigrotti, date dentro a tutta lena; se questo cotone s’attacca ai madieri, arrostiremo come anitre allo spiedo.

Aveva gettato via il guscio di cocco e si era slanciato a prora, dov’era maggiore il pericolo, perchè quei fuochi investendo il tagliamare si rovesciavano in gran numero e la materia attaccaticcia e resinosa ond’era imbevuto il cotone poteva attaccarsi al fasciame, dove avrebbe trovato buon alimento nel catrame che lo copriva.

I Tigrotti, che avevano compreso il gravissimo pericolo che correva il veliero, non risparmiavano i colpi. Specialmente quelli che si trovavano nella rete della dolfiniera ed a cavalcioni delle trinche, avevano un bel da fare a rovesciare quei minuscoli galleggianti, che giungevano sempre a ondate, scivolando e capovolgendosi lungo i fianchi della Marianna. Tuttavia dei fuochi di cotone di quando in quando s’appiccicavano al fasciame, ed il catrame subito prendeva fuoco, sviluppando un fumo denso ed acre.

Guai se quel legno avesse avuto un equipaggio poco numeroso! Le tigri di Mompracem fortunatamente erano bastanti per sorvegliare tutti i bordi e, quando il fuoco cominciava a manifestarsi, le pompe lo spegnevano di colpo con un abbondante getto d’acqua.

Quella strana lotta durò una buona mezz’ora, poi i pericolosi galleggianti cominciarono a diradarsi e finalmente cessarono di sfilare, scomparendo verso il basso corso del fiume.

– Che ci preparino ora qualche altra sorpresa? – disse Yanez che aveva raggiunto il meticcio. – Vedendo il loro criminoso tentativo andato a male, escogiteranno qualche cosa d’altro. Che cosa ne dici, Tangusa?

– Che noi non giungeremo all’imbarcadero del kampong, senza che i dayaki ci diano una seconda battaglia, signor Yanez, – rispose il meticcio.

– La preferirei a qualche altra sorpresa, mio caro. Finora però non vedo alcuna scialuppa.

– Non siamo ancora giunti, anzi tarderemo assai con questo vento così debole. Se non aumenta, invece del mezzodì dovremo faticare fino alla sera di domani.

– E ciò mi rincrescerebbe. Ohè, Tigrotti, aprite gli occhi e tenete le armi in coperta. I tagliatori di teste ci spiano di certo.

Accese una sigaretta e si sedette sul capo di banda di poppa, per meglio sorvegliare le due rive.

La Marianna, sfuggita miracolosamente a quel secondo pericolo, s’avanzava sempre più lenta, essendo scemata la brezza.

Nessun rumore si udiva sulle rive, che erano sempre coperte da alberi immensi che stendevano i loro rami mostruosi sul fiume, rendendo maggiore l’oscurità, eppure nessuno dubitava che degli occhi seguissero nascostamente il veliero.

Era impossibile che i dayaki, dopo quel tentativo che per poco non riusciva, avessero rinunciato all’idea di distruggere quella piccola sì, ma poderosa nave che aveva inflitto loro quella sanguinosa sconfitta.

Altre cinque o sei miglia erano state guadagnate, senza che alcun nuovo avvenimento fosse accaduto, quando Yanez scorse, sotto le foreste, scintillare dei punti luminosi che apparivano e scomparivano con grande rapidità.

Pareva che degli uomini muniti di torce corressero disperatamente fra gli alberi, scomparendo subito in mezzo ai cespugli. Poi dei sibili si udivano in varie direzioni che non dovevano essere mandati da serpenti.

– Sono segnali, – disse il meticcio, prevenendo la domanda che Yanez stava per rivolgergli.

– Non ne dubitavo, – rispose il portoghese, che ricominciava ad inquietarsi. – Che cosa ci prepareranno ora?

– Una sorpresa non migliore dell’altra di certo, signore. Ci vogliono impedire a qualunque costo di giungere all’imbarcadero.

– Comincio ad averne le tasche piene, – disse Yanez. – Almeno si mostrassero e ci attaccassero risolutamente.

– Sanno che siamo forti e che non manchiamo di artiglierie, signore, ed un assalto diretto non lo tenteranno.

– Eppure sento per istinto che quei bricconi preparano qualche cosa contro di noi.

– Non dico il contrario e vi consiglierei di non far disarmare le pompe.

– Temi che ci mandino addosso un’altra flottiglia di noci di cocco?

Invece di rispondere, il meticcio si era vivamente alzato, dando un colpo di barra al timone.

– Siamo al passo più stretto del fiume, signor Yanez, – disse poi. – Prudenza o daremo dentro a qualche banco.