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Il Corsaro Nero

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CAPITOLO XI. LA DUCHESSA FIAMMINGA

I filibustieri, vedendo il loro comandante e Morgan lanciarsi all’abbordaggio del vascello, il quale non poteva ormai piú sfuggire, si erano precipitati dietro di loro come un solo uomo.

Avevano gettati i fucili, armi pressoché inutili in un combattimento corpo a corpo, ed avevano impugnate le sciabole d’arrembaggio e le pistole, e si precipitavano innanzi come un torrente impetuoso, urlando a piena gola per spargere maggiore terrore.

I grappini d’arrembaggio erano stati prontamente gettati per meglio accostare le due navi, ma i primi filibustieri, giunti sull’albero di bompresso, impazienti si erano gettati sulle trinche e, aggrappandosi ai fianchi, o calandosi giú per la dolfiniera, si erano lasciati cadere sulla tolda del vascello.

Colà però si erano subito trovati dinanzi ad una resistenza inaspettata. Dai boccaporti salivano con furia gli spagnuoli delle batterie, colle armi in pugno.

Erano cento almeno, guidati da alcuni ufficiali e dai mastri e contromastri artiglieri.In un lampo si spargono sul ponte, salgono sul castello di prora, piombando addosso ai primi filibustieri, mentre altri si precipitano sul cassero e scaricano, a bruciapelo, i due cannoni da caccia, infilando la tolda della filibustiera con un uragano di mitraglia.

Il Corsaro Nero non esitò piú. Le due navi si trovavano allora bordo contro bordo, essendo state strette le funi dei grappini.

D’un balzo supera le murate e si getta sulla tolda del vascello urlando:

– A me filibustieri!

Morgan lo segue, poi dietro di lui si precipitano i fucilieri, mentre i gabbieri issati sulle coffe, sulle crocette, sui pennoni e sulle griselle scagliano granate in mezzo agli spagnuoli e fanno un fuoco infernale coi fucili e colle pistole.

La lotta diventa spaventosa, terribile.

Il Corsaro Nero tre volte trascina i suoi uomini all’assalto del cassero sul quale si erano radunati sessanta o settanta spagnuoli, che spazzano la tolda coi cannoni da caccia, e tre volte viene respinto, mentre Morgan non riesce a montare sul cassero di prora.

D’ambo le parti si combatte con pari furore. Gli spagnuoli, che hanno subito perdite disastrose per il fuoco degli archibugieri e che sono ormai inferiori di numero, resistono eroicamente decisi a farsi uccidere, piuttosto che arrendersi.

Le granate a mano, scagliate dai gabbieri della nave corsara, fanno strage fra le loro file, pure non retrocedono. I morti ed i feriti s’accumulano intorno a loro, ma il grande stendardo di Spagna sventola arditamente sulla cima dell’alberetto di maestra, colla sua croce che fiammeggia ai primi raggi del sole. Quella resistenza non doveva però durare a lungo. I filibustieri, resi feroci per l’ostinazione dei nemici, si scagliano un’ultima volta all’assalto del castello del cassero, guidati dai loro comandanti che combattono in prima fila.

S’arrampicano sulle griselle per calarsi giù dai paterazzi dell’albero di mezzana o attraverso le sartie di poppa; s’aggrappano alle bancazze, corrono sulle murate e piombano da tutte le parti addosso agli ultimi difensori del disgraziato vascello.

Il Corsaro Nero spezza quella muraglia di corpi umani e si caccia in mezzo a quell’ultimo gruppo di combattenti. Ha gettata la sciabola d’arrembaggio ed impugnata una spada.

La sua lama fischia come un serpente, batte e ribatte i ferri che tentano giungere al suo petto e colpisce a destra, a manca e dinanzi. Nessuno può resistere a quel braccio, e nessuno può parare le sue botte. Un varco gli si apre dintorno e si trova in mezzo ad un cumulo di cadaveri, coi piedi nel sangue che scorre a rivi per il piano inclinato del cassero.

Morgan in quel momento accorreva con una banda di filibustieri. Aveva espugnato il castello di prora e si preparava a trucidare i pochi superstiti, che difendevano col furore della disperazione lo stendardo del vascello, ondeggiante sul picco della randa.

– Addosso a questi ultimi! – gridò.

Il Corsaro Nero lo trattenne, gridando.

– Uomini del mare! Il Corsaro Nero vince, ma non assassina!

Lo slancio dei filibustieri si era arrestato e le armi, pronte a colpire, si erano abbassate.

– Arrendetevi, – gridò il Corsaro avanzandosi verso gli spagnuoli aggruppati intorno alla barra del timone. – Sia salva la vita ai valorosi.

Un contromastro, l’unico rimasto vivo fra tutti i graduati, si fece innanzi gettando la scure intrisa di sangue.

– Siamo vinti, – disse con voce rauca. – Fate di noi quello che volete.

– Riprendete la vostra scure, contromastro – rispose il Corsaro, con nobiltà. – Uomini cosí valorosi che difendono con tanto accanimento il vessillo della patria lontana, meritano la mia stima.

Poi guardò i superstiti, senza occuparsi dello stupore del contromastro, stupore naturale poiché, in quelle lotte, di rado i filibustieri accordavano quartiere ai vinti e quasi mai la libertà senza riscatto.

Dei difensori del vascello di linea non rimanevano che diciotto marinai e quasi tutti feriti. Avevano già gettate le armi ed aspettavano, con cupa rassegnazione, la loro sorte.

– Morgan, – disse il Corsaro, – fate calare in acqua la grande scialuppa con i viveri sufficienti per una settimana.

– Lascerete liberi tutti gli uomini? – chiese il luogotenente, con un certo rammarico.

– Sí, signore. Amo premiare il coraggio sfortunato.

Il quartier mastro, udendo quelle parole, si era fatto innanzi, dicendo:

– Grazie, comandante. Ricorderemo sempre la generosità di colui che si chiama il Corsaro Nero.

– Tacete e rispondetemi.

– Parlate, comandante.

– Da dove venivate?…

– Da Vera-Cruz.

– Dove eravate diretti?…

– A Maracaibo.

– Vi aspettava il Governatore? – chiese il Corsaro, aggrottando la fronte.

– Lo ignoro, signore. Solamente il capitano avrebbe potuto rispondere.

– Avete ragione. A quale squadra apparteneva la vostra nave?

– A quella dell’Ammiraglio Toledo.

– Avete nessun carico nella stiva?

– Palle e polvere.

– Andate: siete liberi.

Il contromastro, invece di obbedire, lo guardò con un certo imbarazzo che non sfuggí agli occhi del Corsaro.

– Volete dire? – chiese questi.

– Che vi sono altre persone a bordo, comandante.

– Dei prigionieri forse?

– No, delle donne e dei paggi.

– Dove sono?

– Nel quadro di poppa.

– Chi sono quelle donne?

– Il capitano non ce lo disse, ma pare che fra di esse vi sia una donna d’alto rango.

– E chi mai?

– Una duchessa, credo.

– Su questo vascello da guerra?… – chiese il Corsaro con stupore. – Dove l’avete imbarcata?

– A Vera-Cruz.

– Sta bene. Verrà con noi alla Tortue e se vorrà la libertà, pagherà il riscatto che fisserà il mio equipaggio. Partite, valorosi difensori del vostro patrio vessillo; v’auguro di raggiungere felicemente la costa.

– Grazie signore.

La grande scialuppa era stata calata in mare e provveduta di viveri per otto giorni, d’alcuni fucili e d’un certo numero di cariche.

Il contromastro ed i suoi diciotto marinai scesero nell’imbarcazione, mentre il grande stendardo di Spagna veniva abbassato dall’alberetto di maestra contemporaneamente alla bandiera ondeggiante sul picco della randa e venivano issate le nere bandiere del filibustiere, salutate da due colpi di cannone.

Il Corsaro Nero era salito sulla prora e guardava la grande scialuppa, la quale si allontanava rapidamente, dirigendosi verso il sud, ossia là dove s’apriva la vasta baia di Maracaibo.

Quando fu lontana, scese lentamente in coperta, mormorando:

– E costoro sono gli uomini del traditore!…

Guardò il suo equipaggio che era occupato a trasportare i feriti nell’infermeria di bordo ed a chiudere i cadaveri entro le amache per gettarli in mare e fece cenno a Morgan di avvicinarsi.

– Dite ai miei uomini, – gli disse, – che io rinuncio a loro favore alla parte spettantemi dalla vendita di questo vascello.

– Signore!… – esclamò il luogotenente, stupito. – Questa nave vale molte migliaia di piastre, voi lo sapete.

– E che importa a me il danaro? – rispose il Corsaro con disprezzo. – Io faccio la guerra per miei motivi personali e non per avidità di ricchezze. D’altronde la mia parte l’ho avuta.

– Non è vero, signore.

– Sí, i diciannove prigionieri che, condotti alla Tortue, avrebbero dovuto pagare il loro riscatto per ottenere la libertà.

– Valevano ben poco, costoro. Forse non avrebbero pagato un migliaio di piastre tutt’insieme.

– A me basta. Direte poi ai miei uomini di fissare il riscatto per la duchessa che si trova a bordo di questo legno. Il Governatore di Vera-Cruz o quello di Maracaibo pagheranno se vorranno rivederla libera.

– I nostri uomini amano il denaro, ma amano di piú il loro comandante e cederanno a voi anche i prigionieri del quadro.

– Lo si vedrà, – rispose il Corsaro alzando le spalle.

Stava dirigendosi verso poppa, quando la porta del quadro si aprí bruscamente ed una fanciulla apparve, seguita da due donne e da due paggi sfarzosamente vestiti.

Era una bella figura di giovane, alta, slanciata, flessuosa, dalla pelle delicatissima, d’un bianco leggermente roseo, di quel roseo che solo si scorge sulle fanciulle dei paesi settentrionali, e soprattutto in quelle appartenenti alle razze anglo-sassoni ed iscoto-danesi.

Aveva lunghi capelli d’un biondo pallido, con riflessi piú d’argento che d’oro, che le scendevano sulle spalle, raccolti in una grossa treccia fermata da un grande nastro azzurro adorno di perle; occhi dal taglio perfetto, d’una tinta indefinibile che avevano dei lampi dell’acciaio brunito, sormontati da sopracciglia finissime e che, cosa davvero strana, invece di essere bionde al pari dei capelli, erano nere.

 

Quella fanciulla, perché tale doveva essere, non avendo ancora le forme sviluppate della donna, indossava un elegante vestito di seta azzurra, dal grande collare di pizzo, come usavasi in quel tempo, ma semplicissimo, senza ricami di oro né d’argento; però al collo aveva parecchi giri di perle grosse, che dovevano costare parecchie migliaia di piastre ed alle orecchie due superbi smeraldi, pietre molto ricercate in quell’epoca e molto apprezzate.

Le due donne che la seguivano, due cameriere senza dubbio, erano invece due mulatte, belle del pari, dalla pelle leggermente abbronzata, di riflessi ramigni ed erano pure mulatti i due paggi.

La giovanetta, vedendo il ponte del vascello ingombro di morti e di feriti, d’armi, di attrezzi spezzati e di palle di cannone, e dovunque macchiato di sangue, fece un gesto di ribrezzo ed arretrò come se volesse tornare nel quadro per sottrarsi a quella vista orribile, ma vedendo il Corsaro Nero che le si era fermato a quattro passi di distanza, gli chiese con aria corrucciata, aggrottando le sopracciglia:

– Che cosa è accaduto qui, signore?

– Potete comprenderlo, signora, – rispose il Corsaro, inchinandosi. – Una battaglia tremenda, finita male per gli spagnuoli.

– E chi siete voi?

Il Corsaro gettò via la spada insanguinata che non aveva ancora deposta e levandosi galantemente l’ampio cappello piumato, le disse con squisita cortesia:

– Io sono, signora, un gentiluomo d’oltremare.

– Ciò non mi spiega chi voi siate, – diss’ella, un po’ rabbonita dalla gentilezza del Corsaro.

– Allora aggiungerò che io sono il cavaliere Emilio di Roccanera, signore di Valpenta e di Ventimiglia, ma qui porto un nome ben diverso.

– E quale, cavaliere?

– Sono il Corsaro Nero.

Udendo quel titolo, un fremito di terrore era passato sul bel viso della giovanetta e la tinta rosea della sua pelle era repentinamente scomparsa, diventando invece bianca come l’alabastro.

– Il Corsaro Nero, – mormorò guardandolo con due occhi smarriti. – Il terribile Corsaro della Tortue, il nemico formidabile degli spagnuoli.

– Forse v’ingannate, signora. Gli spagnuoli posso combatterli, ma non ho motivo per odiarli e ne diedi or ora una prova ai superstiti di questo vascello. Non vedete laggiú, dove il mare si confonde col cielo quel punto nero che sembra perduto nello spazio? È una scialuppa montata da diciannove marinai spagnuoli che io rilasciai liberi, mentre per diritto di guerra avrei potuto trucidarli o tenerli prigionieri.

– Avrebbero mentito coloro che vi dipingevano come il piú terribile Corsaro della Tortue?

– Forse, – rispose il filibustiere.

– E di me che cosa farete, cavaliere?

– Una domanda, innanzi tutto.

– Parlate, signore.

– Voi siete?

– Fiamminga.

– Una duchessa, mi hanno detto.

– È vero cavaliere, – rispose ella, lasciandosi sfuggire un gesto di malumore, come se le fosse dispiaciuto che il Corsaro avesse ormai saputo del suo alto grado sociale.

– Il vostro nome, se non vi rincresce.

– È necessario?…

– Bisogna che io sappia chi voi siete, se volete riacquistare la libertà.

– La libertà?… Ah!… Sí, è vero, dimenticavo che io sono ormai vostra prigioniera.

– Non mia, signora, ma della filibusteria. Se si trattasse di me, metterei a vostra disposizione la mia migliore scialuppa ed i miei piú fidi marinai e vi farei sbarcare nel porto piú vicino, ma io non posso sottrarmi alle leggi dei Fratelli della Costa.

– Grazie, – diss’ella, con un adorabile sorriso. – Mi sarebbe sembrato strano che un gentiluomo dei cavallereschi duchi di Savoia fosse diventato un ladro di mare.

– La parola può essere dura per i filibustieri, – diss’egli, aggrottando la fronte. – Ladri di mare!… Eh… Quanti vendicatori vi sono fra di loro!… Forse che Montbars, lo sterminatore, non faceva la guerra per vendicare i poveri indiani distrutti dall’insaziabile avidità degli avventurieri di Spagna?… Chissà che un giorno non possiate sapere anche il motivo per cui un gentiluomo dei duchi di Savoia sia qui venuto a scorrazzare per le acque del gran golfo americano… Il vostro nome, signora?

– Honorata Willerman, duchessa di Weltrendrem.

– Sta bene, signora. Ritiratevi nel quadro ora, dovendo noi procedere ad una triste funzione, al seppellimento dei nostri caduti nella lotta; ma questa sera vi attendo a pranzo a bordo della mia nave.

– Grazie, cavaliere, – diss’ella, porgendogli una candida mano, piccola come quella d’una bimba e dalle dita affusolate.

Fece un leggero inchino e si ritirò lentamente, ma prima di rientrare nel quadro si volse e vedendo che il Corsaro Nero era rimasto immobile al suo posto, col cappello ancora in mano, gli sorrise un’ultima volta.

Il filibustiere non si era mosso. I suoi occhi, che erano diventati tetri, erano sempre fissi sulla porta del quadro, mentre la sua fronte diventava piú fosca.

Stette qualche minuto colà, come se fosse assorto in qualche tormentoso pensiero e come se i suoi sguardi seguissero una fuggevole visione, poi si scosse e crollando il capo, mormorò:

– Follie!…

CAPITOLO XII. LA PRIMA FIAMMA

Quel terribile combattimento fra la nave corsara ed il vascello di linea era stato disastroso per entrambi gli equipaggi. Piú di duecento cadaveri ingombravano la tolda, il castello di prora ed il cassero del legno predato, alcuni caduti sotto lo scoppio micidiale delle granate scagliate dai gabbieri dall’alto delle coffe e dei pennoni, altri fulminati a bruciapelo dalle scariche di mitraglia o dai fucili e dalle pistole, e altri caduti negli ultimi assalti, all’arma bianca.

Centosessanta ne aveva perduti la nave spagnuola e quarantotto la nave corsara oltre ventisei feriti che erano stati trasportati nell’infermeria della Folgore.

Anche i due legni, durante il cannoneggiamento, avevano sofferto non poco. La Folgore, mercé la rapidità del suo attacco e le sue pronte manovre, non aveva perduto che dei pennoni facilmente ricambiabili, essendo ben provvista di attrezzi, ed aveva avuto le murate danneggiate in piú luoghi e le manovre maltrattate; la spagnuola invece era stata ridotta a mal partito e si trovava quasi nella impossibilità di rimettersi alla vela.

Il suo timone era stato fracassato da una palla di cannone; l’albero maestro, offeso alla base dallo scoppio d’una bomba, minacciava di cadere al minimo sforzo delle vele; la mezzana aveva perduto le sue sartie e parte dei paterazzi ed anche le sue murate avevano sofferto assai.

Era però sempre una gran bella nave, che, riparata, potevasi vendere con grande profitto alla Tortue, tanto piú che aveva numerose bocche da fuoco ed abbondanti munizioni, cose molto ricercate dai filibustieri che generalmente difettavano delle une e delle altre.

Il Corsaro Nero, resosi conto delle perdite subite e dei danni toccati alle due navi, comandò di sgombrare le tolde dai cadaveri e di procedere prontamente alle riparazioni piú urgenti, premendogli di abbandonare quei paraggi per non venire assalito dalla squadra dell’ammiraglio Toledo, trovandosi ancora troppo vicino a Maracaibo.

La triste cerimonia dello sgombero dei ponti fu fatta subito. I cadaveri, uniti due a due nelle amache, con una palla da cannone ai piedi, vennero gettati negli abissi del gran golfo, dopo essere stati privati di tutti i valori che avevano indosso, non avendone i pesci proprio bisogno, come diceva scherzando Carmaux al suo amico Wan Stiller, entrambi sfuggiti miracolosamente alla morte.

Terminato quel lugubre getto, l’equipaggio, sotto la direzione dei mastri e due contromastri, sbarazzò la tolda dai rottami, lavò il sangue con torrenti d’acqua e procedette al ricambio degli attrezzi guasti e delle manovre fisse e correnti, danneggiate dalla mitraglia.

Fu però necessario abbattere l’albero maestro del vascello di linea e rinforzare vigorosamente quello di mezzana e collocare, al posto del timone, un remo di dimensioni enormi non avendone trovato uno di ricambio nel magazzino dei carpentieri.

Con tutto ciò il vascello non era ancora in condizione di navigare e fu deciso che la Folgore l’avrebbe preso a rimorchio, anche perché il Corsaro non voleva dividere l’ormai troppo scarso suo equipaggio.

Una grossa gomena fu gettata a poppa della nave filibustiera e assicurata alla prora del vascello, e verso il tramonto i Corsari si rimettevano alla vela, navigando lentamente verso il nord, premurosi di giungere al sicuro nella loro formidabile isola.

Il Corsaro Nero, date le ultime disposizioni per la notte, raccomandò di raddoppiare gli uomini di guardia, non sentendosi completamente sicuro a cosí breve distanza dalle coste venezuelane, dopo il furioso cannoneggiamento del mattino, ed ordinò al negro ed a Carmaux di recarsi sul legno spagnuolo, a prendere la duchessa fiamminga.

Mentre i due uomini, scesi in una imbarcazione già fatta calare in acqua, si dirigevano verso la nave che la Folgore rimorchiava, il Corsaro Nero si era messo a passeggiare per la tolda, con certe mosse che indicavano come fosse in preda ad una viva agitazione e ad una profonda preoccupazione.

Contrariamente alle sue abitudini, era irrequieto, nervoso; interrompeva bruscamente la sua passeggiata per arrestarsi, come se un pensiero lo tormentasse: s’avvicinava a Morgan che vegliava sul castello di prora, come se avesse avuto intenzione di fargli qualche comunicazione, poi gli volgeva invece bruscamente le spalle e s’allontanava verso poppa.

Era però tetro come sempre, forse anzi piú cupo del solito. Tre volte fu veduto salire sul cassero di poppa e guardare il vascello di linea, facendo un gesto d’impazienza e tre volte allontanarsi quasi precipitosamente ed arrestarsi sul castello di prora, con gli occhi distrattamente fissi sulla luna che sorgeva allora all’orizzonte, cospargendo il mare di pagliuzze d’argento.

Quando però udí sul fianco della nave il cozzo sonoro della scialuppa che ritornava dal vascello spagnuolo, abbandonò con precipitazione il castello di prora e si fermò sulla cima della scala abbassata a babordo.

Honorata saliva, leggera come un uccello, senza appoggiarsi alla branca. Era vestita come al mattino, ma sul capo portava una grande sciarpa di seta variopinta, ricamata in oro e adorna di fiocchi come i serapé messicani.

Il Corsaro Nero l’attendeva col cappello in mano e la sinistra appoggiata alla guardia d’una lunga spada.

– Vi ringrazio, signora, d’essere venuta sulla mia nave, – le disse.

– È voi che devo ringraziare, cavaliere, d’avermi ricevuto sulla vostra filibustiera, – rispose ella, chinando graziosamente il capo. – Non dimenticate che io sono una prigioniera.

– La galanteria non è sconosciuta anche fra i ladri di mare, – rispose il Corsaro, con una leggera punta d’ironia.

– Mi serbate rancore della parola sfuggitami stamane?

Il Corsaro Nero non rispose e la invitò con un cenno della mano a seguirlo.

– Una domanda prima, cavaliere, – diss’ella trattenendolo.

– Parlate.

– Non vi spiacerà che io abbia condotto con me una delle mie donne?

– No, signora, credevo anzi che venissero tutte e due.

Le offrí galantemente il braccio e la condusse a poppa della nave, facendola entrare nel salotto del quadro.

Quel piccolo ambiente, situato sotto il cassero, a livello della tolda, era ammobiliato con una eleganza cosí civettuola, da fare stupire anche la giovane duchessa, quantunque dovesse essere stata abituata a vivere in mezzo ad un lusso sfarzoso.

Si capiva che quel Corsaro, anche scorrazzando il mare, non aveva rinunciato a tutti gli agi della vita ed alla eleganza dei suoi castelli.

Le pareti di quel salotto erano tappezzate di seta azzurra trapunta in oro e adorne di grandi specchi di Venezia; il pavimento spariva sotto un soffice tappeto d’oriente e le ampie finestre che davano sul mare, divise da eleganti colonnette scanellate, erano riparate da leggere tende di mussola.

Negli angoli vi erano quattro scaffali di argenterie; nel mezzo una tavola riccamente imbandita e coperta d’una candida tovaglia di Fiandra ed all’intorno delle comode poltroncine di velluto azzurro, con grosse borchie di metallo.

Du grandi ed aristici doppieri d’argento illuminavano il salotto, facendo scintillare gli specchi ed un fascio d’armi intrecciate sulla porta.

Il Corsaro invitò la giovane fiamminga e la mulatta che aveva condotta seco, ad accomodarsi poi si sedette di fronte a loro, mentre Moko, l’erculeo negro, serviva la cena su piatti d’argento che portavano inciso nel mezzo uno strano stemma, forse quello del comandante, poiché raffigurava una roccia sormontata da quattro aquile e da un disegno indecifrabile.

 

Il pasto, composto per lo piú di pesci freschi, cucinati squisitamente in varie maniere dal cuoco di bordo, di carni conservate, di dolci e di frutta dei tropici, innaffiato da scelti vini d’Italia e di Spagna, fu terminato in silenzio, poiché nessuna parola era uscita dalle labbra del Corsaro Nero, né la giovane fiamminga aveva osato trarlo dalle sue preoccupazioni.

Dopo servita la cioccolata, secondo l’usanza spagnuola, entro chicchere microscopiche di porcellana, il comandante parve decidersi a rompere il silenzio quasi cupo che regnava nel salotto.

– Perdonate, signora, – disse, guardando la giovane fiamminga; – perdonate, se io mi sono mostrato molto preoccupato durante il pasto e vi ho fatto pessima compagnia, ma quando cala la notte, una cupa tristezza piomba sovente sulla mia anima ed il mio pensiero scende nei baratri del Gran Golfo, e vola nei nebbiosi paesi che si bagnano nel Mare del Nord. Che cosa volete? Vi sono tanti tetri ricordi che tormentano il mio cuore ed il mio cervello!

– Voi! Il piú prode dei corsari! – esclamò la giovane con stupore. – Voi che scorrazzate il mare, che avete una nave che vince i piú grandi vascelli, degli uomini audaci che ad un vostro comando si fanno uccidere, che avete prede e ricchezze e che siete uno dei piú formidabili capi della filibusteria?… Voi avete delle tristezze?

– Guardate l’abito che indosso e pensate al nome che io porto. Tutto ciò non ha qualche cosa di funebre, signora?

– È vero, – rispose la giovane duchessa, colpita da quelle parole. – Voi indossate un costume tetro come la notte ed i filibustieri vi hanno dato un nome che fa paura. A Vera-Cruz dove passai qualche tempo presso il marchese d’Heredijas, ho udito raccontare sul vostro conto tante strane istorie da fare rabbrividire.

– E quali, signora? – chiese il Corsaro con un sorriso beffardo, mentre i suoi occhi che erano animati da una cupa fiamma, si fissavano in quelli della giovane fiamminga, come se avesse voluto leggerle fino in fondo all’anima.

– Ho udito raccontare che il Corsaro Nero aveva attraversato l’Atlantico assieme a due fratelli, che indossavano l’uno un costume verde e l’altro uno rosso, per compiere una tremenda vendetta.

– Ah!… – È il Corsaro, la cui fronte si rannuvolava.

– Mi hanno detto che eravate un uomo sempre cupo e taciturno, che quando le tempeste infuriavano sulle Antille, uscivate nel mare a dispetto delle onde e dei venti e che scorrazzavate senza tema il Gran Golfo, sfidando le ire della natura, perché eravate protetto dagli spiriti infernali.

– E poi? – chiese il Corsaro con voce quasi stridula.

– E poi che i due Corsari dalle divise rossa e verde erano stati appiccati da un uomo che era vostro mortale nemico e che…

– Continuate, – disse il Corsaro con voce sempre piú cupa.

Invece di terminare la frase, la giovane duchessa si era arrestata, guardando con una certa inquietudine, non esente da un vago terrore.

– Ebbene, perché v’interrompete? – chiese egli.

– Non oso, – rispose ella, esitando.

– Forse che io vi faccio paura, signora?

– No, ma…

Poi alzandosi gli chiese bruscamente:

– È vero che voi evocate i morti?

In quell’istante, sul babordo della nave, s’udí infrangersi una grande ondata, il cui colpo si ripercosse cupamente nelle profondità della stiva, mentre alcuni spruzzi di spuma balzavano fino sulle finestre del salotto, bagnando le tende.

Il Corsaro si era alzato precipitosamente, pallido come un cadavere. Guardò la giovane con due occhi che scintillavano come due carboni, ma nei quali balenava una profonda commozione, poi s’avvicinò ad una delle finestre, l’aprí e si curvò fuori.

Il mare era tranquillo e scintillava tutto sotto i pallidi raggi dell’astro notturno. La leggiera brezza, che gonfiava le vele della Folgore, non formava su quell’immensa superficie che delle leggiere increspature.

Pure sul babordo si vedeva l’acqua spumeggiare ancora contro il fianco della nave come se una grande ondata, sollevata da una forza misteriosa o da qualche fenomeno inesplicabile, si fosse rotta.

Il Corsaro Nero, immobile innanzi alla finestra, colle braccia incrociate come era sua abitudine, continuava a guardare il mare senza fare un moto e senza pronunciare una parola. Si sarebbe detto che con quei suoi occhi scintillanti volesse investigare nelle profondità del Mar Caraybo.

La duchessa gli si era silenziosamente avvicinata, ma era anch’essa pallida ed in preda ad un superstizioso terrore.

– Che cosa guardate, cavaliere? – gli chiese dolcemente.

Il Corsaro parve che non l’avesse udita, poiché non si mosse.

– A che cosa pensate? – tornò a chiedergli.

– Mi chiedeva, – rispose con voce lugubre, – se è possibile che i morti, sepolti in fondo al mare, possano abbandonare i profondi baratri dove riposano e salire alla superficie.

La giovane rabbrividí.

– Di quali morti volete parlare?… – gli chiese dopo alcuni istanti di silenzio.

– Di coloro che sono morti… invendicati.

– Dei vostri fratelli forse?

– Forse, – rispose il Corsaro, con un filo di voce.

Poi, tornando rapidamente verso la tavola ed empiendo due bicchieri di vino bianco, disse con un sorriso forzato che contrastava col livido aspetto del suo viso:

– Alla vostra salute, signora. La notte è scesa da qualche ora e voi dovete ritornare sul vostro vascello.

– La notte è calma, cavaliere, e nessun pericolo minaccia la scialuppa che deve ricondurmi, – rispose ella.

Lo sguardo del Corsaro, fino allora cosí tetro, parve che si rasserenasse tutto d’un colpo.

– Volete tenermi compagnia ancora, signora? – le chiese.

– Se non vi rincresce.

– Anzi, signora. La vita è dura sul mare, e simili distrazioni succedono cosí di rado. Voi però, se i miei sguardi non s’ingannano, dovete avere un motivo recondito per arrestarvi ancora.

– Può essere vero.

– Parlate: la tristezza che poco fa m’aveva invaso, si è dileguata.

– Ditemi, cavaliere, è vero adunque che voi avete lasciato il vostro paese per venire a compiere una tremenda vendetta?…

– Sí, o signora, ed aggiungerò che io non avrò piú bene né sulla terra né sul mare, finché non l’avrò compiuta.

– Tanto adunque odiate quell’uomo?

– Tanto che per ucciderlo darei tutto il mio sangue, fino all’ultima goccia.

– Ma che cosa vi ha fatto?

– Ha distrutto la mia famiglia, signora; ma io, due notti or sono, ho pronunciato un terribile giuramento e lo manterrò, dovessi percorrere il mondo intero e frugare le viscere della terra per raggiungere il mio mortale nemico e tutti quelli che hanno la sventura di portare il suo nome.

– E quell’uomo è qui, in America?…

– In una città del grande golfo.

– Ma il suo nome?… – chiese la giovane con estrema ansietà. – Posso io forse conoscerlo?

Il Corsaro invece di rispondere la guardò negli occhi.

– Vi preme saperlo?… – le chiese dopo alcuni istanti di silenzio. – Voi non appartenete alla filibusteria e sarebbe forse pericoloso il dirvelo.

– Oh!… Cavaliere!… – esclamò ella impallidendo.

Il Corsaro scosse il capo come se volesse scacciare un pensiero importuno, poi alzandosi bruscamente e mettendosi a passeggiare con agitazione, le disse:

– È tardi, signora. È necessario che voi torniate al vostro vascello.

Si volse verso il negro che stava immobile dinanzi alla porta come una statua di basalto nero e gli chiese:

– È pronta la scialuppa?

– Sí, padrone, – rispose l’africano.

– Chi la monta?

– Il compare bianco ed il suo amico.

– Venite, signora.

La giovane fiamminga s’era gettata sul capo la grande sciarpa di seta e si era alzata.

Il Corsaro le porse il braccio senza pronunciare sillaba e la condusse in coperta. Durante quei pochi passi, si fermò però due volte a guardarla in viso e parve che soffocasse un lieve sospiro.

– Addio, signora, – le disse, quando giunsero presso la scala.

Ella gli porse la sua piccola mano e sussultò sentendola tremare.

– Grazie della vostra ospitalità, cavaliere, – mormorò la giovane.

Egli s’inchinò in silenzio e le additò Carmaux e Wan Stiller che l’attendevano ai piedi della scala.

La giovane scese, seguita dalla mulatta, ma quando fu in fondo alzò il capo e vide sopra di sé il Corsaro Nero curvo sulla murata che la seguiva collo sguardo.

Balzò nella scialuppa e si sedette a poppa, a fianco della mulatta, mentre Carmaux e Wan Stiller afferravano i remi mettendosi ad arrancare.