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Il re del mare

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– Sembrano due trasporti, – disse Yanez. – Ascolta, Sandokan.

Dai frapponti illuminati, s’alzavano rulli di tamburi, squilli di trombe e dei canti. Pareva che dei soldati si divertissero, approfittando della splendida serata e della tranquillità del mare. Il vento che soffiava da settentrione portava quei clamori fino sul ponte del Re del Mare.

– Sono soldati inglesi di Labuan che tornano in patria, – disse Yanez. – Odi, Sandokan? Noi abbiamo udito ancora queste canzoni negli accampamenti inglesi dell’India, durante l’assedio di Delhi.

– Sì, sono soldati, – rispose la Tigre della Malesia con strano accento. – Ridono e salutano la patria lontana e la morte invece sta per piombare su di loro.

– Non parlare così, amico.

– E non pensi tu, Yanez, che quegli uomini m’hanno cacciato dall’isola, dopo d’aver fatto strage dei miei prodi?

Si era rizzato in tutta la sua altezza, col viso animato da una collera terribile, gli occhi fiammeggianti. L’antico pirata, la formidabile Tigre della Malesia che per tanti anni aveva bagnato di sangue quei mari, si risvegliava.

– Sì, ridete, cantate, intrecciate danze: sono danze funebri! Domani, ai primi albori, le vostre risa vi si geleranno sulle labbra. Troppo presto avete dimenticato il mio piccolo popolo, soppresso e sgozzato sulle spiagge della mia isola. Il vendicatore è qui e vi spia!

Il Re del Mare, virato di bordo, si era messo a seguire silenziosamente le due navi, tenendosi ad una distanza di un miglio.

Ormai non potevano più sfuggire, non potendo gareggiare con un camminatore di quella forza. Avrebbero potuto bensì poggiare verso le Romades, che erano allora vicinissime e tentare di gettarsi verso la costa, ma anche in tale caso non sarebbero riuscite a salvarsi.

Sandokan, curvo sulla murata, non staccava gli sguardi da loro. Pareva calmo, eppure terribili pensieri di vendetta, di stragi, di sangue, dovevano tormentare ancora il suo cervello.

– Chi m’impedirebbe, – disse ad un tratto, – di piombare come un avvoltoio su di esse e mandarle fracassate a fondo, a colpi di sperone? E non sarei nel mio diritto? Il mare custodisce bene i segreti che gli si affidano e più nessuno saprebbe nulla!

– Non lo farai, per umanità, Sandokan, – disse Yanez.

– Umanità! Parola vuota di senso in guerra. Forse che gli inglesi se ne sono ricordati, quando decretavano a sangue freddo la conquista della nostra isola e l’esterminio del nostro piccolo popolo?

Che cosa rimangono oggi delle Tigri di Mompracem? Di quelle Tigri che resero a questi inglesi un così grande servigio, liberandoli dalla infame setta dei thugs? Per riconoscenza quegli avidi cenciaiuoli degli oceani ci hanno carpito a tradimento la nostra isola, assalendoci di notte, dieci volte superiori, come se noi fossimo belve feroci, e tu Yanez, parli d’umanità! Credi tu che se domani una squadra inglese piombasse su di noi o sui nostri prahos, ci risparmierebbe? No, ci colerebbe a fondo e ci manderebbe a dormire il sonno eterno negli abissi del mare della Malesia.

– Noi potremmo difenderci, Sandokan, disputare la vittoria, mentre quelle due navi nulla potrebbero opporre alle nostre formidabili artiglierie ed al nostro sperone.

– È vero, signor Yanez, – disse una voce dietro di loro.

Sandokan si era voltato impetuosamente e si trovò dinanzi a Darma.

– Tu l’approvi, perchè…

Non compì la frase, che doveva alludere all’amore della giovane coll’anglo-indiano.

– Che provino a difendersi anche essi, Darma, – disse poi, cambiando tono.

– Non lo potrebbero, signor Sandokan, – ribattè la giovane. – Forse vi sono su quelle due navi cinque o seicento poveri giovani che sospirano il momento di rivedere la loro patria e di abbracciare i loro vecchi genitori. Non fate piangere tante madri, voi che siete sempre stato generoso.

– Anche i miei uomini, le vecchie Tigri di Mompracem hanno pianto la notte che venivano cacciati dalla loro isola, – disse Sandokan, con ira repressa. – Piangano dunque le loro donne dell’Inghilterra.

Sandokan si era staccato dalla murata volgendosi verso le due torri di poppa dalle cui feritoie uscivano le estremità dei due grossi pezzi da caccia, minacciami l’orizzonte. Stava per aprire la bocca e far scatenare quei due mostri di bronzo, quando Darma posò la sua mano sulla bocca del formidabile pirata:

– Che cosa state per comandare, mio generoso protettore? – chiese l’anglo-indiana.

– Il segnale della strage. Io voglio mutare quei canti giocondi in un immenso urlo d’angoscia e di morte. Il mare apra i suoi baratri e inghiotta i conquistatori della mia isola.

– Non lo farete, signor Sandokan, – rispose Darma, con voce ferma. – Pensate che un giorno potreste venire assalito da forze superiori e vinto. Chi di noi risparmierebbero i vincitori?

– Mentre tu non devi dimenticarti, Sandokan, – aggiunse Yanez con voce grave, – che noi a bordo abbiamo due fanciulle, Surama, la prima donna che io abbia amata e questa fanciulla che per salvarla noi abbiamo intrapresa una guerra contro ai thugs e compiuti mille prodigi. Nemmeno esse sfuggirebbero alla rabbia dei vincitori. Vorresti tu, con questo atto inumano, renderle nostre complici?

– La Tigre della Malesia aveva incrociate le braccia, guardando ora Darma ed ora Surama, che s’avanzava lentamente in quel momento, scendendo dal ponte di comando. Il lampo terribile che poco prima gli balenava negli occhi, a poco a poco si spegneva.

Ad un tratto tese la mano a Yanez, senza parlare, scosse due o tre volte il capo, poi si mise a passeggiare, fermandosi di quando in quando a guardare le navi che continuavano la loro rotta, passando al largo delle Romades.

Il Re del Mare le seguiva sempre, mantenendo la distanza.

La notte trascorse senza che Sandokan avesse preso un momento di riposo. Aveva continuato a passeggiare in coperta, fra le torri, senza mai aprire bocca.

Quando però i primi albori cominciarono a diffondersi pel cielo, fece accelerare la marcia dell’incrociatore, comandando agli artiglieri di prendere i loro posti di combattimento.

Con una rapida manovra si portò a poche gomene dalle due navi e fece issare la sua bandiera, appoggiandola con un colpo in bianco.

Urla acutissime si erano alzate dai due trasporti, i cui ponti si erano gremiti di soldati, pallidi di terrore.

– Mettetevi in panna e arrendetevi a discrezione o vi affondo, – aveva fatto segnalare Sandokan. Nel medesimo tempo aveva fatto puntare le artiglierie sulle due navi, pronto a far eseguire alla lettera la minaccia.

12. Nelle acque di Sarawak

I due trasporti, che si vedevano nell’impossibilità di opporre qualsiasi resistenza, non possedendo che delle artiglierie leggere, affatto innocue pei poderosi fianchi del corsaro, avevano subito obbedito, abbassando le bandiere.

Sulle loro coperte regnava una confusione indescrivibile. I soldati, tre o quattrocento, credendo che l’incrociatore si preparasse ad affondarli, correvano all’impazzata pei ponti, affollandosi intorno alle scialuppe.

– Vi accordo due ore per sgombrare le navi, – aveva segnalato ancora il Re del Mare. – Dopo questo tempo aprirò il fuoco. Obbedite!…

Le isole Romades non erano lontane che due chilometri, mostrando le loro coste assolutamente deserte, con pochi alberi e fiancheggiate da numerosi banchi di sabbia e da scogliere.

I comandanti delle due navi, dopo un breve consiglio, avevano risposto:

– Cediamo alla forza, per risparmiare un inutile massacro.

Subito tutte le scialuppe disponibili erano state messe in acqua, cariche di soldati fino quasi al punto di affondare, perchè tutti vi si affollavano, per tema che il corsaro aprisse il fuoco.

Vedendo che alcuni portavano dei fucili, Sandokan, sempre inesorabile, aveva segnalato di gettarli in acqua o di ritornarli a bordo, minacciando, in caso contrario, di spazzar via le imbarcazioni.

Mentre si effettuava lo sbarco, fra grida, imprecazioni, minacce e dispute, il Re del Mare girava lentamente intorno alle due navi, colle artiglierie sempre puntate.

– Che cosa ne farai, dopo, di quei trasporti? – aveva chiesto Yanez.

– Li affonderemo, – aveva risposto freddamente Sandokan. – Il mare è pronto a ricevere anche questi.

– Che peccato non poterli rimorchiare in qualche porto!

– E dove? Non vi è alcun rifugio amico per le ultime tigri di Mompracem. Si direbbe che tutti gli stati del Borneo, dopo d’averci ammirati, hanno paura del leopardo inglese, – disse Sandokan con profonda amarezza.

– Non importa, ne faremo a meno e affideremo le prede al mare. Questo almeno non le rende più.

– Quanti tesori perduti inutilmente! – disse Darma.

– Così è la guerra, – rispose Sandokan, asciuttamente. – Yanez, ordina di mettere in acqua le scialuppe e di aprire i depositi del carbone. Il Re del Mare avrà una buona provvista di combustibile.

I soldati, le cui imbarcazioni avevano fatti già parecchi viaggi, si erano quasi tutti accampati sulla spiaggia più prossima, pronti a rifugiarsi nei boschi in caso di pericolo. Yanez fece imbarcare cinquanta uomini, bene armati e comandati da due quartiermastri, li mandò a occupare i due trasporti, prima che anche gli equipaggi li abbandonassero, onde evitare un tradimento.

Polvere a bordo ve ne doveva essere ed i comandanti inglesi potevano, prima di andarsene, collocare delle micce accese nella santabarbara e mandare all’aria i due trasporti ed insieme a loro i depositi di carbone che tanto premevano alle tigri di Mompracem.

Partito l’ultimo inglese, un altro drappello di malesi al comando di Kammamuri si recò a bordo delle due navi, per procedere allo scarico del combustibile e delle munizioni da guerra.

I soldati, dalla spiaggia, guardavano con ansietà le manovre dei pirati, stupiti di non vederli prendere a rimorchio i due legni, come avevano dapprima sospettato.

 

Tutto il giorno gli uomini di Sandokan lavorarono febbrilmente vuotando i pozzi ben forniti di combustibile.

Verso sera novecento tonnellate di carbone giacevano nei depositi del Re del Mare. I malesi ed i dayaki cadevano pel sonno e per la fatica eccessiva, ma ormai i pozzi dei due trasporti erano quasi vuoti.

– Ed ora, – disse Sandokan, – prendi, mare, le prede che ti offro. Quando anche noi coleremo a fondo, sii clemente.

Prima di abbandonare le due navi, i malesi avevano accese delle miccie presso i barili di polvere lasciati nelle santebarbare.

Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si erano appoggiati alla murata poppiera, guardando tranquillamente i due trasporti. Dinanzi, sul bastingaggio, avevano collocato un cronometro.

– Tre minuti, – disse ad un tratto Sandokan volgendosi verso i suoi compagni. – Ecco la fine!

Un momento dopo una formidabile esplosione rimbombava sul mare, seguìta a breve distanza da un’altra non meno assordante. Le due navi, squarciate dallo scoppio, affondavano rapidamente fra le urla furiose dei soldati e degli equipaggi, che si trovavano sulle coste dell’isola.

– Ecco la guerra, – disse Sandokan, con un sorriso sarcastico. – L’hanno voluta? Paghino!… E questo non è che un principio del dramma!

Quindi, volgendosi verso Yanez, aggiunse:

– Andiamo a Sarawak ora: quel golfo sarà il campo delle nostre future imprese e le prede laggiù saranno più abbondanti, che qui: lo vedrai.

Il Re del Mare abbandonava rapidamente i paraggi delle Romades, prendendo la corsa verso il sud. Colle carboniere piene, ed un sopraccarico di combustibile nella stiva, poteva sfidare alla corsa tutte le navi che gli alleati dovevano aver radunate nelle acque di Sarawak.

Il poderoso incrociatore che divorava miglia su miglia, due giorni dopo avvistava già il capo Tanjong-Datu, passando dinanzi alla medesima rada dove erasi rifugiata la Marianna. Nulla avendo incontrato in quei paraggi, riprese senza indugio la corsa verso il sudest, per raggiungere la foce del Sedang.

Sandokan voleva innanzi a tutto accertarsi se l’equipaggio della sua piccola nave era riuscito nella missione affidatagli, ossia di armare e di sollevare i suoi vecchi alleati, i dayaki dell’interno, che lo avevano così vigorosamente aiutato contro James Brooke, il famoso sterminatore dei pirati.

Quarant’otto ore dopo, il Re del Mare, che non aveva rallentata la sua velocità, avvistava il monte Matang, un picco colossale che si erge presso la costa di ponente dell’ampia baia di Sarawak e che lancia la sua vetta verdeggiante a duemila novecento e settanta piedi, e l’indomani navigava dinanzi alla foce del fiume che bagna la capitale del rajah.

Era il momento di aprire per bene gli occhi, poichè da un istante all’altro delle navi inglesi o del rajah di Sarawak potevano mostrarsi.

Certo la comparsa del corsaro doveva essere stata segnalata alle autorità di Sarawak ed i migliori incrociatori dovevano aver preso il largo, onde proteggere da un improvviso assalto le navi che lasciavano il fiume, dirette a Labuan o a Singapore, che potevano venire facilmente catturate o affondate dagli audaci pirati di Mompracem.

Perciò una rigorosa sorveglianza era stata ordinata a bordo dell’incrociatore. Giorno e notte dei gabbieri si tenevano costantemente sulle piattaforme superiori, muniti di cannocchiali di lunga portata, pronti a dare l’allarme nel caso che qualche colonna di fumo apparisse all’orizzonte.

Sandokan e Yanez, per maggiore precauzione, avevano anche comandato che dopo il calar del sole più nessun lume si accendesse a bordo, nemmeno nelle cabine che avevano le finestre sui bordi esterni, e nemmeno i fanali regolamentari. Volevano passare dinanzi la foce del Sarawak inosservati, per non farsi inseguire sulle coste orientali e compiere le loro operazioni senza venire disturbati.

Sentivano per istinto che li cercavano e che navi inglesi e del rajah dovevano scorazzare quei paraggi. Chissà, forse avevano indovinato le loro intenzioni o peggio ancora, qualcuno poteva averli informati dei loro progetti. Ed infatti, contrariamente alle loro abitudini, i due ex pirati apparivano assai preoccupati. Si vedevano passeggiare per delle ore intere sul ponte, colla fronte increspata, poi arrestarsi per interrogare, con una certa ansietà, l’orizzonte. Specialmente di notte abbandonavano di rado la coperta, accontentandosi di riposare solo poche ore dopo il levar del sole.

– Sandokan, – disse Tremal-Naik, quando già il Re del Mare aveva oltrepassata la seconda bocca del Sarawak di qualche dozzina di miglia, – mi sembri molto inquieto.

– Sì, – rispose la Tigre della Malesia, – non te lo nascondo, mio caro amico.

– Temi qualche incontro?

– Io sono certo di essere seguìto o preceduto, e un marinaio difficilmente s’inganna. Si direbbe che io senta odor di fumo e di fumo di carbon fossile.

– E da chi? Da squadre inglesi o da quelle del rajah?

– Di quelle del rajah non mi occupo troppo, perchè l’unica nave che poteva misurarsi colla mia, ora giace sventrata in fondo al mare.

– Quella di sir Moreland?

– Sì, Tremal-Naik. Le altre che possiede il rajah sono vecchi incrociatori di ordine secondario, che non valgono assolutamente nulla come navi da battaglia. È la squadra di Labuan che mi preoccupa.

– Sarà forte?

– Molto forte no, numerosa di certo. Potrebbe prenderci nel mezzo e crearci molti fastidi, quantunque io ritenga il nostro incrociatore così poderoso d’aver ragione di essa. I migliori, l’Inghilterra se li tiene in Europa.

– Sono ben lontani da noi, – disse Tremal-Naik.

– E chi mi assicura che non ne mandi alcuni a darci la caccia? Mi hanno detto che ve ne sono dei poderosi anche nell’India. Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gli inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana.

– E allora? – chiese Tremal-Naik.

– Faremo quello che potremo, – rispose Sandokan. – Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto.

– È sempre il carbone il nostro punto nero.

– Di’ il nostro lato debole, Tremal-Naik, perchè a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del sultanato.

– Quanto distiamo dal Sedang?

– Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca se taglieremo qualche legno.

Pareva che la fortuna proteggesse le ultime tigri di Mompracem, perchè poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate.

Il Re del Mare aveva quindi maggiori possibilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo.

Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti. Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l’attenzione della squadra.

L’incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava.

Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l’ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava.

Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate.

Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque.

La seconda foce del Sarawak doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d’un tratto si udì a echeggiare una sirena.

– Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre, – disse Yanez a Sandokan. – Sarà mercantile o da guerra?

– Suppongo che sia qualche avviso del rajah, – rispose la Tigre della Malesia. – Ci aspettavano?

– Fa’ puntare verso levante.

– Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare.

– Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan, – disse Tremal-Naik. – Quando potremo giungere alla foce del Sedang?

– Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez?

– Null’altro che nebbia, – rispose il portoghese.

– Non devieremo: tanto peggio per chi si caccerà sotto il nostro sperone.

Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa:

– Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato!

Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente.

Da tredici nodi era salita a quattordici all’ora, e non bastava ancora. L’ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici.

Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi.

Erano già trascorse due ore, quando tutto d’un tratto la nebbia s’illuminò come se un gran fascio di luce l’attraversasse.

Luce lunare non doveva essere, perchè assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l’immobilità. Veniva dall’est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque.

– Un fanale elettrico! – esclamò Yanez, trasalendo. – Ci si cerca.

– Sì, ci cercano, – disse Tremal-Naik. – Che siano in molti?

Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata.

Trascorsero alcuni minuti ancora.

– Macchina indietro! – tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia.

Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s’avanzò per due o trecento metri, poi s’arrestò lasciandosi cullare dall’onda larga del golfo.

Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all’incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce.

– Che la squadra di Sarawak si sia accorta della nostra presenza? – chiese Tremal-Naik.

– Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza, – disse Sandokan.

– Che cosa farai, Sandokan?

– Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d’una solidità tale che non si sconquasseranno per l’urto.

Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima.

D’improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell’incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud.

Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri.

– Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo!

La Tigre della Malesia aveva seguìto attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi nè retrocedere senza farsi scoprire. Con un gesto chiamò Yanez e l’ingegnere americano.

– Si tratta di forzare il passo, – disse. – Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato ben stivato?

– Assaliremo collo sperone? – chiese l’americano.

– Ne ho l’intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine.

– Bene, comandante, – rispose lo yankee. – I miei compatriotti non agirebbero diversamente in simile frangente.

– Sono tutti ai pezzi gli artiglieri?

– Sì, – rispose Yanez.

– Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo.

I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi.

Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l’ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto.

Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile.

– Tutti nelle batterie! – gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik.

Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia.

 

Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie.

L’incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi.

Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e fuoco.

Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l’est.

Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili.

– Pronti pel fuoco di bordata!… – gridò Yanez. – Per Giove!… E le fanciulle?

– Sono al sicuro nel quadro, – rispose Tremal-Naik.

– Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto, – disse Sandokan.

Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa.

La squadra nemica stava per piombare sull’incrociatore delle tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo.

Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell’incrociatore.

– Speronate! – gridò Sandokan con voce tuonante.

Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete.

Un rombo assordante, spaventevole, seguìto da urla d’angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare.

Lo sperone dell’incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso…

Il Re del Mare s’arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata. Le caldaie scoppiavano.

– Macchina indietro! – gridò l’ingegnere americano.

Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo.

La nave sventrata calava a fondo a vista d’occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio.

Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia.

Altre ombre pure apparivano a babordo e a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce.

– Fuoco accelerato! – comandò Yanez.

L’incrociatore s’infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguìto l’esempio, tempestando i nemici.

Gli inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili.

Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque schegge di metallo.

Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri.

Il Re del Mare nondimeno non s’arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa.

Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all’incrociatore.

È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l’antica torpediniera Horward. L’ingegnere americano, che conosce quell’arme micidiale, manda un grido:

– Badate, cercano di torpedinarci!

Sandokan e Yanez erano balzati fuori della torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altri navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l’asta.

– sir Moreland! – gridarono ad una voce.

Era infatti l’anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l’incrociatore.

– Arrestate quella scialuppa! – aveva gridato Sandokan.

– No, nessuno faccia fuoco! – urlò invece Yanez.

– Che cosa fai, fratello? – chiese la Tigre della Malesia, stupita.

– Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me.

A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez s’appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco.

La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull’incrociatore.

Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l’elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata.

– Buon viaggio, sir Moreland! – gli gridò il valente artigliere, con voce ironica.

L’anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle tigri di Mompracem queste parole:

– Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana!… V’aspetta nel golfo!…

L’incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia. Scaricò un’ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l’est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola:

– Viva la Tigre della Malesia!…