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Il Corsaro Nero

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– Ve lo dirò, cavaliere, quando voi mi avrete data la vostra parola di perdonare ai miei complici.

– Ai vostri complici?

– Comprenderete che da sola non avrei potuto imbarcarmi di nascosto sulla vostra nave e starmene rinchiusa quattordici giorni in una cabina.

– Nulla potrei rifiutare a voi, signora; e coloro che hanno disobbedito ai miei ordini, ma che nello stesso tempo mi hanno preparata una cosí deliziosa sorpresa, sono già perdonati. I loro nomi, signora.

– Wan Stiller, Carmaux ed il negro.

– Ah!… Essi!… – esclamò il Corsaro. – Avrei dovuto sospettarlo!… Ma come avete potuto ottenere la loro cooperazione?… I filibustieri che disobbediscono ai comandi dei loro capi, si fucilano, signora.

– Erano convinti di non fare un dispiacere al loro comandante, perché si erano accorti che voi, cavaliere, segretamente mi amavate.

– E come hanno fatto ad imbarcarvi?…

– Vestita da marinaio, di notte, assieme ad essi, affinché nessuno potesse accorgersi della mia presenza.

– E vi hanno nascosta in una di queste cabine? – chiese il Corsaro, sorridendo.

– In quella attigua alla vostra.

– E quei bricconi, dove si sono cacciati?…

– Sono sempre rimasti nascosti nella stiva, però venivano a trovarmi di frequente per portarmi dei viveri che sottraevano alla dispensa del cuciniere.

– I volponi!… Quanta affezione in questi ruvidi uomini!… Sfidano la morte per veder felici i loro capi, eppure… chissà quanto potrà durare questa felicità! – aggiunse poi, con accento quasi triste.

– E perché, cavaliere?… – chiese la giovane con inquietudine.

– Perché fra due ore l’alba sorgerà ed io dovrò lasciarvi.

– Cosí presto?… Ci siamo appena veduti che già pensate di allontanarvi!… – esclamò la fiamminga, con doloroso stupore.

– Appena il sole spunterà sull’orizzonte, in questo golfo si combatterà una delle piú tremende lotte che abbiano impegnati i corsari della Tortue. Ottanta bocche da fuoco tuoneranno senza tregua contro i forti che difendono il mio mortale nemico e seicento uomini si slanceranno all’assalto, decisi a vincere od a morire; ed io, lo potete immaginare, sarò alla loro testa per guidarli alla vittoria.

– Ed a sfidare la morte!… – esclamò la duchessa con terrore. – Se una palla vi colpisse?…

– La vita degli uomini è nelle mani di Dio, signora.

– Ma voi mi giurerete di essere prudente.

– Sarà impossibile. Pensate che sono due anni che io attendo l’istante per punire quell’infame.

– Che cosa può aver fatto quell’uomo, perché voi nutriate verso di lui odio cosí implacabile?…

– Mi ha ucciso tre fratelli, ve lo dissi, e commise un infame tradimento.

– Quale?…

Il Corsaro non rispose. Si era messo a passeggiare pel salotto, colla fronte aggrottata, lo sguardo torvo e le labbra contratte. Ad un tratto s’arrestò, retrocesse lentamente verso la giovane, che lo osservava con una viva angoscia dipinta sul viso e sedendosi accanto a lei disse:

– Ascoltatemi e giudicherete se il mio odio sia giustificato.

Sono trascorsi dieci anni da quell’epoca, ma ricordo tutto come fosse ieri.

Era scoppiata la guerra del 1686 fra la Francia e la Spagna, pel possesso delle Fiandre. Luigi XIV, assetato di gloria, nel fiore della sua potenza, volendo schiacciare il suo formidabile avversario, che tante vittorie aveva già riportate sulle truppe francesi, aveva invase arditamente le provincie che il terribile duca d’Alba aveva conquistate e domate col ferro e col fuoco. In quell’epoca, esercitando Luigi XIV una grande influenza sul Piemonte, aveva chiesto soccorso al duca Vittorio Amedeo II, il quale non aveva potuto rifiutarsi dal mandargli tre dei suoi piú agguerriti reggimenti: quelli d’Aosta, di Nizza e della Marina. In quest’ultimo, in qualità d’ufficiali, servivamo io ed i miei tre fratelli, il maggiore dei quali non contava che trentadue anni ed il minore che doveva piú tardi diventare il Corsaro Verde, solamente venti. Recatisi nelle Fiandre, i nostri reggimenti si erano già valorosamente battuti piú volte al passaggio della Schelda, a Gand, a Tournay, coprendosi ovunque di gloria. Le armi alleate dovunque avevano trionfato, respingendo gli spagnuoli verso Anversa, quando un bel giorno, o meglio un brutto giorno, una parte del nostro reggimento Marina, essendosi spinto verso le bocche della Schelda per occupare una rocca abbandonata dal nemico, si trovò improvvisamente assalito da tale numero di spagnuoli, da essere costretto ad asserragliarsi piú che in fretta entro le mura, salvando a grande stento le artiglierie. Fra i difensori c’eravamo noi quattro. Tagliati fuori dall’esercito francese, accerchiati da tutte le parti da un nemico dieci volte piú numeroso e risoluto a riconquistare la rocca, che per lui era di grande importanza, essendo la chiave d’uno dei principali bracci della Schelda, non avevamo altra alternativa che di arrenderci o morire. Di resa nessuno ne parlava, anzi avevamo giurato di farci seppellire sotto le rovine, piuttosto di abbassare la gloriosa bandiera dei prodi duchi di Savoia. Al comando del reggimento, Luigi XIV aveva, non saprei per quale motivo, destinato un vecchio duca fiammingo, che si diceva godesse fama di valoroso ed esperimentato guerriero. Essendosi trovato colle nostre compagnie, il giorno in cui eravamo stati sorpresi, aveva assunta la direzione della difesa. La lotta era cominciata con pari furore d’ambo le parti. Ogni giorno le artiglierie nemiche ci rovinavano i bastioni, e tutte le mattine eravamo in grado di resistere, poiché alla notte riparavamo frettolosamente i guasti. Per quindici giorni e quindici notti gli assalti si succedettero con gravi perdite d’ambo le parti. Ad ogni intimazione di resa rispondevamo a colpi di cannone. Mio fratello maggiore era diventato l’anima della difesa. Prode, gagliardo, destro nel maneggio di tutte le armi, dirigeva le artiglierie e le fanterie, sempre primo negli attacchi, ultimo nelle ritirate. Il valore di quel bel guerriero aveva fatto nascere nel cuore del comandante fiammingo una sorda gelosia, che doveva piú tardi avere per noi tutti fatali conseguenze. Quel miserabile, dimenticando che aveva giurato fedeltà alla bandiera del duca e che macchiava uno dei piú bei nomi dell’aristocrazia fiamminga segretamente, s’accordava cogli spagnuoli per farli entrare nella rocca a tradimento. Una carica di governatore nelle colonie d’America ed una grossa somma di denaro dovevano essere il prezzo dell’ignominioso patto. Una notte, seguito da alcuni fiamminghi suoi parenti, apriva una delle pusterle, lasciando il passo ai nemici che si erano furtivamente avvicinati alla rocca. Mio fratello maggiore, che vegliava poco lontano con alcuni soldati, accortosi dell’entrata degli spagnuoli, si precipita incontro a loro dando l’allarme, ma il traditore lo aspettava dietro l’angolo di un bastione con due pistole in mano. Mio fratello cadde ferito a morte ed i nemici entrarono furiosamente in città. Combattemmo per le vie, nelle case, ma invano. La rocca cadde e noi potemmo appena salvarci con pochi fidi e con una precipitosa ritirata a Coutray. Ditemi signora, avreste voi perdonato a quell’uomo?

– No, – rispose la duchessa.

– E non perdonammo noi infatti. Avevamo giurato di uccidere il traditore e di vendicare nostro fratello, e cessata la guerra lo cercammo a lungo, nelle Fiandre prima ed in Spagna poi. Saputo che era stato nominato governatore di una delle piú forti città delle colonie d’America, io ed i miei fratelli minori, armati di tre legni, salpammo pel Gran Golfo, divorati da un desiderio insaziabile di punire, presto o tardi, il traditore. Diventammo corsari. Il Corsaro Verde, piú impetuoso e meno esperto, volle tentare la sorte, cadde invece nelle mani del nostro mortale nemico e fu ignominiosamente appiccato come un volgare ladrone; poi tentò la sorte il Corsaro Rosso e non ebbe miglior fortuna. I miei due fratelli, da me sottratti alla forca, riposano in mare ove attendono la mia vendetta, e se Dio m’aiuta, fra due ore, il traditore sarà nelle mie mani.

– E che cosa farete di lui?

– Lo appiccherò, signora, – rispose freddamente il Corsaro. – Poi sterminerò quanti hanno la sventura di portare il suo nome. Egli ha distrutta la mia famiglia; io distruggerò la sua. L’ho giurato la notte che il Corsaro Rosso scendeva negli abissi del mare e manterrò la parola.

– Ma dove ci troviamo noi? Qual è la città che governa quell’uomo.

– Lo saprete presto.

– Ma il suo nome? – chiese la duchessa, con angoscia.

– Vi preme saperlo?…

La giovane fiamminga aveva portato alla fronte un fazzoletto di seta. Forse quella bella fronte, in quel momento, era coperta di stille di freddo sudore.

– Non so, – disse, con voce rotta. – In mia gioventú, mi parve aver udito raccontare, da alcuni uomini d’armi che servivano mio padre una storia che somiglia a quella che voi mi avete or ora narrata.

– È impossibile, – disse il Corsaro. – Voi non siete mai stata in Piemonte.

– No, mai; ma vi prego, ditemi il nome di quell’uomo.

– Ebbene, ve lo dirò: egli è il duca Wan Guld…

Nel medesimo istante un colpo di cannone si udí rombare fragorosamente sul mare.

Il Corsaro Nero si era slanciato fuori del salotto, gridando:

– L’alba!…

La giovane fiamminga non aveva fatto alcun moto per trattenerlo. Aveva portato ambe le mani al capo, con un gesto di disperazione, poi era piombata sul tappeto, senza mandare un solo grido, come se fosse stata improvvisamente fulminata.

CAPITOLO XIX. L’ASSALTO DI MARACAIBO

Quel colpo di cannone era stato sparato dalla nave dell’Olonese, la quale era passata all’avanguardia, mettendosi in panna a due miglia da Maracaibo, dinanzi al forte situato su di un’altura e che assieme a due isole difendeva la città.

Alcuni filibustieri, che erano già stati nel Golfo di Maracaybo col Corsaro Verde e col Rosso, avevano consigliato l’Olonese di sbarcare colà i bucanieri, per prendere fra due fuochi il forte che dominava l’entrata del lago, ed il filibustiere si era affrettato a dare il segnale delle operazioni guerresche.

 

Con rapidità prodigiosa, tutte le scialuppe delle dieci navi erano state calate in mare e i bucanieri e i filibustieri destinati a sbarcare vi si erano affollati, portando con loro i fucili e le sciabole d’abbordaggio.

Quando il Corsaro Nero giunse sul ponte, Morgan aveva già fatto scendere nelle scialuppe sessanta uomini, scelti tra i piú intraprendenti ed i piú robusti.

– Comandante, – disse rivolgendosi al Corsaro Nero, – non vi è un istante da perdere. Fra pochi minuti gli uomini da sbarco cominceranno l’attacco del forte ed i nostri filibustieri devono essere i primi a montare all’assalto.

– Ha mandato qualche ordine l’Olonese?…

– Sí, signore. Ha comandato alla flotta di non esporsi al fuoco del forte.

– Sta bene, affido a voi il comando della mia Folgore.

Indossò rapidamente la corazza di combattimento, che un mastro gli aveva recata, e scese nella grande scialuppa che lo aspettava sotto la scala di babordo, montata da trenta uomini e armata d’un petriere.

Cominciava ad albeggiare, bisognava quindi affrettarsi a sbarcare, prima che gli spagnuoli del forte potessero radunare ingenti forze.

Tutte le scialuppe, cariche d’uomini, solcavano rapidamente le acque, puntando verso una spiaggia boscosa che si alzava ripida, tramutandosi in una collinetta, e sulla cui cima si vedeva giganteggiare il forte, una solida rocca armata di sedici cannoni di grosso calibro e, probabilmente, ben munita di difensori.

Gli spagnuoli, messi sull’allarme dal primo colpo di cannone fatto sparare dall’Olonese, si erano affrettati a lanciare alcune bande di soldati giú pei declivi del colle, onde contrastare il passo ai filibustieri, e ad aprire un fuoco violentissimo colle loro grosse artiglierie.

Le bombe grandinavano, battendo lo specchio d’acqua occupato dalle scialuppe e facendo balzare alti spruzzi di acqua; i filibustieri erano però cosí valenti che di rado si lasciavano colpire.

Con manovre fulminee, con virate di bordo vertiginose, non lasciavano tempo ai nemici di prenderli di mira.

Le tre scialuppe, montate dall’Olonese, dal Corsaro Nero e da Michele il Basco, erano passate in prima linea ed essendo montate dai piú robusti rematori, procedevano rapide, per giungere a terra prima che i drappelli spagnuoli, che già scendevano attraverso i boschi, potessero prendere posizione sulle sponde.

Le navi corsare erano rimaste indietro, per non esporsi al fuoco dei sedici grossi pezzi del forte, ma la Folgore, comandata da Morgan, si era avanzata fino a mille passi dalla spiaggia e proteggeva lo sbarco, tirando coi suoi due cannoni da caccia.

In quindici minuti, non ostante quel furioso cannoneggiamento, le prime scialuppe approdano. I filibustieri ed i bucanieri che le montano, senza attendere i compagni, sbarcano precipitosamente e si scagliano attraverso la boscaglia coi loro capi, per respingere i drappelli spagnuoli che si erano imboscati sul pendio della collina.

– All’assalto, miei prodi!… – urla l’Olonese.

– Su, uomini del mare!… – tuona il Corsaro Nero, che si avanza colla spada nella destra ed una pistola nella sinistra.

Gli spagnuoli, messi in imboscata, cominciarono a far piovere sugli assalitori una grandine di palle, però con poco profitto a causa degli alberi e dei fitti cespugli che coprono i pendii del colle.

Anche i cannoni del forte tuonano con fragore assordante, scagliando in tutte le direzioni i loro grossi proiettili. Gli alberi si schiantano e rovinano al suolo con fracasso; i rami piombano a destra ed a sinistra e la mitraglia fa piovere addosso agli assalitori nembi di foglie e di frutta; nulla però può arrestare lo slancio dei formidabili filibustieri e dei bucanieri della Tortue.

Si scagliano innanzi come una tromba devastatrice, piombano addosso ai drappelli spagnuoli, assalendoli con le sciabole d’abbordaggio, e li fanno a pezzi, malgrado l’ostinata resistenza.

Pochi nemici scampano all’eccidio, poiché quasi tutti avevano preferito cadere con le armi in pugno, piuttosto di cedere il campo ed arrendersi.

– Assaliamo il forte!… – urla l’Olonese.

Incoraggiati da quel primo successo, i corsari si slanciano su pel colle, procurando di tenersi nascosti in mezzo alla fitta vegetazione.

Erano piú di cinquecento, essendo stati raggiunti dai compagni, pure l’impresa non era facile, essendo sprovvisti di scale. Per di piú la guarnigione spagnuola, composta di duecentocinquanta valorosi soldati, si difendeva con grande vigore, non accennando a cedere.

Essendo il forte situato in una posizione assai elevata, i cannoni avevano ancora buon gioco e fulminavano i boschi con uragani di mitraglia, minacciando di sterminare gli assalitori.

L’Olonese e il Corsaro Nero, prevedendo una resistenza disperata, si erano arrestati per consigliarsi.

– Perderemo troppa gente, – disse l’Olonese. – Bisogna trovare un mezzo per aprire una buona breccia o ci faremo schiacciare.

– Non ve n’è che uno, – rispose il Corsaro.

– Parla, spicciati.

– Tentare di far scoppiare una mina alla base dei bastioni.

– Credo che sia il modo migliore, ma chi oserà affrontare un simile pericolo!

– Io, – disse una voce dietro di loro.

Si volsero e videro Carmaux seguito dall’inseparabile Wan Stiller e dal compare negro.

– Ah!… Sei tu, briccone?… – chiese il Corsaro. – Che cosa fai qui?

– Vi seguivo, comandante. Mi avete perdonato, quindi non avevo piú timore di farmi fucilare.

– No, non ti si fucilerà, però andrai a far scoppiare la mina.

– Ai vostri ordini, comandante. Tra un quarto d’ora apriremo una breccia.

Poi rivolgendosi verso i suoi due amici:

– Ehi, Wan Stiller, vieni, – gli disse, – e tu Moko va’ a prendere trenta libbre di polvere ed una buona miccia.

– Spero di rivederti ancora vivo, – disse il Corsaro con voce commossa.

– Grazie dell’augurio, comandante, – rispose Carmaux, allontanandosi precipitosamente.

Intanto i filibustieri ed i bucanieri continuavano ad inoltrarsi attraverso gli alberi, tentando, con dei colpi ben aggiustati, di allontanare gli spagnuoli dai merli e di abbattere gli artiglieri.

Il presidio, nondimeno, resisteva con ostinazione ammirabile, facendo un fuoco infernale. Il forte sembrava un cratere in piena eruzione. Gigantesche nuvole di fumo s’alzavano su tutti i bastioni, traforate dai getti di fuoco dei sedici grossi cannoni. Palle e nembi di mitraglia scendevano rasente al suolo, massacrando le piante e lacerando i cespugli in mezzo ai quali si tenevano nascosti i filibustieri, in attesa del momento opportuno per slanciarsi all’assalto.

D’improvviso sulla cima del colle si udí un formidabile scoppio, che si ripercosse lungamente sotto i boschi e sul mare. Una fiamma gigantesca fu veduta alzarsi su un fianco del forte, poi una pioggia di rottami cadde impetuosamente sugli alberi, schiantando centinaia di rami e storpiando ed uccidendo non pochi assalitori.

In mezzo alle grida degli spagnuoli, al rimbombo delle artiglierie ed al tuonare dei fucili, si udí echeggiare la voce metallica del Corsaro Nero.

– Su, all’attacco, uomini del mare!…

I filibustieri ed i bucanieri, vedendolo slanciarli sul terreno scoperto, si precipitano dietro di lui assieme all’Olonese. Superano le ultime alture senza arrestarsi, attraversano correndo la spianata ed irrompono contro il forte.

La mina fatta scoppiare da Carmaux e dai suoi amici aveva aperta una breccia in uno dei bastioni principali.

Il Corsaro Nero vi si era già slanciato dentro, superando i rottami ed i cannoni travolti dallo scoppio e la sua formidabile spada s’affannava a respingere i primi avversari, colà accorsi a difendere il passo.

I corsari si gettano dietro di lui colle sciabole d’arrembaggio in pugno, urlano a piena gola per spargere maggior terrore, rovesciano col loro impeto irresistibile i primi spagnuoli ed irrompono, come un torrente che straripa, entro il forte.

I duecentocinquanta uomini che lo difendono non possono resistere a tanta furia. Cercano di trincerarsi dietro gli spalti, ma vengono ricacciati; tentano di raggrupparsi nel piazzale per impedire che il grande stendardo di Spagna venga ammainato e colà pure vengono sgominati, inseguiti lungo i bastioni interni e cadono tutti piuttosto che arrendersi.

Il Corsaro Nero, vista calare la bandiera, s’affrettò a rivolgersi contro la città ormai indifesa. Radunati cento uomini, scese di corsa il colle ed irruppe nelle vie già deserte di Maracaybo.

Tutti erano fuggiti, uomini, donne e fanciulli, riparando nei boschi per salvare gli oggetti piú preziosi; ma che importa al Corsaro Nero?

Non era per saccheggiare la città che aveva organizzata la spedizione, bensí per avere nelle mani il traditore.

Egli trascinava i suoi uomini in una corsa vertiginosa, ansioso di giungere al palazzo di Wan Guld.

Anche la Plaza de Granada era deserta, ed il portone del palazzo del Governatore aperto e senza guardie.

– Mi sarebbe sfuggito? – si chiese il Corsaro, coi denti stretti. – Dovessi però inseguirlo fin entro il continente, non lo abbandonerò.

Vedendo il portone aperto, i filibustieri che lo avevano seguito si erano arrestati temendo qualche tradimento. Il Corsaro però aveva continuato ad avanzare con prudenza, sospettando anche lui qualche sorpresa.

Stava per varcare la soglia ed entrare nel cortile, quando si sentí fermare da una robusta mano, che gli si era posata su di una spalla e da una voce che diceva:

– Non voi, mio comandante. Se permettete, entrerò prima io.

Il Corsaro si era fermato colla fronte aggrottata e si vide dinanzi Carmaux, nero per la polvere, colle vesti stracciate, il viso insanguinato, ma piú vivo che mai.

– Ancora tu!… – esclamò. – Credevo che la mina non ti avesse risparmiato.

– Ho la pelle dura, mio capitano, ed al pari di me devono averla l’amburghese e l’africano poiché mi seguono.

– Avanti dunque!

Carmaux ed i suoi compagni, che lo avevano già raggiunto, neri di polvere come lui e non meno stracciati, si precipitarono entro il cortile colle sciabole d’arrembaggio e le pistole in pugno, seguiti dal Corsaro e da tutti gli altri filibustieri. Non vi era nessuno.

Soldati, staffieri, scudieri, servi, schiavi, tutti erano fuggiti dietro gli abitanti cercando anche essi un rifugio nei fitti boschi della costa. Fu trovato solamente un cavallo, sdraiato al suolo con una gamba rotta.

– Hanno sloggiato, – disse Carmaux. – Bisogna collocare sul portone un cartello con sopra scritto: palazzo da affittare.

– Saliamo, – disse il Corsaro, con voce sibilante.

I filibustieri si rovesciarono sugli scaloni e salirono ai piani superiori; ma anche là tutte le porte erano aperte, le stanze e le sale deserte, i mobili tutti sottosopra, i forzieri spalancati e vuoti. Tutto annunziava una precipitosa ritirata. Ad un tratto si udirono echeggiare, in una stanza, delle grida. Il Corsaro, che aveva percorse tutte le sale di corsa, si diresse da quella parte e vide Carmaux e Wan Stiller che stavano trascinando a forza un soldato spagnuolo, alto, allampanato, secco come un chiodo.

– Lo riconoscete, comandante? – gridò Carmaux, spingendo violentemente il disgraziato prigioniero.

Il soldato spagnuolo, vedendosi dinanzi il Corsaro, si levò il casco d’acciaio adorno d’una piuma spennacchiata e molto frusta, e, curvando la sua lunga e magra schiena, disse, con voce tranquilla:

– Vi aspettavo, signore, e son ben lieto di rivedervi.

– Come! – esclamò il Corsaro. – Ancora voi?…

– Sí, lo spagnuolo della foresta, – rispose l’uomo allampanato, sorridendo. – Non avete voluto appiccarmi e perciò sono ancora vivo.

– Tu la pagherai per tutti, furfante! – gridò il Corsaro.

– Avrei forse avuto torto ad aspettarvi? Sarebbe stato meglio, in tal caso, che avessi preso il largo dietro agli altri.

– Tu mi aspettavi?

– Chi mi avrebbe impedito di fuggire?

– È vero, e perché sei rimasto?

– Perché volevo vedere ancora colui che mi ha generosamente salvata la vita, la notte che ero caduto nelle sue mani.

– Tira innanzi.

– Poi, perché volevo rendere un piccolo servizio al Corsaro Nero.

– Tu!

– Eh! eh! – fe’ lo spagnuolo, sorridendo. – Vi stupisce?

– Sí… lo confesso.

– Sappiate allora che il governatore, quando seppe che io ero caduto nelle vostre mani e che voi non mi avevate appeso ad un ramo con una corda al collo, per ricompensa mi fece dare venticinque legnate. Capite!… Bastonare me, don Bartolomeo dei Barboza e dei Camargua, discendente da una delle piú vecchie nobiltà della Catalogna!… Carramba!!

 

– Finiscila.

– Ho giurato di vendicarmi di quel fiammingo, che tratta i soldati spagnuoli come se fossero cani ed i nobili come fossero schiavi indiani, e vi ho aspettato. Voi siete venuto qui per ucciderlo, ma egli, quando ha veduto cadere il forte in vostra mano, è fuggito.

– Ah!… È fuggito?

– Sí, però io so dove, e vi condurrò sulle sue tracce.

– Non m’inganni tu? Bada che se tu menti, farò scorticare il tuo magro corpo.

– Non sono nelle vostre mani? – disse il soldato.

– È vero.

– Potete quindi farmi scorticare con vostro comodo.

– Allora parla. Dov’è fuggito Wan Guld?

– Nella foresta.

– Dove vuole andare?

– A Gibraltar.

– Seguendo la costa?

– Sí, comandante.

– Conosci la via tu?

– Meglio degli uomini che l’accompagnano.

– Quanti ne ha con sé?

– Un capitano e sette soldati fidatissimi. Per marciare attraverso ai fitti boschi della costa bisogna essere in pochi.

– E gli altri soldati, dove sono?

– Si sono dispersi.

– Sta bene, – disse il Corsaro. – Noi inseguiremo quell’infame Wan Guld, e non gli daremo tregua né giorno né notte. Ha dei cavalli con sé?

– Sí, ma dovrà lasciarli poiché a nulla gli servirebbero.

– Aspettami qui.

Il Corsaro Nero si appressò ad una scrivania, sulla quale vi era della carta, alcune penne ed un ricco calamaio di bronzo.

Prese un foglietto e scrisse rapidamente queste poche righe

«Mio caro Pietro,

«Inseguo Wan Guld attraverso le foreste con Carmaux, Wan Stiller ed il mio africano. Disponi della mia nave e dei miei uomini; quando il saccheggio sarà finito, vieni a raggiungermi a Gibraltar. Colà vi sono dei tesori da raccogliere, maggiori di quelli che troverai in Maracaybo.

«Il Corsaro Nero».

Chiuse la lettera, la consegnò ad un mastro d’equipaggio, poi congedò i filibustieri che lo avevano seguito, dicendo:

– Ci rivedremo a Gibraltar, miei valorosi. – Quindi volgendosi verso Carmaux, Wan Stiller, l’africano ed il prigioniero, disse:

– Andiamo ora a dare la caccia al mortal nemico.

– Ho portato con me una corda nuova per appiccarlo, comandante, – rispose Carmaux. – L’ho provata ieri sera e vi assicuro che funzionerà a meraviglia, senza tema che si rompa.