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Il Corsaro Nero

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CAPITOLO XXVI. L’IMBOSCATA DEGLI ARAWAKI

Cenato in fretta, con un pezzo di testuggine che avevano serbata dal mattino e con pochi biscotti, i filibustieri perlustrarono dapprima i dintorni, per vedere se si trovavano degli indiani imboscati, poi batterono le erbe per fugare i serpenti, quindi accesero intorno al campo dei fuochi, sui quali gettarono alcune manate di pimento, ottimo rimedio contro le zanzare, ma anche contro gli assalti degli uomini e delle fiere.

Temendo, e con ragione, di non passare la notte tranquilla, decisero di vigilare prima i due marinai ed il negro, poi il Corsaro ed il catalano.

Questi ultimi, dopo aver cambiate le cariche per essere sicuri dei loro colpi, s’affrettarono a coricarsi, mentre Carmaux ed i suoi compagni si disponevano all’ingiro, dietro al cerchio di fuoco, tenendo i fucili sulle ginocchia.

La grande foresta era diventata silenziosa, ma di una calma poco rassicurante per gli uomini di guardia, cui era noto già per esperienza che gli indiani preferiscono gli attacchi notturni a quelli diurni, avendo troppo paura della precisione delle armi da fuoco, e poiché le tenebre permettono d’avvicinarsi con maggior facilità, specialmente nelle selve.

Carmaux, soprattutto, avrebbe preferito udire i miagolii dei giaguari ed i ruggiti dei coguari. La presenza di quei carnivori sarebbe stato almeno un indizio sicuro dell’assenza dei nemici dalla pelle rossa. Vegliavano da un paio d’ore cogli occhi fissi sulle macchie vicine, gettando di quando in quando sui fuochi qualche manata di pimento, quando l’africano, il cui udito doveva essere acutissimo, notò un lieve rumore di foglie mosse.

– Hai udito, compare bianco?… – mormorò egli, allungandosi verso Carmaux, che era occupato a gustare, con una beatitudine invidiabile, un pezzo di sigaro che aveva trovato in una delle sue tasche.

– Nulla, compare sacco di carbone, – rispose il filibustiere. – Niente ranocchi che abbaiano questa sera e niente rospi che martellano come i calafati.

– Un ramo si è mosso laggiú; il tuo compare negro lo ha udito.

– Allora il tuo compare bianco è sordo.

– Toh! Odi?… un ramo si è spezzato.

– Io nulla ho udito; se è vero quanto dici, vuol dire che qualcuno cerca d’avvicinarsi a noi.

– Sí, compare.

– Chi sarà poi?… Mio compare sacco di carbone non ha gli occhi dei gatti per caso? Sarebbe una gran bella cosa.

– Non vedo nulla, pure sento qualcuno avvicinarsi.

– Il mio fucile è pronto. Taci ed ascoltiamo.

– Gettati a terra, compare bianco, o le frecce ti colpiranno.

– Accetto il tuo consiglio, considerato che non ho nessuna voglia di crepare con il ventre pieno di veleno.

Si allungarono tutti e due fra le erbe, facendo segno a Wan Stiller, che si trovava dall’altra parte, di imitarli e stettero in ascolto, coi fucili in mano.

Qualcuno o piú uomini dovevano avvicinarsi. In mezzo ad una fitta macchia che si trovava lontana cinquanta passi, si vedevano, di quando in quando, delle foglie agitarsi leggermente, e si sentiva qualche ramo crepitare.

Si capiva che i nemici prendevano le loro precauzioni per giungere a tiro di freccia senza farsi scoprire.

Il negro ed i filibustieri quasi interamente nascosti fra le erbe non si muovevano, aspettando che si mostrassero per far fuoco. Ad un tratto però un improvviso pensiero fece trabalzare Carmaux.

– Compare, – disse, – credi che siano ancora lontani?

– Gl’indiani?…

– Sí, dimmelo presto.

– Sono ancora in mezzo alla macchia, ma se continuano ad avvicinarsi, fra un minuto giungeranno sul margine.

– Ho il tempo necessario, Wan Stiller, gettami la tua giacca ed il berretto.

L’amburghese s’affrettò ad obbedire, pensando, e con ragione, che se Carmaux gli aveva chiesti quegli indumenti, doveva avere qualche progetto.

Il filibustiere si era alzato per sbarazzarsi anch’egli della propria casacca. Allungò le mani intorno, afferrò alcuni rami, li incrociò alla meglio, poi li coprí colle giacche e vi mise sopra le berrette.

– Ecco fatto – disse, coricandosi.

– Mio compare è furbo, – disse il negro, ridendo.

– Se non improvvisavo quei due fantocci, gl’indiani potevano scagliare le loro frecce contro il Corsaro ed il catalano. Ora sono riparati e non correranno piú alcun pericolo.

– Zitto compare, vengono.

– Sono pronto. Ehi, Wan Stiller, un’altra manata di pimento.

L’amburghese stava per alzarsi, poi subito si abbassò. Alcuni sibili si erano uditi, e tre o quattro frecce erano andate a conficcarsi nei fantocci improvvisati.

– Veleno sprecato che non farà effetto, miei cari – mormorò Carmaux. – Aspetto che vi mostriate per farvi assaggiare i miei dolci di piombo.

Gli indiani, vedendo che nessuno aveva dato segno di vita, scagliarono altre sette od otto frecce, tornando a colpire i fantocci, poi uno di loro, il piú audace senza dubbio, balzò fuori della macchia, brandendo la sua terribile mazza.

Carmaux aveva alzato il fucile prendendolo di mira. Stava per far partire il colpo, quando in mezzo alla gran foresta ad una distanza di qualche miglio, si udirono echeggiare improvvisamente quattro spari, seguiti da urla formidabili.

L’indiano aveva fatto un fulmineo fronte indietro, rientrando nella macchia, prima che Carmaux avesse avuto il tempo di riprenderlo di mira. Il Corsaro ed il catalano, svegliati bruscamente da quei colpi di fucile e da quelle urla, si erano alzati precipitosamente, credendo che il campo fosse stato assalito dagli indiani.

– Dove sono? – chiese il Corsaro slanciandosi innanzi.

– Chi, signore? – chiese Carmaux.

– Gli indiani.

– Scomparsi, comandante, e prima ancora di aver fatto loro assaggiare i dolci del mio fucile.

– E queste grida e queste detonazioni?… Odi?… Altri tre spari!

– In mezzo alla boscaglia si combatte, – disse il catalano. – Gl’indiani hanno assalito degli uomini bianchi, signore.

– Il Governatore e la sua scorta?

– Lo credo.

– Mi rincrescerebbe che lo uccidessero loro.

– Anche a me perché non posso restituire le bastonate ad un morto, ma…

– Taci!…

Altri due spari, piú lontani, erano echeggiati, seguiti da urla furibonde mandate probabilmente da una grossa tribú d’indiani, poi un quinto colpo isolato, quindi piú nulla.

– La lotta è finita, – disse il catalano, che aveva ascoltato con una certa apprensione. – Per il governatore non mi muoverei, per gli altri che sono miei compatrioti…

– Vorresti sapere che cosa è successo di loro, è vero? – chiese il Corsaro.

– Sí, comandante.

– Ed a me premerebbe sapere se a quest’ora il mio mortale nemico è vivo o morto, – rispose il filibustiere con voce cupa. – Saresti capace di guidarci?

– La notte è oscura, signore, però…

– Continua.

– Possiamo accendere alcuni rami gommiferi.

– Ed attirare su di noi l’attenzione degli indiani.

– È vero, signore.

– Colle nostre bussole possiamo però dirigerci.

– È impossibile, signore, affrontare i centomila ostacoli che offre questa selva cosí fitta, pure…

– Tira innanzi.

– Vi sono delle cucujo laggiú e possono servire. Concedetemi cinque minuti di tempo. A me, Moko!…

Si levò il berretto ed insieme al negro si diresse verso un gruppo di alberi in mezzo ai quali si vedevano brillare dei grossi punti luminosi, a luce verdastra, che volteggiavano fantasticamente fra le tenebre.

– Che cosa vuol fare quell’indemoniato catalano? – si chiese Carmaux, che non riusciva a comprendere l’idea del furbo spagnuolo. – Le cucujo… Che cosa saranno? Ehi, amburghese, tieni pronto il fucile, onde non cadano in qualche imboscata.

– Non temere, camerata. Seguo attentamente tutti e due e sono pronto a difenderli.

Il catalano, giunto presso gli alberi, fu veduto spiccare salti a destra ed a manca, come se desse la caccia a quei punti luminosi.

Due minuti dopo era di ritorno al campo, tenendo il berretto coperto con ambe le mani.

– Ora possiamo metterci in marcia, signore, – disse al Corsaro.

– Ed in qual modo?… – chiese questi.

Il catalano cacciò una mano nel berretto ed estrasse un insetto, il quale irradiava una bella luce verde pallida, che si espandeva ad una discreta distanza.

– Leghiamoci due di queste cucujo alle gambe, come fanno gli indiani, e la luce che emettono ci permetterà di discernere non solo le liane e le radici che ingombreranno la via, ma anche i pericolosi serpenti, che si nascondono fra le foglie. Chi ha del filo?

– Un marinaio ne ha sempre, – disse Carmaux. – Mi incarico io di legare queste cucujo.

– Badate di non stringerle troppo.

– Non temere, catalano. D’altronde hai la riserva, giacché vedo che il tuo berretto è pieno.

Il filibustiere, aiutato da Wan Stiller, prese delicatamente le cucujo e le legò a due a due, alle caviglie dei suoi compagni procurando di non strozzarle. Quell’operazione, non molto facile, richiese una buona mezz’ora, ma finalmente tutti furono provvisti di quei bizzarri fanaletti viventi.

– Ingegnosa idea, – disse il Corsaro.

– Messa in pratica dagl’indiani, – rispose il catalano. – Con queste lucciole noi potremo evitare gli ostacoli che ingombrano la foresta.

– Siete pronti?…

– Tutti, – rispose Carmaux.

– Avanti e procurate di non far rumore.

Si misero in marcia, l’uno dietro all’altro, procedendo di buon passo e tenendo gli occhi fissi al suolo, per vedere dove posavano i piedi.

Le cucujo servivano a meraviglia, permettendo di distinguere le liane striscianti e le radici che serpeggiavano fra un albero e l’altro, non solo, ma perfino gli insetti notturni.

Quelle lucciole che sono le piú splendide di tutte ed anche le piú grandi, tramandano una luce cosí viva, che permette di leggere comodamente ad una distanza di trentatré e perfino trentacinque centimetri, tanta è la potenza dei loro organi luminosi.

 

Quando sono piccine irradiano una luce azzurrognola, e, diventando adulte, quella tinta si tramuta in un verde pallido d’uno splendido effetto. Anche le uova che le femmine depongono sono leggermente luminose.

Sono stati fatti degli studi curiosi su queste pyrophorus noctilucus, come vengono chiamate dagli scienziati, per conoscere quali siano gli organi che producono quella luce cosí viva, e si è trovato che consistono in tre piccole placche situate due nella parte anteriore del torace e l’altra nell’addome e che la sostanza generatrice è un albuminoide solubile nell’acqua e che si coagula col calore.

Anche strappati all’insetto, quegli organi conservano la loro facoltà luminosa per qualche tempo, e anche seccati e polverizzati diventano luminosi bagnandoli con un po’ di acqua pura.

I filibustieri continuavano la loro rapida marcia cacciandosi senza esitare in mezzo ai cespugli o passando sotto i fitti festoni di liane, scivolando fra le enormi radici che formavano delle vere reti inestricabili, o scavalcando i tronchi degli alberi caduti per decrepitezza od abbattuti dalle folgori.

I colpi di fucile erano cessati, si udivano però in lontananza delle grida che dovevano essere mandate da qualche tribú d’indiani. Ora tacevano poi echeggiavano piú acute, per poi spegnersi nuovamente. Ad intervalli si udivano anche dei flauti suonare e dei rumori sordi prodotti forse da qualche specie di tamburello.

Pareva che la battaglia fosse finita e che la tribú si fosse accampata in qualche oscuro angolo dell’immensa foresta, forse per festeggiare la vittoria o per radunarsi a qualche mostruoso banchetto, essendo abituati, in quell’epoca, gl’indiani del Venezuela, e specialmente i Caraybi e gli Arawaki, a divorare i prigionieri ed anche i nemici morti combattendo.

Il catalano affrettava sempre, spinto dal desiderio di conoscere la sorte toccata ai suoi compatrioti. Del Governatore non si preoccupava, anzi forse, in fondo al cuore, non gli sarebbe dispiaciuto di trovarlo ucciso o peggio ancora, già arrostito, ma dei suoi camerati era altra cosa e precipitava la marcia, sperando di poter giungere in loro soccorso, temendo che qualcuno fosse caduto vivo nelle mani di quegli antropofaghi.

Già le grida erano poco lontane, quando Carmaux, che camminava a fianco del catalano, mentre alzava gli occhi per evitare una liana inciampò in una massa, cadendo a terra cosí malamente da schiacciare le cucujo che teneva legate alle caviglie dei piedi.

– Corpo d’un cannone!… – esclamò, rialzandosi lentamente. – Che cos’è questo!… Lampi!… Un morto!…

– Un morto!… – esclamarono il catalano ed il Corsaro, curvandosi verso il suolo.

– Guardate!…

Un indiano d’alta statura, col capo adorno di piuma di arà e le anche coperte da un sottanino azzurro cupo, giaceva fra le foglie secche e le radici. Aveva la testa spaccata da un colpo di spada, a quanto pareva, ed il petto bucato forse da una palla. Doveva essere stato ucciso di recente, uscendogli ancora dalla ferita del sangue.

– Forse qui è avvenuto lo scontro, – disse il catalano.

– Sí, – confermò Wan Stiller. – Vedo là alcune mazze e sui tronchi degli alberi numerose frecce ancora infitte.

– Vediamo se vi è qualcuno dei miei camerati, – disse il catalano, con una certa emozione.

– Tempo perduto, – disse Carmaux. – Se qualcuno è stato ucciso, a quest’ora sarà dietro a cucinarsi.

– Qualche ferito può essersi nascosto.

– Cercate, – disse il Corsaro.

Il catalano, il negro e Wan Stiller frugarono le macchie vicine, chiamando anche sottovoce, senza però ottenere alcuna risposta.

Trovarono invece in mezzo ad un cespuglio un altro indiano il quale aveva ricevuto due palle in direzione del cuore, poi alcune mazze, qualche arco ed un fascio di frecce.

Convinti che nessun essere vivente si trovava colà, ripresero il cammino. Le grida della tribú si udivano allora assai vicine e, con una rapida marcia, i filibustieri calcolavano di giungere all’accampamento degli antropofaghi in meno di un quarto d’ora.

Sembrava veramente che gli Arawaki festeggiassero la vittoria, poiché confusi colle grida, si sentivano sempre alcuni flauti suonare delle arie allegre.

Già i filibustieri avevano attraversata la parte piú fitta della foresta, quando scorsero, attraverso il fogliame, una luce vivissima, che si proiettava in alto.

– Gl’indiani? – chiese il Corsaro arrestandosi.

– Sí, – disse il catalano.

– Accampati attorno al fuoco?…

– Sí, ma che cosa si cucinerà su quel fuoco? – disse il catalano, con emozione.

– Qualche prigioniero, forse?…

– Lo temo, signore.

– Canaglie, – mormorò il Corsaro, il quale provò involontariamente un brivido. – Venite, amici, andiamo a vedere se Wan Guld è sfuggito alla morte, o se ha trovato la punizione dei suoi delitti.

CAPITOLO XXVII. FRA LE FRECCE E GLI ARTIGLI

Quando i filibustieri giunsero dietro gli alberi che circondavano il campo indiano, una scena atroce si offerse tosto ai loro sguardi.

Due dozzine di Arawaki, seduti intorno ad un braciere gigantesco, attendevano ansiosamente il momento di satollarsi a crepapancia, con un arrosto, che finiva di cucinarsi su di un lunghissimo spiedo. Se si fosse trattato d’un enorme pezzo di selvaggina, d’un tapiro intero, o d’un giaguaro, i filibustieri non si sarebbero di certo inquietati, ma quell’arrosto consisteva in due cadaveri umani, in due bianchi, probabilmente due spagnuoli della scorta di Wan Guld.

I due disgraziati che stavano per venire assorbiti dagli intestini di quegli abominevoli selvaggi, erano già arrosolati e le loro carni cominciavano a crepitare, spandendo all’intorno un odore nauseante, che faceva dilatare le narici dei mostruosi banchettanti.

– Fulmini dell’inferno!… – esclamò Carmaux, rabbrividendo.

– Sembra impossibile che vi siano delle persone che si nutrono dei loro simili! Puah!… Che animalacci!…

– Puoi distinguere quei due disgraziati? – chiese il Corsaro al catalano.

– Sí, signore, – rispose questi con voce soffocata.

– Appartenevano alla scorta di Wan Guld?…

– Sí, sono due soldati, sono certo di non ingannarmi, quantunque il fuoco abbia distrutto le loro barbe.

– Che cosa mi consigli di fare?…

– Signore, – mormorò il catalano guardando con due occhi supplichevoli.

– Vorresti strapparli a quei mostri e dare loro onorevole sepoltura?…

– Vi creerei dei pericolosi imbarazzi, signore. Gli Arawaki ci darebbero poi la caccia.

– Bah!… Non temo quei selvaggi, – disse il Corsaro, con fierezza. – D’altronde non sono che due dozzine.

– Forse ne attendono degli altri. È impossibile che essi soli siano capaci di divorare due uomini.

– Ebbene, prima che i loro compagni giungano, noi avremo sepolti i tuoi camerati. Ehi, Carmaux, e tu Wan Stiller che siete abili bersaglieri, non mancate ai vostri colpi.

– Io abbatterò quel gigante che sta gettando sull’arrosto quelle erbe aromatiche, – rispose Carmaux.

– Ed io, – disse l’amburghese, – fracasserò la testa a quello che tiene in mano quella specie di forca della quale si serve per voltare l’arrosto.

– Fuoco! – comandò il Corsaro.

Due colpi di fucile rimbombarono, rompendo bruscamente il silenzio che allora regnava nella foresta vergine. L’indiano gigante cadde sopra l’arrosto, mentre l’altro, che brandiva la forca, si rovesciava all’indietro col cranio fracassato.

I loro compagni erano balzati precipitosamente in piedi, tenendo in pugno le mazze e gli archi, però erano cosí stupiti per quella scarica improvvisa e cosí micidiale, che non pensarono subito all’offesa. Il catalano e Moko furono pronti ad approfittarne, scaricando i loro fucili in mezzo al gruppo.

Vedendo cadere due altri compagni, gli Arawaki non ne vollero sapere di piú e si diedero alla fuga, senza piú curarsi dell’arrosto, salvandosi precipitosamente in mezzo alle macchie.

I filibustieri stavano per precipitarsi innanzi, quando in lontananza udirono alzarsi clamori furibondi.

– Mille pescicani! – esclamò Carmaux – I loro compagni si preparano a tornare.

– Lesti!… – gridò il Corsaro, – gettate i cadaveri in mezzo a qualche cespuglio se ci mancherà il tempo di seppellirli. A questo penseremo piú tardi.

– L’odore di carne abbruciata li tradirà, – disse Wan Stiller.

– Si farà quello che si potrà.

Il catalano si era slanciato innanzi e con una scossa vigorosa aveva rovesciato lo spiedo, mentre Wan Stiller a furia di calci disperdeva i tizzoni. Intanto Moko e Carmaux, impadronitisi di due mazze, scavavano frettolosamente una buca nel terreno umido e molle della foresta, mentre il Corsaro si poneva in sentinella sui margini del macchione.

Le grida degli indiani si avvicinavano rapidamente. La tribú, che doveva essersi precipitata sulle tracce di Wan Guld, udendo quegli spari echeggiare dietro le sue spalle, accorreva in aiuto degli uomini che si erano incaricati di preparare la mostruosa cena.

Il Corsaro che si era spinto piú innanzi, temendo una sorpresa di coloro che erano fuggiti, udendo rompersi dei rami a breve distanza, tornò precipitosamente verso i compagni, dicendo:

– Fuggiamo o fra cinque minuti avremo addosso l’intera tribú.

– È fatto, comandante, – disse Carmaux, che spingeva coi piedi la terra, onde coprire i due cadaveri.

– Signore, – disse il catalano, volgendosi verso il Corsaro, – se noi fuggiamo verremo inseguiti. Nascondiamoci lassú, – disse, indicando un albero enorme, che da solo formava una piccola foresta. – In mezzo a quel fogliame non verremo scoperti.

– Sei furbo, compare, – disse Carmaux. – A riva i gabbieri.

Il catalano ed i filibustieri, preceduti da Moko, si slanciarono verso quel colosso della flora tropicale, aiutandosi l’un l’altro per raggiungere presto i rami.

Quell’albero era un summameira (eriodendron summauma), uno dei piú grandi che crescono nelle foreste delle Guiane e del Venezuela, dai rami numerosissimi, lunghi assai, nodosi, coperti d’una corteccia biancastra, e dal fogliame molto fitto. Essendo queste piante, come già fu detto, sorrette alla base da un gran numero di sproni naturali formati dalle radici, i filibustieri poterono giungere, senza troppa difficoltà, ai primi rami e di là innalzarsi fino a cinquanta metri dal suolo.

Carmaux stava per accomodarsi sulla biforcazione d’un ramo, quando udí questo oscillare vivamente, come se qualcuno si fosse rifugiato all’altra estremità.

– Sei tu, Wan Stiller?… – chiese. – Vuoi farmi capitombolare?… Ti avverto che siamo a tale altezza da fracassarci le ossa.

– Che cosa vuoi dire?… – chiese il Corsaro, che gli stava sopra. – Wan Stiller è dinanzi a me.

– Chi è dunque che mi fa oscillare? Che qualche Arawako si sia rifugiato quassú?

Si guardò intorno ed a dieci passi di distanza, in mezzo ad un ammasso di foglie, radunate quasi all’estremità del ramo, vide brillare due punti luminosi d’un giallo verdastro.

– Per le sabbie d’Olonne, come dice Nau!… – esclamò Carmaux. – Con quale animale ci troviamo in compagnia?… Ehi, catalano, guarda un po’ se puoi dirmi a chi appartengono quei brutti occhi che mi fissano.

– Degli occhi!… – esclamò lo spagnuolo. – Vi è qualche bestia su quest’albero?…

– Sí, – disse il Corsaro. – Pare che siamo in cattiva compagnia.

– E gl’indiani stanno per giungere, – disse Wan Stiller.

– Vedo anch’io un paio d’occhi, – rispose il catalano, che si era alzato, – ma non saprei dire se appartengono a un coguaro o a un giaguaro.

– Ad un giaguaro!… – esclamò Carmaux, rabbrividendo. – Non ci mancherebbe altro che mi piombasse addosso e che mi facesse capitombolare sulle teste degli Arawaki.

– Silenzio, – disse il Corsaro. – Essi vengono!…

– E quell’animale che mi è cosí vicino?… – disse Carmaux, che cominciava a diventare inquieto.

– Forse non oserà assalirci. Non muoverti o ci tradirai.

– Ebbene, mi lascerò mangiare pur di salvare voi, comandante.

– Non inquietarti, Carmaux. Ho la spada in mano.

– Zitto!… Eccoli!… – disse il catalano.

Gl’indiani giungevano urlando come ossessi. Erano un’ottantina e fors’anche di piú, tutti armati di mazze, di archi ed alcuni di certe specie di giavellotti.

Essi piombarono come una banda di belve sullo spazio scoperto dove finivano di bruciare i tizzoni dispersi da Wan Stiller, ma quando invece dei due bianchi che credevano di trovare già cucinati, videro i cadaveri dei loro compagni, un’espressione di rabbia spaventevole seguí quella scoperta inaspettata.

 

Vociferavano come indemoniati, percuotevano furiosamente i tronchi degli alberi con le loro formidabili mazze, facendo un frastuono assordante e non sapendo con chi prendersela, lanciavano frecce in tutte le direzioni, saettando i cespugli e le grandi foglie dei palmizi con grande pericolo dei filibustieri che si trovavano cosí vicini.

Sfogato il primo impeto di rabbia, cominciarono a sparpagliarsi, mettendosi a frugare i dintorni con la speranza di scoprire gli uccisori dei loro compagni e di regalarsi un nuovo arrosto, che supplisse quello cosí misteriosamente scomparso.

I filibustieri, nascosti fra il folto fogliame del summameira, non fiatavano, lasciando che gli antropofaghi sfogassero la loro collera. Si preoccupavano invece piú del maledetto animale che aveva cercato un rifugio sui rami dell’albero gigante, soprattutto Carmaux che si trovava cosí vicino e che vedeva brillare sempre, in mezzo alle foglie, quegli occhi gialli verdastri. Quel coguaro o giaguaro che fosse, fino allora non si era mosso, non vi era però da fidarsi e poteva da un istante all’altro precipitarsi sul disgraziato filibustiere, richiamando in tal modo l’attenzione degli indiani.

– Dannato animale! – mormorò Carmaux, che si agitava sul ramo. – Non mi perde di vista un solo istante!… Ehi, catalano, dimmi un po’ entro quali budelle dovrò finire, se si decide a saltarmi addosso.

– Tacete, o gli indiani ci udranno, – rispondeva il catalano che gli stava sotto.

– Al diavolo anche l’arrosto umano! Era meglio lasciare che quei selvaggi se lo divorassero in pace. Già, anche sepolti non masticheranno piú tabacco, né bistecche! Se poi…

Uno scricchiolio che veniva dall’estremità del ramo gl’interruppe la frase. Guardò con occhi smarriti l’animale e lo vide agitarsi come se cominciasse ad essere stanco della sua non troppo comoda posizione.

– Capitano, – mormorò Carmaux, – credo che si prepari a mangiarmi.

– Non muoverti, – rispose il Corsaro. – Ti ho detto che ho la spada in mano.

– Sono certo che non mancherete il colpo, ma…

– Zitto: vi sono due indiani che ronzano sotto di noi.

– Ehm! Come getterei volentieri sulle loro teste quell’animalaccio del malanno.

Guardò verso l’estremità del ramo e vide la fiera ritta sulle quattro zampe come se si preparasse a spiccare un salto.

– Che se ne vada? – pensò, respirando. – Sarebbe ora che si decidesse a lasciare il posto.

Guardò giú e vide confusamente due ombre che giravano attorno all’albero, fermandosi ad esaminare gli alti sproni, sotto i quali potevano comodamente celarsi parecchie persone.

– Finirà male, – mormorò.

I due indiani s’intrattennero alcuni minuti alla base del colosso, poi si allontanarono cacciandosi in mezzo ai cespugli. I loro compagni dovevano già trovarsi molto innanzi, cominciando le loro grida a diventare fioche.

Il Corsaro attese alcuni minuti, poi non udendo piú nulla, convinto che gli Arawaki si fossero definitivamente allontanati, disse a Carmaux:

– Prova a scuotere il ramo.

– Che cosa volete fare, comandante?

– Sbarazzarti di quella pericolosa compagnia. Ehi, Wan Stiller, sta’ pronto a colpire con la tua sciabola.

– Ci sono anch’io, padrone, – disse Moko, che si era rizzato sul ramo che occupava, stringendo per la canna il suo pesante fucile. – Con un buon colpo di mazza getterò giú quella bestia.

Carmaux, completamente rassicurato, vedendosi intorno tanti difensori, si mise a saltare furiosamente, scuotendo il fogliame.

L’animale, comprendendo forse che l’avevano con lui, fece udire un sordo miagolio, poi si mise a soffiare come un gatto in collera.

– Forza, Carmaux, – disse il catalano. – Se non si muove, ciò indica che ha piú paura di te. Scuoti forte e gettalo giú.

Il filibustiere s’aggrappò ad un ramo superiore e raddoppiò i salti.

L’animale, rifugiato all’estremità del fogliame, oscillava a destra ed a manca, manifestando il poco piacere che provava per quella danza di nuovo genere, con miagolii e soffi piú acuti.

Si udivano le sue unghie stridere sul ramo cercando un nuovo appoggio e si vedevano i suoi occhi dilatarsi per la paura.

Ad un tratto, temendo forse di fare un brutto capitombolo, prese un partito disperato. Si raccolse su se stesso, poi balzò su di un ramo che gli stava sotto, passando sopra la testa del catalano e cercò di guadagnare il tronco per slanciarsi poi a terra.

L’africano vedendolo passare, gli vibrò al volo un colpo col calcio del fucile, colpendolo in pieno e facendolo precipitare al suolo senza vita.

– Morto? – chiese Carmaux.

– Non ha avuto nemmeno il tempo di mandare un grido, – rispose Moko, ridendo.

– Era un giaguaro?… Mi pare un po’ piccolo per essere uno di quei sanguinari predoni.

– Hai avuto paura per nulla, compare, – disse l’africano. – Bastava una legnata per accopparlo.

– Che cos’era, adunque?…

– Un maracaya.

– Ne so meno di prima.

– Un animale che somiglia bensí al giaguaro, ma che non è altro che un grosso gatto, – disse il catalano. – È un predatore di scimmie e di uccelli, che non osa prendersela con gli uomini.

– Ah!… brigante!… – esclamò Carmaux. – Se l’avessi saputo prima, l’avrei preso per la coda, ma mi vendicherò della paura che mi ha fatto provare. Dopo tutto, i gatti bene arrostiti non sono cattivi.

– Oh! Il mangiagatti!…

– Te lo farò assaggiare, catalano del mio cuore, e vedremo se farai smorfie.

– Forse no, tanto piú che siamo a corto di viveri e che la foresta che dovremo attraversare sarà ben povera di selvaggina.

– Perché? – chiese il Corsaro.

– È la foresta paludosa, signore, la piú difficile da attraversare.

– È vasta?…

– Si spinge fino presso Gibraltar.

– Impiegheremo molto ad attraversarla? Non vorrei giungere a Gibraltar dopo l’Olonese.

– In quattro o cinque giorni spero che riusciremo ad attraversarla.

– Giungeremo in tempo, – disse il Corsaro, come parlando fra se stesso. – Credo che sia un’imprudenza rimetterci in marcia…

– Gli indiani non sono ancora abbastanza lontani, signore. Vi consiglierei di passare la notte su quest’albero.

– Ma intanto Wan Guld s’allontana.

– Nella foresta paludosa lo raggiungeremo, signore, ne sono certo.

– Ho paura che egli possa giungere a Gibraltar prima di me, e che mi sfugga una seconda volta.

– A Gibraltar ci sarò anch’io, signore, e non lo perderò di vista. Non ho dimenticato le venticinque legnate che mi ha fatto dare.

– Tu a Gibraltar!… Cosa vuoi dire?

– Che vi entrerò prima di voi e perciò lo sorveglierò.

– E perché prima di noi?…

– Signore, sono uno spagnuolo, – disse il catalano, con tono grave. -

– Continua.

Spero che voi mi permetterete di farmi uccidere a fianco dei miei camerati e che non mi costringerete a battermi fra le vostre file contro lo stendardo di Spagna.

– Ah!… Tu vuoi difendere Gibraltar?

– Prendere parte alla sua difesa, comandante.

– Hai premura di lasciare questo mondo? Gli spagnuoli di Gibraltar morranno tutti.

– Ebbene, sia, ma morranno con le armi in pugno, attorno alla gloriosa bandiera della patria lontana, – disse il catalano con voce commossa.

– È vero, sei un valoroso, – rispose il Corsaro con un sospiro.

– Sí, andrai prima di noi a combattere a fianco dei tuoi camerati. Wan Guld è un fiammingo, ma Gibraltar è spagnuola.