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Il re del mare

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14. La nave americana

La sconfitta delle tigri di Mompracem era oramai questione di minuti.

Il praho di Tremal-Naik, stretto dalla scialuppa a vapore e dalle due doppie barche, colla prora sgangherata che beveva acqua in quantità, era stato subito preso d’assalto nonostante la disperata resistenza dell’equipaggio e stava per scomparire negli abissi del mare.

Yanez, con una emozione facile a comprendersi, aveva veduto Tremal-Naik, Darma e pochi superstiti trascinati nella scialuppa a vapore, la quale aveva subito preso il largo verso il sud, filando velocemente senza più occuparsi della battaglia.

Sul secondo praho non rimanevano che sette uomini, mentre il giong ne aveva tre volte tanti e portava grossi pezzi in paragone all’unica e vecchia spingarda. Per di più le doppie barche accorrevano da tutte le parti per finirla ed aiutare il grosso veliero.

Non rimaneva che arrendersi o lasciarsi affondare. Già una bordata di mitraglia aveva fatto cadere a pezzi le due vele di giunchi, togliendo così a Yanez ogni speranza di poter raggiungere l’isola che si trovava ancora a otto o dieci gomene di distanza e di salvarsi sotto le folte foreste.

I sette valorosi nondimeno non avevano cessato di far fuoco, bruciando freddamente le loro ultime cartuccie. Il portoghese ne dava l’esempio, sparando senza posa, con una calma meravigliosa, senza levarsi dalle labbra la sua ultima sigaretta che si era promesso di finire prima di andarsene all’altro mondo.

Il giong, che aveva conservato tutte le sue vele, correva addosso al povero praho immobilizzato, per abbordarlo o per sfasciarlo con una vigorosa speronata. Aveva sospeso il fuoco delle sue artiglierie, giudicando inutile sprecare le munizioni, tanto era oramai sicuro di aver facilmente ragione su quel pugno di prodi.

– Su, tigri di Mompracem, – gridò Yanez, vedendo che l’equipaggio del veliero preparava i grappini d’abbordaggio. – Una scarica ancora e poi mano ai parangs! Saremo noi che salteremo sul ponte del giong.

Quei sette demoni che preferivano la morte alla resa, avevano scaricate le loro carabine ed impugnate le pesanti sciabole, quando una violenta detonazione rimbombò dietro di loro, propagandosi pel lontano orizzonte.

Un istante dopo una nuvola di fumo s’alzava sulla poppa del giong e l’albero maestro spaccato di colpo dallo scoppio di qualche obice, cadeva pesantemente in coperta, assieme all’immensa vela che portava, coprendo i combattenti come sotto un gigantesco sudario.

Yanez, sorpreso che qualcuno potesse accorrere in suo aiuto e proprio in quel momento, quando pareva che la fine fosse oramai prossima, si era vivamente voltato.

Una magnifica nave a vapore, di grandi dimensioni, formidabilmente montata da uomini vestiti di bianco, degli europei senza dubbio, girava in quel momento la punta settentrionale di Gaya, dirigendosi velocemente sul luogo della pugna.

– Amici, Tigrotti! Siamo salvi! – gridò mentre un secondo obice fracassava il timone del giong ed un terzo spaccava in due una delle scialuppe doppie.

Con un salto fu sulla murata poppiera e facendo porta-voce colle mani, gridò ripetutamente:

– A me, Europei!

Un quarto colpo di cannone, che aprì una falla enorme alla linea di galleggiamento del giong, fu la risposta; gli uomini che montavano quella superba nave dovevano essersi accorti che sui praho vi era un uomo bianco, un uomo appartenente alla loro razza che correva un estremo pericolo e, senza chiedere spiegazioni, cannoneggiavano bravamente il grosso veliero, che era invece montato da selvaggi.

Sul ponte di comando si vedevano alcuni ufficiali fare dei gesti, come per rassicurare il portoghese.

Le doppie scialuppe, vedendo avanzarsi quel colosso di ferro, si erano affrettate a scappare verso l’isola, abbandonando il giong alla sua sorte, tanto più che non avevano più nemmeno l’appoggio della scialuppa a vapore, scomparsa già verso il sud coi prigionieri.

Il veliero, colpito già da tre obici, si era inclinato su un fianco, imbarcando acqua per lo squarcio che doveva essere stato gravissimo. I suoi uomini, dopo d’aver scaricato i loro pezzi contro la nave, cominciavano a saltare in acqua per non venire attratti dal gorgo.

– Amici! – gridò Yanez. – Ai remi! Andiamo a cercare il pellegrino!

Mentre la nave a vapore metteva in acqua due scialuppe, montate da due dozzine d’uomini armati di carabine, i pirati di Mompracem, impadronitisi dei remi, spinsero il praho addosso al giong il quale cominciava ad immergersi.

A bordo non erano rimasti che dei morti e qualche ferito. Tutti gli altri nuotavano disperatamente verso l’isola, dove erano già giunte le scialuppe doppie.

Yanez, Kammamuri e Sambigliong si issarono rapidamente a bordo del veliero, slanciandosi verso il cassero dove supponevano si trovasse il pellegrino.

Non si erano ingannati. Il loro misterioso ed implacabile avversario, giaceva su una vecchia vela, coi pugni stretti sul petto, comprimendosi una ferita prodotta probabilmente dalla palla della carabina di Yanez. Non era morto, poichè appena si vide presso quei tre uomini, con uno scatto improvviso s’alzò sulle ginocchia e strappatesi dalla cintura una pistola dalla canna lunghissima, tentò di far fuoco. Kammamuri, a rischio di ricevere la scarica in pieno petto, gli si era gettato prontamente addosso, strappandogli l’arma.

– Credevo che fossi morto, – disse il maharatto, – ma giacchè ti ritroviamo ancora vivo, ti ricacceremo all’inferno.

Aveva volta l’arma contro il pellegrino e stava per fracassargli il cranio, quando Yanez gli trattenne il braccio.

– È più prezioso vivo che morto, – gli disse. – Non commettiamo la sciocchezza di finirlo. Sambigliong, prendi quest’uomo e portalo sul praho. Lesti; il giong affonda!

Il veliero continuava a inclinarsi sul fianco squarciato, minacciando di rovesciarsi. Yanez ed i suoi compagni saltarono sul praho, mentre una delle due scialuppe gettava un cavo per rimorchiarlo verso la nave, la quale erasi arrestata a due gomene di distanza.

Tutto l’equipaggio, che era piuttosto numeroso, era salito sulle murate del vapore, seguendo con viva curiosità l’opera di salvataggio.

– Sono europei! – aveva esclamato Yanez, appena ebbe terminato di far legare il pellegrino. – Che siano inglesi?

– Per lo meno parlano inglese, – disse Kammamuri, che aveva udito un comando dato dall’ufficiale che guidava la scialuppa.

– Sarebbe comica che dovessimo la nostra salvezza a dei nemici non meno accaniti dei dayaki.

Poi, con un profondo sospiro, aggiunse:

– E Tremal-Naik? E Darma? Che cosa sarà accaduto di loro? Ah! Mio Dio!

– La scialuppa a vapore è scomparsa verso il sud, signor Yanez.

– Non si è diretta verso la foce del Kabatuan? Sei proprio sicuro?

– Sicurissimo: non sono stati consegnati ai dayaki.

– Ma allora chi erano costoro? Dove li avranno condotti?

Una scossa lo interruppe. Il praho aveva urtato contro la piattaforma inferiore della scala che era stata subito abbassata.

Un uomo sui cinquant’anni, solidamente piantato, con una barbetta brizzolata tagliata a punta, che indossava una divisa di panno azzurro cupo con bottoni dorati ed un berretto con gallone, attendeva sulla piattaforma superiore.

Yanez pel primo balzò sui gradini e salì rapidamente, dicendo al comandante della nave, in inglese:

– Grazie, signore, del vostro aiuto. Ancora qualche minuto e la mia testa andava ad aumentare la collezione di quei terribili cacciatori di crani.

– Sono ben felice, signore, di avervi salvato, – rispose il comandante, tendendogli la destra e dandogli una stretta vigorosa. – Qualunque altro uomo bianco, d’altronde, avrebbe fatto altrettanto. Con quei furfanti non ci vuole misericordia, come non ci vogliono mezze misure.

– Ho l’onore di parlare al comandante?

– Sì, signore…

– Yanez de Gomera, – rispose il portoghese.

Il comandante aveva fatto un soprassalto. Prese Yanez per una mano, traendolo sulla tolda per lasciare il passo libero a Sambigliong ed agli altri che portavano il pellegrino e si mise a guardarlo con viva curiosità, ripetendo:

– Yanez de Gomera! Questo nome non mi è nuovo, signore. By God! Sareste voi il compagno di quell’uomo formidabile che anni or sono ha detronizzato James Brooke, lo sterminatore dei pirati?

– Sì, sono quello.

– Ero a Sarawak il giorno in cui Sandokan vi entrò coi guerrieri di Muda Hassim e le sue invincibili tigri. Signor de Gomera, sono ben felice di avervi prestato un po’ d’aiuto. Ma che cosa volevano quegli uomini da voi?

– È una istoria un po’ lunga a narrarsi. Ditemi, signore, voi non siete inglese?

– Mi chiamo Harry Brien e sono americano della California.

– E questa nave che è così poderosamente annata, meglio d’un incrociatore di prima classe?

– Oh molto meglio! – disse l’americano, sorridendo. – Credo che finora non ve ne sia una seconda in tutta la Malesia e nel Pacifico. Forte, a prova di scoglio, con artiglierie formidabili e rapida come una rondine marina.

Si volse verso i marinai che stavano loro d’intorno, interrogando curiosamente i compagni del portoghese, mentre il medico di bordo prodigava le prime cure al pellegrino, dal cui petto usciva un filo di sangue.

– Date la colazione a quelle brave persone, – disse loro. – E voi signor de Gomera, seguitemi nel quadro. Ah! Che cosa devo fare del vostro praho?

– Abbandonatelo alle onde, comandante, – rispose il portoghese. – Non vale la pena di prenderlo a rimorchio.

– Dove desiderate che vi sbarchi?

– Più vicino a Mompracem che vi sarà possibile, se non vi spiace.

– Vi condurremo direttamente colà, si trova quasi sulla mia rotta e la visiterò volentieri. Venite, signor de Gomera.

Si diressero verso poppa e scesero nel quadro, mentre la nave, dopo che i marinai ebbero issato le due scialuppe e tagliati gli ormeggi del praho, riprendeva la sua corsa verso il sud.

 

Il comandante fece portare una colazione fredda nel salotto poppiero e invitò Yanez a dare l’assalto.

– Possiamo discorrere anche mangiando e bevendo, – disse amabilmente. – La mia cucina è a vostra disposizione, signor de Gomera, al pari della mia cantina particolare.

Quando il pasto fu finito, l’americano conosceva già tutte le disgraziate avventure toccate al suo commensale sulla terra dei dayaki, per opera del misterioso pellegrino e anche la pericolosa situazione in cui trovavasi Sandokan.

– Signor de Gomera, – disse, offrendogli un manilla profumato, – vorrei proporvi un affare.

– Dite, signor Brien, – rispose il portoghese.

– Sapete dove stavo per recarmi?

– Non lo saprei indovinare.

– A Sarawak per cercare di vendere questa nave.

Yanez si era alzato, in preda ad una visibile commozione.

– Voi volete vendere la vostra nave! – esclamò. – Non appartiene alla marina da guerra americana?

– Niente affatto, signor de Gomera. Era stata costruita nei cantieri d’Oregon, per conto del sultano di Shemmerindan, il quale voleva vendicare, a quanto mi fu detto, suo padre uccisogli dagli olandesi nella sanguinosa sconfitta inflitta a quei predoni molti anni or sono.

– Nel 1844, – disse Yanez. – Conosco quell’isola.

– Il sultano aveva già versato ai costruttori un’anticipazione di ventimila sterline, promettendo l’intero pagamento alla consegna della nave, ed un forte regalo se fosse riuscita tale da poter sfidare impunemente le navi olandesi. Non abbiamo lesinato e, come avete potuto osservare, questo piroscafo vale meglio d’un incrociatore di prima classe. Disgraziatamente quando condussi la nave alla foce del Cotti, fui informato che il sultano era stato assassinato da un suo parente, ad istigazione degli olandesi, a quanto pare, per evitare una nuova campagna. Il suo erede non ne volle sapere della nave, abbandonandoci l’anticipo fattoci.

– Quello là è una bestia, – disse Yanez. – Con un simile piroscafo avrebbe potuto far tremare anche il sultano di Varauni.

– Da Ternate ho telegrafato ai costruttori e mi hanno incaricato di offrirla al rajah di Sarawak o a qualche sultano. Signor de Gomera, vorreste acquistarla? Con questa voi potreste diventare il re del mare.

– Vale? – chiese Yanez.

– Gli affari sono affari, signore, – disse l’americano. – I costruttori chiedono cinquantamila sterline.

– Ed io, signor Brien, ne offro sessantamila, pagabili sul banco di Pontianak, a condizione che mi lasciate il personale di macchina a cui offrirò doppia paga.

– Sono gente che non rifiuterà, avventurieri della più bella razza, pronti a chiudere ed aprire una valvola ed a sparare il fucile.

– Accettate?

– By God! È un affare d’oro, signor de Gomera, e non me lo lascerò sfuggire.

– Dove volete sbarcare col vostro equipaggio?

– A Labuan possibilmente, per prendere il postale che va a Shangai, da cui troveremo facile imbarco per San Francisco.

– Quando saremo a Mompracem farò mettere a vostra disposizione un praho onde vi sbarchi in quell’isola, – disse Yanez.

Estrasse un libriccino che teneva gelosamente nascosto in una fascia che portava sotto la camicia, si fece dare una penna e appose delle firme su diversi biglietti.

– Ecco degli chèques per sessantamila sterline, pagabili a vista sul banco di Pontianak, dove io e Sandokan abbiamo un deposito di tre milioni di fiorini. Signor Brien, da questo momento la nave è mia e ne assumo il comando.

– Ed io, signor de Gomera, da comandante divento un pacifico passeggero, – disse l’americano, raccogliendo gli chèques. – Signor de Gomera, visitiamo la nave.

– Non mi occorre mi è bastato uno sguardo per giudicarla. Solo desidero conoscere il numero delle bocche da fuoco.

– Quattordici pezzi, fra cui quattro da trentasei, un’artiglieria assolutamente formidabile.

– Mi basta: devo occuparmi del pellegrino. O egli mi dice dove la scialuppa ha condotto Tremal-Naik e Darma o lo martirizzo fino a che esalerà l’ultimo respiro.

– Conosco un mezzo infallibile per costringerlo a parlare, l’ho appreso dalle nostre pelli-rosse, – disse l’americano. – Sempre la rotta su Mompracem, signor de Gomera?

– Ed a tiraggio forzato, – rispose il portoghese. – È probabile che in questo momento Sandokan stia per misurarsi cogli inglesi e non ha che dei prahos.

– E voi, signor de Gomera, avete a disposizione una nave da cacciare tutti a fondo. Pezzi da 36! Faranno saltare le cannoniere di Labuan come giuocattoli.

Lasciarono il quadro e salirono in coperta. La nave filava a tutto vapore verso il sud-ovest, con una velocità assolutamente sconosciuta ai piroscafi di quell’epoca.

Quindici nodi all’ora e sei decimi. Chi avrebbe potuto gareggiare con quel piroscafo americano che filava come una rondine marina o poco meno? Yanez ne era entusiasmato.

– È un fulmine! – aveva detto ad Harry Brien. – Con tale nave, nè gli inglesi di Labuan, nè il rajah di Sarawak mi fanno paura. Sandokan, se volesse, potrebbe dichiarare la guerra anche all’Inghilterra!

Kammamuri in quel momento gli si appressò, dicendogli:

– Signor Yanez, la ferita del pellegrino non ha alcuna importanza. La vostra palla deve aver colpito prima qualche cosa di duro, probabilmente l’impugnatura del tarwar, che quell’uomo portava alla cintura e l’ha colpito solamente di rimbalzo, strisciando su una costola.

– Dov’è?

– In una cabina di prora.

– Signor Brien, volete accompagnarmi?

– Sono con voi, signor de Gomera, – rispose l’americano. – Cerchiamo di strappare il velo che nasconde quel misterioso personaggio.

Scesero nella corsia di babordo di prora ed entrarono in una stanzetta che serviva d’infermeria.

Il pellegrino giaceva su una branda, guardato da Sambigliong e da un marinaio della nave.

Era un uomo sui cinquant’anni magrissimo, dalla pelle assai abbronzata, coi lineamenti fini come quelli degli indiani delle alte caste e gli occhi nerissimi, penetranti, animati da un fuoco sinistro.

Aveva i piedi e le mani legate e conservava un mutismo feroce.

– Capitano, – disse Sambigliong a Yanez, – ho veduto or ora il petto di quest’uomo e vi ho scorto un tatuaggio rappresentante un serpente con una testa di donna.

– Ecco la prova che egli è veramente un thug indiano e non già un arabo maomettano, – rispose Yanez.

– Ah! Uno strangolatore! – esclamò l’americano, guardandolo con vivo interesse.

Il prigioniero udendo la voce di Yanez aveva trasalito, poi aveva alzato il capo, fissandolo con uno sguardo ripieno d’odio.

– Sì, – disse, – sono un thug, un amico devoto di Suyodhana, che aveva giurato di vendicare su Tremal-Naik, su Darma, su te e più tardi sulla Tigre della Malesia la distruzione dei miei correligionari. Ho perduto la partita quando credevo di averla vinta: uccidimi. Vi è qualcuno che penserà a vendicarmi e più presto di quello che credi.

– Chi? – domandò Yanez.

– Questo è il mio segreto.

– Che io ti strapperò.

Un sorriso ironico sfiorò le labbra dello strangolatore.

– E mi dirai anche dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i miei Tigrotti sfuggiti al fuoco dei tuoi lilà.

– Questo non lo saprai mai!

– Adagio, signor strangolatore, – disse l’americano. – Permettetemi di avvertirvi che io conosco un mezzo infallibile per farvi parlare. Non resistono nemmeno le pelli-rosse, che sono d’una cocciutaggine incredibile.

– Voi non conoscete gli indiani, – rispose il thug. – Mi ucciderete, ma non mi strapperete una sillaba.

L’americano si volse verso il suo marinaio dicendogli:

– Prepara sul ponte un paio di tavole ed un barile d’acqua.

– Che cosa volete fare, signor Brien? – chiese Yanez.

– Ora lo vedrete, signor de Gomera. Fra due minuti quest’uomo parlerà, ve lo prometto.

– Voi, – aggiunse poi rivolgendosi a Sambigliong e a Kammamuri, – prendete quest’uomo e portatelo in coperta.

15. Fuoco di bordata!

L’indiano non aveva opposto la menoma resistenza, anzi il sorriso ironico che gli sfiorava le labbra non era nemmeno sparito. Pareva che quell’uomo fosse assolutamente sicuro di sè e che nemmeno la prospettiva, non certo piacevole, di dover sopportare la tortura, avesse scossa la sua forte anima di settario fanatico.

Quando si trovò sulla tolda, disteso su una tavola e solidamente legato in modo da impedirgli di fare il menomo movimento, anche allora la sua serietà non venne meno.

Guardò con occhio tranquillo i marinai che avevano formato un circolo intorno a lui, poi il capitano e Yanez, dicendo a quest’ultimo col suo solito accento beffardo:

– Ed ora mi getterai ai pesci?

– Abbiamo qualche cosa di meglio, signor strangolatore, – disse l’americano. – Vi duole la ferita?

Lo strangolatore alzò le spalle con disprezzo.

– Non datevi alcun pensiero per quella graffiatura, – disse con voce recisa. – Mi prendete per un fanciullo?

– Meglio così. Portate un paio di secchie e l’imbuto.

Tre marinai si fecero largo, portando quanto era stato chiesto. L’imbuto era quello che usava il cambusino per riempire le botti, un arnese massiccio dall’imboccatura abbastanza larga per tappare completamente la bocca dell’indiano.

– Vuoi confessare? – chiese per l’ultima volta l’americano. – Mi risparmierai una tortura inutile, perchè non potrai resistere.

– No, – rispose seccamente lo strangolatore.

– Neanche se ti promettessi un giorno la libertà? – chiese Yanez, a cui ripugnava ricorrere ai mezzi estremi.

– Quel giorno io non sarei più vivo.

– Agite, – disse l’americano.

Tutti si erano ristretti attorno alla tavola. Solo il timoniere era rimasto dietro la ruota ed i fuochisti dinanzi ai forni.

Due marinai introdussero nella bocca dell’indiano l’estremità dell’imbuto, tenendovelo ben fermo, mentre un terzo vi versava lentamente l’acqua contenuta nel bugliolo.

Lo strangolatore, costretto a bere per non morire soffocato, aveva cercato con uno sforzo disperato, di spezzare i legami per allontanare l’imbuto. Aveva subito compreso che non avrebbe potuto resistere a lungo a quella tortura che prima di allora non aveva mai conosciuta.

Tuttavia, deciso a resistere fino all’ultimo, anche a morire, non fece alcun atto che potesse far supporre all’americano ed al portoghese di essere pronto a confessare.

Il liquido continuava a scorrergli nello stomaco ed il suo ventre si gonfiava a vista d’occhio. I suoi lineamenti dimostravano uno spasimo estremo, gli occhi pareva che volessero schizzargli dalle orbite e respirava affannosamente per le nari, con un rantolo sinistro, lugubre.

– Confesserai? – gli chiese l’americano che assisteva, freddo, impassibile, a quella scena, facendo segno al marinaio che teneva la secchia di fermarsi.

Il thug fece col capo un feroce gesto di diniego ed i suoi denti scricchiolarono sulla canna di ferro dell’imbuto.

Un altro paio di litri d’acqua scorsero pel tubo. Il martirizzato, col viso congestionato, gli occhi già spaventosamente sbarrati, lo stomaco enormemente dilatato, fece ad un tratto un brusco soprassalto.

Era la sua resa.

– Basta, – aveva detto Yanez, nauseato. – Basta.

L’imbuto fu tolto. Il thug aspirò a lungo l’aria, poi con voce rantolosa mormorò:

– Assassini!

– Oh! Non morrai per un po’ d’acqua, – disse l’americano. – Non si può resistere, questo è vero, ma non si corre alcun pericolo se non si continua. Parlerai?

L’indiano stette un momento silenzioso, poi vedendo l’americano fare cenno ai marinai di ricominciare, una orribile espressione di spavento si diffuse sul suo viso.

– No… no… più – balbettò.

– Chi è l’uomo che ti ha mandato qui? Parla o ricominciamo, – disse Yanez.

– Sindhya, – rispose l’indiano.

– Chi è costui? E tu, soprattutto, chi sei veramente?

– Sono… sono… il precettore… di Sindhya… l’ho allevato… io… io… l’amico… fedele… di Suyodhana…

– E quel Sindhya? – insistette Yanez che vedeva l’indiano girare gli occhi e respirare sempre più affannosamente.

– Parla o torniamo all’acqua, – disse l’americano.

– È… è… il figlio… di… Suyodhana, – burbugliò lo strangolatore.

Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Kammamuri e di Sambigliong. Suyodhana aveva lasciato un figlio! Era possibile? Il capo dei settari, che meno degli altri avrebbe potuto amare una donna, lui che incarnava sulla terra il Trimurti della religione indiana, come un giorno la piccola Darma aveva incarnata Kalì, la sanguinaria divinità, aveva avuto il suo romanzo, come un mortale qualunque?

 

Yanez si era curvato sull’indiano, per chiedergli maggiori spiegazioni e s’avvide che il povero uomo aveva smarrito i sensi.

– Che muoia? – chiese, rivolgendosi all’americano. – Non ha confessato tutto e bisogna che sappia dove si trova il figlio del terribile strangolatore e dove hanno condotto Tremal-Naik e Darma.

– Lasciatelo digerire tranquillamente la sua acqua, – rispose lo yankee. – Questa tortura non uccide, se viene sospesa a tempo e domani quest’uomo starà bene quanto me e voi. Facciamolo riportare nella cabina e lasciamo che dorma.

– È svenuto.

– S’incaricherà il medico di bordo di farlo tornare in sè. Non temete, signor de Gomera. Questa sera o domani, noi sapremo tutto quello che desiderate sapere.

Fece un cenno ai due marinai e questi sollevarono l’indiano, che non dava più segni di vita e lo portarono nel frapponte.

– Ebbene, signor de Gomera, – disse l’americano, rivolgendosi a Yanez che pareva assai preoccupato e pensieroso. – Pare che non siate troppo lieto della nuova che avete appreso. È un uomo pericoloso, il figlio del capo degli strangolatori?

– Può diventarlo, – rispose Yanez, – non sapendo noi nè dove si trovi, nè chi sia, nè di quali mezzi disponga. La guerra sorda ma implacabile, fattaci finora, dimostra che quel Sindhya deve possedere l’energia e la ferocia del padre. È necessario che io sappia dove si nasconde.

– Non era dunque fra i dayaki che vi hanno assaliti?

– Non sembra. Non vi era che quel pellegrino alla testa dell’insurrezione, di questo siamo certi. Se vi fosse stato qualche altro indiano a quest’ora l’avremmo saputo.

– Che sia veramente possente quel Sindhya?

– I fatti lo dimostrano. È stato lui ad armare i dayaki, lui a sobillare gli inglesi e forse anche il nipote di James Brooke. Sono certo che deve disporre di ricchezze incalcolabili.

– E l’oro è il nerbo della guerra, – disse l’americano.

– E deve aver armato qualche nave anche.

– Che la vostra affonderà senza fatica, signor de Gomera. Nessuno potrà sfidare impunemente le vostre artiglierie che sono le più moderne e le più formidabili che finora si conoscano e che anche la marina del mio paese sta adottando. Che peccato non potervi tenere compagnia!

– Signor Yanez, – disse in quel momento Kammamuri, che fino allora era rimasto silenzioso e non meno pensieroso del portoghese, – che cosa ne dite di questa inaspettata rivelazione?

– Che non avrei mai supposto che noi dovessimo trovarci ancora di fronte ai thugs indiani. Tu che sei stato loro prigioniero parecchio tempo, non hai mai udito a narrare che Suyodhana avesse un figlio?

– No, signor Yanez, e poi se i thugs lo avessero saputo, il loro capo avrebbe molto perduto della sua influenza. Egli deve averlo fatto allevare molto lontano dalle Sunderbunds, all’insaputa di tutti, per celare la propria colpa. Un capo come lui non può amare una mortale: il suo cuore non deve battere che per la sanguinaria dea e per nessun’altra donna.

– Credi tu che la comunità dei thugs fosse molto ricca?

– Mi fu detto che poteva disporre di tesori favolosi e che solo Suyodhana sapeva dove erano collocati.

– Distrutti i settari, certo quelle ricchezze saranno state raccolte da Sindhya.

– È probabile, signor Yanez, – rispose il maharatto.

– Ed ora viene a sfidarci per vendicare suo padre! – disse il portoghese, come parlando fra sè. – Come la Tigre della Malesia ha vinto e ucciso la Tigre dell’India abbatterà anche il tigrotto.

– Mi stupisce però, – disse l’americano, – come lui, figlio d’uno strangolatore, sia riuscito a procurarsi l’appoggio degli inglesi, se è vero quanto voi sospettate.

– Sapete voi sotto quale nome o quale titolo si nasconda? – chiese Yanez. – Non sarà stato così sciocco da dire al governatore di Labuan che è un seguace di Kalì. Mi occorre sapere dove si trova ed il suo precettore me lo dirà, dovessi torturarlo fino a che muoia.

– Basterà minacciarlo d’una nuova bevuta, – disse l’americano. – Non resisterà, lo vedrete e vi spiattellerà tutto. Signor de Gomera, andate un po’ a riposarvi. Dovrete essere assai stanco, dopo tante emozioni. I vostri marinai dormono già come ghiri.

Il portoghese, che da due notti non chiudeva gli occhi, seguì il consiglio dell’americano e scese nel quadro con Kammamuri, gettandosi vestito come era in un lettuccio.

Intanto la nave continuava la sua rotta verso il sud-est, tenendosi a una dozzina di miglia dalla costa. Divorava i suoi quindici nodi, velocità assolutamente straordinaria in quell’epoca, in cui i piroscafi migliori, non esclusi gli incrociatori, non riuscivano ordinariamente a percorrerne più di dodici.

Al largo non appariva alcuna nave; verso la costa, assai sinuosa e frastagliata da minuscoli seni, veleggiavano lentamente alcuni prahos montati probabilmente da pescatori, essendo le acque che bagnano quella grande isola ricchissime di pesci.

A mezzodì il Nebraska – tale era il nome del magnifico vapore – avvistava già l’isola di Tiga e puntava direttamente verso il capo Nosong, che forma l’estremità d’una vasta isola staccata dalla terraferma da uno stretto canale che sbocca nella vasta baia di Bruni.

Alle quattro, Labuan, la colonia inglese, a cui Sandokan per tanti anni aveva dato da fare, minacciando l’esterminio dei suoi primi coloni, era in vista verso il sud. Quasi nel medesimo istante la voce dell’americano svegliava bruscamente Yanez.

– In piedi, signor de Gomera! – aveva gridato il comandante.

Vi era nella voce un certo tono, che fece balzare subito in piedi il portoghese. Anche il viso dell’americano era assai oscuro.

– Avete qualche brutta nuova da comunicarmi? Mi sembrate sconvolto, signor Brien.

– By God! – bestemmiò lo yankee grattandosi rabbiosamente la testa. – Non me l’aspettavo, signor Yanez.

– Insomma, che cosa c’è di nuovo?

– C’è… c’è… che quel maledetto indiano se n’è andato all’altro mondo senza completare le sue confessioni.

– Morto!

– Aveva qualche terribile veleno nascosto in un anello. Vi rammentate che ne aveva uno al dito medio, con un grosso corindone?

– Sì, mi pare di averglielo veduto.

– Ho trovato il corindone levato e sotto di esso un piccolo vuoto che doveva contenere qualche granello di chissà quale sostanza tossica ed è rimasto fulminato sotto gli occhi del marinaio di guardia, – disse l’americano.

Yanez aveva fatto un gesto di collera.

– Morto, portando nella tomba il segreto che più mi premeva! – esclamò coi denti stretti. – Come faremo noi a sapere dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i loro uomini? Maledizione! La stella che per tanti anni ci ha protetti, comincia a offuscarsi. Sarebbe il principio della fine?

– Non scoraggiatevi, signor Yanez, – disse l’americano. – Non li avranno già mangiati i vostri amici. Se non li hanno uccisi subito, vuoi dire che i rapitori avevano ricevuto l’ordine di tradurli in qualche luogo.

– E dove?

– Ecco il punto nero, per ora.

Yanez, che in quella disgraziata spedizione più volte aveva perduto la sua calma, si era messo a passeggiare per la cabina in preda ad una vivissima agitazione.

Che cosa fare? Che cosa risolvere? Dove dirigere le ricerche? Erano quelli i pensieri che turbavano la sua mente.

– Dove ci troviamo ora, signor Brien? – chiese ad un tratto fermandosi dinanzi all’americano.

– In vista delle coste di Labuan, signor de Gomera.

– Quando potremo giungere a Mompracem?

– Fra le dieci e le undici di notte.

– Fate mettere in acqua una scialuppa con viveri e armi per due uomini e accostate Labuan.

– Che cosa volete tentare, signor de Gomera?

– Mi è venuto un sospetto.

– E quale?

– La scialuppa a vapore si è diretta verso il sud, senza entrare nella baia di Kabatuan, che i miei prahos avevano già oltrepassata.

– Sicchè voi credete?

– Che abbia condotti Tremal-Naik, Darma e i loro uomini a Labuan.

– E vorreste sbarcare un paio dei vostri malesi onde vadano ad informarsi?

– E raccoglierli più tardi.

– Due uomini bianchi avrebbero maggiori probabilità e ve ne sono a bordo di quelli che hanno fegato. Basta pagarli.

– Avranno ciò che chiederanno.

– Seguitemi, signor Yanez.

Quando salirono in coperta, le spiagge di Labuan erano perfettamente visibili, non distando che una dozzina di miglia.