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Il Corsaro Nero

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CAPITOLO XVII. LA VILLA DEL CORSARO NERO

L’abitazione del celebre filibustiere era una modesta casetta di legno, costruita alla buona, col tetto coperto di foglie secche, come usavano gl’indiani delle Grandi Antille, ma abbastanza comoda e ammobiliata con un certo lusso, amando quei fieri e ruvidi uomini l’eleganza e lo sfarzo.

Si trovava a mezzo miglio dalla cittadella, sul margine della boscaglia in un luogo ameno e tranquillo, fra l’ombra delle grandi palme, le quali conservavano una frescura deliziosa.

L’Olonese introdusse il Corsaro Nero in una stanza a pianterreno, le cui finestre erano riparate da stuoie di nipa, lo fece accomodare su di un seggiolone di bambú, poi fece portare da uno dei suoi arruolati parecchie bottiglie di vino di Spagna, provenienti probabilmente dal saccheggio di qualche nave nemica e ne sturò una, riempiendo due grandi bicchieri.

– Alla tua salute, cavaliere, e agli occhi della tua dama, – disse, toccando.

– Preferisco che tu beva al felice esito della nostra spedizione, – rispose il Corsaro.

– Riuscirà pienamente, amico, e ti prometto di darti nelle mani l’uccisore dei tuoi due fratelli.

– Dei tre, Pietro.

– Oh! Oh! – esclamò l’Olonese. – Io so, ed al pari di me lo sanno tutti i filibustieri, che Wan Guld ti ha ucciso il Corsaro Verde ed il Rosso, ma che ve ne fosse un altro lo ignoravo.

– Sí, tre, – ripeté il Corsaro, con voce cupa.

– Per le sabbie d’Olonne!… E quell’uomo vive ancora?…

– Ma morrà presto, Pietro.

– Lo spero, ed io sarò pronto ad aiutarvi con tutte le mie forze:

Udiamo innanzi a tutto: lo conosci bene quel Wan Guld?…

– Lo conosco meglio degli spagnuoli che ora serve.

– Che uomo è?

– Un vecchio soldato che ha guerreggiato a lungo nelle Fiandre e che porta uno dei piú grandi nomi della nobiltà fiamminga. Un tempo era un valoroso condottiero di bande e forse, a quest’ora, avrebbe potuto aggiungere altri titoli a quello che porta, se l’oro spagnuolo non lo avesse fatto diventare un traditore.

– È vecchio?

– Deve avere ora cinquant’anni.

– Ma pare che abbia ancora una fibra dura. Si dice che sia il piú valoroso governatore che abbia la Spagna in queste colonie.

– È astuto come una volpe, energico come Montbars, e valoroso.

– Allora in Maracaybo dobbiamo aspettarci una resistenza disperata.

– Certo, Pietro, ma chi potrà resistere all’assalto di seicento filibustieri? Tu sai quanto valgono i nostri uomini.

– Per le sabbie dell’Olonne! – esclamò il filibustiere. – L’ho veduto io come si sono battuti i ventotto uomini che affrontarono con me la squadra di Los Cayos. E poi tu conosci ormai Maracaybo e saprai già quale sarà il lato debole della piazza.

– Ti guiderò io, Pietro.

– Ti trattiene nessun impegno qui?

– Nessuno.

– Nemmeno la tua fiamminga?

– Mi aspetterà, ne sono certo, – disse il Corsaro con un sorriso.

– Dove l’hai ospitata?

– Nella mia villa.

– E tu dove andrai se la tua casa è occupata?…

– Rimarrò con te.

– Ecco una fortuna che non m’aspettavo. Cosí concerteremo meglio la spedizione, assieme al Basco che verrà a pranzare con me.

– Grazie, Pietro. Partiremo adunque?

– Domani all’alba. È completo il tuo equipaggio?

– Mi mancano sessanta uomini, essendo stato costretto a mandarne una trentina sul vascello di linea catturato a Maracaybo ed avendone perduti altrettanti nella lotta.

– Bah!… Sarà facile trovarne altrettanti. Tutti ambiscono di navigare con te e di montare la tua Folgore.

– Sí, quantunque io goda fama di essere uno spirito del mare.

– Per le sabbie dell’Olonne!… Sei sempre funebre come un fantasma!… Però non lo sarai di certo con la tua duchessa.

– Forse, – rispose il Corsaro.

Si era alzato, dirigendosi verso la porta.

– Te ne vai di già?… – chiese l’Olonese.

– Sí, ho qualche affare da sbrigare, ma questa sera, un po’ tardi forse, mi troverò qui. Addio, Pietro.

– Addio, e bada che gli occhi della fiamminga non ti streghino.

Il Corsaro era già lontano. Aveva preso un altro sentiero, inoltrandosi nel bosco che si estendeva dietro la cittadella, occupando buona parte dell’isola. Superbe palme dette massimiliane, gigantesche mauritie dalle grandi foglie frastagliate e disposte a ventaglio, intrecciavano le loro fronde con quelle degli jupati e delle bossú dalle foglie rigide come se fossero di zinco, mentre sotto quei colossi della specie delle palme crescevano a profusione, senza coltura, le agave preziose che danno quel liquido, piccante e dolciastro, conosciuto sulle rive del golfo messicano col nome di aguamiele e di mezcal se fermentato, cespi di vaniglia selvatica, di pepe lungo e di pimento.

Il Corsaro Nero, però, sempre assorto nei suoi pensieri, non si arrestava a guardare quella splendida vegetazione. Affrettava sempre il passo, come se fosse impaziente di giungere in qualche luogo.

Mezz’ora dopo egli si arrestava bruscamente sul margine d’una piantagione di canne alte, dalla tinta giallo-rossiccia, che avevano, sotto i raggi del sole prossimo al tramonto, dei riflessi di porpora, dalle foglie lunghe e cadenti verso il suolo, strette attorno ad un fusto sottile che terminava in un bellissimo pennacchio bianco adorno d’una frangia delicata e che aveva delle tinte varianti fra il ceruleo ed il biondo. Era una piantagione di canne da zucchero, già giunte a completa maturazione.

Il Corsaro sostò un istante, poi si cacciò fra quei fusti, attraversando quel tratto di terreno coltivato e tornò a fermarsi dall’altra parte dinanzi ad una graziosa abitazione che si ergeva fra alcuni gruppi di palmizi, i quali la ombreggiavano interamente.

Era una casettina a due piani, somigliante a quelle che si costruiscono anche oggidí nel Messico, colle pareti dipinte in rosso, adorne di quadretti di porcellana, disposti a disegni ed il tetto coperto da una grande terrazza piena di vasi di fiori.

Una smisurata cujera, gigantesca pianta da zucche che ha foglie larghissime e numerosissime e che produce delle grosse frutta lucenti, d’un verde pallido, di forma sferica, grosse come poponi e che vuotate servono da vasi ai poveri indiani, l’avvolgeva interamente, coprendo persino le finestre e la terrazza.

Dinanzi alla porta di quella abitazione, Moko, il colosso africano, stava seduto, fumando una vecchia pipa, regalo forse del suo amico il compare bianco.

Il Corsaro stette un istante immobile, guardando prima le finestre, poi la terrazza, fece col capo un gesto d’impazienza, poi si diresse verso l’africano che si era prontamente alzato.

– Dove sono Carmaux e Wan Stiller? – gli chiese.

– Sono andati al porto, per vedere se c’erano degli ordini da parte vostra, – rispose il negro.

– Che cosa fa la duchessa?

– È nel giardino.

– Sola?…

– Colle sue donne e coi paggi.

– Che cosa sta facendo?…

– Sta preparando la tavola per voi.

– Per me?… – chiese il Corsaro, mentre la fronte gli si rischiarava rapidamente, come se un vigoroso colpo di vento avesse disperse le nubi che la offuscavano.

– Era certa che sareste venuto a cenare con lei.

– Veramente m’aspettano altrove, però preferisco la mia casa e la compagnia sua a quella dei filibustieri, – mormorò.

S’inoltrò sotto la porta, infilando una specie di corridoio, adorno di vasi di fiori esalanti delicati profumi e uscí dall’altra parte della casa, entrando in un giardino spazioso e cintato di mura cosí alte e solide, da metterlo al sicuro contro qualsiasi scalata.

Se la casa era graziosa, il giardino era pittoresco. Bellissimi viali formati da doppie file di banani, i quali colle loro grandi foglie dalla tinta verde cupo mantenevano là sotto una deliziosa frescura e già carichi di frutta lucenti e in forma di grappoli enormi, si estendevano in tutte le parti, dividendo il terreno in tante aiuole, dove crescevano i piú splendidi fiori dei tropici.

Qua e là, negli angoli, torreggiavano delle splendide persea che producono delle frutta verdi, grosse come un limone e la cui polpa condita con Xeres e zucchero è buonissima; delle passiflore che danno delle frutta squisite, grosse come uova di anitre e che contengono una sostanza gelatinosa di sapore gratissimo; delle graziose cumarú dai fiori porporini esalanti un profumo delicatissimo, e dei cavoli palmisti già irti delle loro mandorle colossali, poiché raggiungono la lunghezza di sessanta e perfino ottanta centimetri.

Il Corsaro infilò un viale e s’appressò, senza far rumore, ad una specie di capannuccia, formata da una cujera grande quanto quella che avvolgeva la casa e situata sotto la fitta ombra d’una jupati dell’Orenoco, meravigliosa palma le cui foglie raggiungono la incredibile lunghezza di cinquanta piedi, ossia di undici metri e piú.

Degli sprazzi di luce brillavano attraverso le foglie della cujera e si udivano echeggiare delle risa argentine.

Il Corsaro si era arrestato a breve distanza, guardando fra il folto fogliame.

Una tavola, coperta d’una candida tovaglia di Fiandra, era stata preparata sotto quel pittoresco ricovero.

Grandi mazzi di fiori, dai profumi deliziosi, erano stati disposti attorno a due doppieri, con gusto artistico, ed attorno a delle piramidi di frutta squisite, di ananassi, di banani, di noci di cocco verdi e di pupunha, specie di grosse pesche che si mangiano cucinate in acqua collo zucchero.

La giovane duchessa stava accomodando i fiori e le frutta, aiutata dalle due meticce.

Aveva indossata una toeletta azzurra come il cielo, con pizzi di Bruxelles, che faceva spiccare doppiamente la bianchezza della pelle, e maggiormente risaltare i biondi capelli che teneva raccolti in una grossa treccia, pendente sulle spalle. Non portava indosso nessun gioiello, contrariamente all’abitudine delle ispano-americane, tra le quali era forse lungamente vissuta, ma aveva il niveo collo cinto da una doppia fila di grosse perle fermate con uno smeraldo.

 

Il Corsaro Nero si era fermato a guardarla. I suoi occhi, animati da una viva fiamma, la osservavano attentamente, seguendo le piú piccole mosse di lei. Pareva che fosse stato abbagliato da quella nordica bellezza, poiché non osava quasi piú respirare, per tema di rompere quell’incanto.

Ad un tratto fece un gesto, urtando le foglie d’un piccolo palmizio che cresceva accanto alla capannuccia.

La giovane fiamminga, udendo stormire le foglie, si volse e vide il Corsaro. Un leggero rossore tinse tosto le sue gote, mentre le sue labbra si schiudevano ad un sorriso, mostrando i suoi piccoli denti, scintillanti come le perle che portava al collo.

– Ah!… Voi, cavaliere!… – esclamò allegramente.

Poi, mentre il Corsaro si levava galantemente il cappello, facendo un grazioso inchino, aggiunse:

– V’aspettavo… guardate: la tavola è pronta per la cena.

– M’aspettavate, Honorata? – chiese il Corsaro, deponendo un bacio sulla mano che ella le porgeva.

– La vedete, cavaliere. Ecco qui un pezzo di lamantino, una schidionata d’uccelli e dei pesci di mare che altro non attendono che di venir mangiati. Ho sorvegliato io stessa la cottura, sapete?

– Voi duchessa?

– E perché vi stupisce?… Le donne fiamminghe usano preparare colle loro mani i cibi agli ospiti ed ai mariti.

– E m’aspettavate?

– Sí, cavaliere.

– Pure, non vi avevo detto che avrei avuto l’invidiabile fortuna di cenare con voi.

– È vero, ma il cuore delle donne talvolta indovina l’intenzione degli uomini, ed il mio diceva che voi sareste venuto questa sera, – diss’ella, tornando ad arrossire.

– Signora – disse il Corsaro, – avevo promesso ad uno dei miei amici di attendermi a cena, ma vivaddio può aspettarmi finché vorrà, perché non rinuncerò al piacere di passare la serata con voi. Chissà! Forse sarà l’ultima volta che noi ci vedremo.

– Che cosa dite, cavaliere? – chiese la giovane, trasalendo. – Forse che il Corsaro Nero ha fretta di riprendere il mare?… Ritorna appena ora da un’ardita spedizione e vuol già correre in cerca di nuove avventure?… Non sa dunque che sul mare può attenderlo la morte?…

– Lo so, signora, ma il destino mi spinge ancora lontano e vi andrò.

– E nulla potrà trattenervi?… – chiese ella con voce tremula.

– Nulla, – rispose egli con un sospiro.

– Nessuna affezione?

– No.

– Nessuna amicizia? – domandò la giovane, con crescente ansietà.

Il Corsaro, che era ridiventato cupo, stava per pronunciare qualche altra risposta negativa, ma si trattenne, ed offrendo alla giovane una sedia, disse:

– Accomodatevi, signora, la cena si raffredderà e mi rincrescerebbe non far onore a questi cibi, preparati dalle vostre belle mani.

Si sedettero l’una di fronte all’altro, mentre le due meticce cominciavano a servire. Il Corsaro era diventato amabilissimo, e, pur mangiando, parlava volentieri, sfoggiando molto spirito e molta cortesia. Usava alla giovane duchessa delle gentilezze di perfetto gentiluomo, la informava sugli usi e sui costumi dei filibustieri e dei bucanieri, delle loro prodigiose gesta, delle loro straordinarie avventure; le narrava storie di battaglie, d’abbordaggi, di naufragi, d’antropofaghi ma senza mai fare la minima allusione alla nuova spedizione che stava per intraprendere in compagnia dell’Olonese e del Basco.

La giovane fiamminga lo ascoltava sorridendogli ed ammirando il suo spirito, la sua insolita loquacità e la sua amabilità, senza mai staccargli gli occhi dal viso. Pareva però preoccupata da un costante pensiero e da una curiosità invincibile, perché rispondendogli tornava sempre sull’argomento della spedizione.

Le tenebre erano calate da due ore e la luna era sorta dietro le boscaglie quando il Corsaro si alzò. Solamente in quel momento si era ricordato che l’Olonese ed il Basco lo aspettavano e che prima dell’alba doveva completare l’equipaggio della Folgore.

– Come il tempo vola presso di voi, signora! – disse. – Quale misterioso fascino possedete, per farmi dimenticare che avevo ancora dei gravi affari da terminare?… Credevo che fossero appena otto ore e sono invece le dieci.

– Credo che sia stato il piacere di riposarvi un po’ nella vostra casa, dopo tante scorrerie sul mare, cavaliere, – disse la duchessa.

– O i vostri begli occhi e la vostra piacevole compagnia, invece?

– In tal caso, cavaliere, sarà stata la vostra compagnia che mi avrà fatto passare alcune ore deliziose… e chissà se ne godremo ancora assieme, in questo poetico giardino, lontani dal mare e dagli uomini, – aggiunse ella, con una profonda amarezza.

– Talora la guerra uccide, ma talvolta la fortuna risparmia.

– La guerra!… ed il mare, non lo contate voi? La vostra Folgore non vincerà sempre le onde del Gran Golfo.

– La mia nave non teme la tempesta, quando sono io che la guido.

– E cosí, tornate presto sul mare?

– Domani all’alba, signora.

– Appena sbarcato pensate a fuggire; si direbbe che la terra vi faccia paura.

– Io amo il mare, duchessa, e poi non sarà rimanendo qui che potrò incontrare il mio mortale nemico.

– Avete sempre lui fisso nel pensiero!…

– Sempre, e quel pensiero non si spegnerà che colla mia vita.

– È per andarlo a combattere che partite?…

– Forse.

– E andrete?… – chiese la giovane, con un’ansietà che non sfuggi al Corsaro.

– Non ve lo posso dire, signora. Io non posso tradire i segreti della filibusteria. Non devo dimenticare che voi, fino a pochi giorni or sono, eravate ospite degli spagnuoli di Vera-Cruz e che avete conoscenze anche a Maracaybo.

La giovane fiamminga aggrottò la fronte, guardando il Corsaro cogli occhi oscuri.

– Diffidate di me? – chiese, con tono di dolce rimprovero.

– No, signora. Dio mi guardi dal sospettare di voi, ma io debbo obbedire alle leggi della filibusteria.

– Mi sarebbe assai rincresciuto che il Corsaro Nero avesse potuto dubitare di me. L’ho conosciuto troppo leale e troppo gentiluomo.

– Grazie della vostra buona opinione, signora.

Si era messo il cappello in capo e s’era gettato il ferraiuolo sul braccio, ma pareva che non trovasse il momento per decidersi ad andarsene. Era rimasto in piedi dinanzi alla giovane cogli occhi fissi su di lei ed il volto melanconico.

– Voi avete qualche cosa da dirmi, è vero, cavaliere? – chiese la duchessa.

– Sí, signora.

– È una cosa cosí grave da imbarazzarvi?

– Forse.

– Parlate, cavaliere.

– Vorrei chiedervi se durante la mia assenza voi lascerete l’isola.

– E se cosí facessi?… – chiese la giovane.

– Mi rincrescerebbe, signora, se al mio ritorno non vi trovassi piú.

– Ah!… E perché, cavaliere? – chiese ella, sorridendo ed arrossendo ad un tempo.

– Io non lo so il perché, ma sento che sarei cosí felice se potessi passare un’altra sera come questa, assieme a voi. Mi compenserebbe di tante sofferenze che dai lontani paesi d’oltremare trascino con me sulle acque americane.

– Ebbene, cavaliere, se a voi rincrescerebbe di non trovarmi, vi confesso che anch’io non sarei lieta se non dovessi mai piú rivedere il Corsaro Nero, – disse la giovane duchessa abbassando il capo sul seno e chiudendo gli occhi.

– Allora voi mi attenderete?… – chiese il Corsaro con impeto.

– Farei di piú, se me lo permetteste.

– Parlate, signora.

– Vi chiederei ancora una volta ospitalità, a bordo della vostra Folgore.

Il Corsaro si era lasciato sfuggire un moto di gioia, ma di improvviso divenne tetro.

– No… è impossibile, – disse poi con fermezza.

– Vi sarei forse d’impaccio?

– No, ma non è permesso ai filibustieri, allorché intraprendono una spedizione, di condurre con loro alcuna donna. È bensí vero che la Folgore è mia, che io sono padrone assoluto a bordo del mio legno ed a nessuno soggetto, pure…

– Continuate, – disse la duchessa, che era diventata triste.

– Io non lo so il perché, signora, ma io avrei paura di vedervi ancora a bordo della mia nave. È il presentimento d’una disgrazia che io non posso prevedere o qualche cosa di peggio?… Vedete: voi mi avete fatta quella domanda ed il mio cuore, invece di sussultare, ha provato una fitta crudele e poi, guardatemi: non sono pallido piú del solito io?…

– È vero! – esclamò la duchessa con ispavento. – Dio mio!… Che questa spedizione vi possa essere fatale?…

– Chi può leggere nell’avvenire?… Signora, lasciatemi partire. In questo momento io soffro, senza poterne indovinare il motivo. Addio, signora, e se dovessi inabissarmi colla mia nave nei baratri del Gran Golfo o morire sulla breccia con una palla od un ferro nel petto, non dimenticate troppo presto il Corsaro Nero!

Ciò detto uscí a rapidi passi, senza volgersi indietro, come se avesse avuto timore a trattenersi ancora colà, e, attraversato il giardino ed il corridoio, si cacciò nel bosco dirigendosi verso l’abitazione dell’Olonese.

CAPITOLO XVIII. L’ODIO DEL CORSARO NERO

All’indomani, appena sorto il sole, coll’alta marea, fra il rullare dei tamburi, il suono dei pifferi, i colpi di fucile dei bucanieri della Tortue e gli urrah strepitosi dei filibustieri delle navi ancorate, la spedizione usciva dal porto, sotto il comando dell’Olonese, del Corsaro Nero e di Michele il Basco.

Si componeva di otto navi fra grandi e piccole, armate di ottantasei cannoni, dei quali sedici imbarcati sul vascello dell’Olonese e dodici sulla Folgore, e di seicentocinquanta uomini fra filibustieri e bucanieri.

La Folgore, essendo il veliero piú veloce, navigava in testa alla squadra, dovendo servire da esploratore.

Sul corno della maestra ondeggiava la bandiera nera a fregi d’oro del suo comandante e sulla cima dell’alberetto il gran nastro rosso delle navi da combattimento; dietro venivano gli altri legni su una doppia linea, ma distanziati tanto da poter manovrare liberamente senza pericolo di urtarsi o di tagliarsi reciprocamente la via.

La squadra, uscita al largo, si diresse verso occidente, per raggiungere il canale di Sopravvento, per poi sboccare nel Mare Caraybo.

Il tempo era splendido, il mare tranquillo ed il vento favorevole, soffiando dal nord-est, sicché tutto faceva sperare una tranquilla e rapida navigazione fino a Maracaybo, tanto piú che i filibustieri erano stati avvertiti che la flotta dell’ammiraglio Toledo si trovava in quell’epoca sulle coste dell’Yucatan, in rotta pei porti del Messico.

Dopo due giorni, la squadra, senza aver fatto alcun incontro, stava per doppiare il Capo dell’Engaño, quando dalla Folgore, che veleggiava sempre in testa, fu dato il segnale della presenza d’una nave nemica, veleggiante verso le coste di San Domingo.

L’Olonese, che era stato nominato comandante supremo, ordinò tosto a tutte le navi di mettersi in panna e di raggiungere colla sua la Folgore, la quale già si preparava a mettersi in caccia.

Al di là del capo, un vascello che portava sul picco della randa il grande stendardo di Spagna e sull’alberetto di maestra il lungo nastro delle navi da guerra, veleggiava lungo la costa, come se cercasse qualche rifugio, avendo forse già scorta la poderosa squadra dei filibustieri.

L’Olonese avrebbe potuto farlo circondare dalle sue otto navi e costringerlo alla resa, o farlo affondare con una sola bordata, ma quei fieri corsari avevano delle magnanimità incomprensibili, per essere ladri di mare, e davvero ammirabili.

Assalire un nemico con forze superiori lo reputavano una vigliaccheria, indegna d’uomini forti come si credevano, e con ragione, e sdegnavano di abusare della loro possanza.

L’Olonese fece segnalare al Corsaro Nero di mettersi in panna al pari delle altre navi e mosse arditamente incontro al vascello spagnuolo, intimandogli la resa incondizionata o la lotta, e facendo gridare dai suoi uomini di prora che qualunque fosse stato l’esito della pugna, la sua squadra non si sarebbe mossa.

Il vascello, che si reputava già perduto, non potendo avere la menoma speranza di uscire vittorioso contro le forze cosí schiaccianti, non si fece ripetere due volte l’intimazione, pure, invece di ammainare lo stendardo, il suo comandante lo fece inchiodare sul corno e come risposta scaricò contro la nave nemica i suoi otto cannoni di tribordo, facendo cosí comprendere che non si sarebbe arreso se non dopo un’ostinata resistenza.

La battaglia si era impegnata d’ambe le parti con grande vigore. La nave spagnuola aveva sedici cannoni, ma soli sessanta uomini d’equipaggio; 1’Olonese aveva altrettante bocche da fuoco e un numero doppio di uomini fra i quali molti bucanieri, formidabili bersaglieri, che decidevano presto le sorti della pugna coll’infallibilità dei loro grossi fucili.

 

La squadra, dal canto suo, si era messa in panna, obbediente agli ordini del fiero filibustiere di non intervenire. I soli equipaggi, schierati sulle tolde, assistevano, come tranquilli spettatori, alla lotta, ben prevedendo però che il vascello spagnuolo avrebbe finito per soccombere in quella pugna impari per la sproporzione di forze.

Gli spagnuoli, quantunque cosí poco numerosi, si difendevano con vigore supremo. Le loro artiglierie tuonavano furiosamente, tentando di disalberare e di rasare come un pontone la nave corsara, che cercava di abbordarli. Alternavano scariche di mitraglia e palle e sviavano di bordo per presentare la prora, onde non farsi speronare e ritardare piú che era possibile il contatto, essendosi di già accorti della preponderanza numerica degli avversari.

L’Olonese, reso furioso da quella resistenza ed impaziente di finirla tentava tutti i mezzi per abbordarli, ma non ne veniva a capo ed era costretto a riprendere il largo per non farsi sterminare gli uomini da quella grandine di mitraglia.

Quel duello formidabile fra le artiglierie delle due navi durò, con grave danno delle alberature e delle vele, tre lunghe ore, senza che il grande stendardo di Spagna venisse ammainato. Sei volte i filibustieri erano montati all’abbordaggio ed altrettante volte erano stati respinti da quei sessanta valorosi, ma alla settima riuscirono a porre i piedi sulla tolda della nave nemica ed a calare la bandiera.

Quella vittoria, di lieto augurio per la grande impresa, fu salutata dai filibustieri della squadra con fragorosi urrah, tanto piú che, durante quel combattimento, la Folgore, spintasi entro una insenatura, era riuscita a scovare un altro legno spagnuolo armato di otto cannoni ed a catturarlo dopo breve resistenza.

Visitate le due navi predate, si constatò che la maggiore aveva un carico prezioso, parte in merci di grande valore e parte in verghe d’argento; e la seconda, di polvere e di fucili destinati alla guarnigione spagnuola di San Domingo.

Sbarcati i due equipaggi sulla costa, non volendo tenere a bordo prigionieri, ed accomodati i guasti subiti dalle alberature, la squadra, sul cadere del giorno, si rimetteva alla vela dirigendosi verso la Giamaica.

La Folgore aveva ripreso il suo posto all’avanguardia essendo, come fu detto, la miglior veliera, mantenendosi ad una distanza di quattro o cinque miglia.

Al Corsaro Nero premeva di esplorare il mare a grande distanza, per tema che qualche nave spagnuola potesse accorgersi della direzione di quella poderosa squadra, e corresse a darne l’annuncio al governatore di Maracaybo o all’ammiraglio Toledo.

Per essere certo del fatto suo, non abbandonava quasi mai il ponte di comando, accontentandosi di dormire in coperta, avvolto nel suo ferraiuolo e coricato su un seggiolone di bambú.

Tre giorni dopo la presa dei due vascelli, la Folgore, avvistate le coste della Giamaica, faceva l’incontro del vascello di linea che aveva abbordato presso Maracaybo e che durante la tempesta aveva cercato un rifugio alla base di quella isola.

Era ancora privo dell’albero maestro, però il suo equipaggio aveva rinforzati gli alberi di mezzana e di trinchetto, spiegate tutte le vele di ricambio trovate a bordo e s’affrettava a guadagnare la Tortue, per tema di venire sorpreso da qualche nave spagnuola.

Il Corsaro Nero, informatosi della salute dei feriti, che aveva fatti ricoverare nelle corsie del vascello, proseguí la sua rotta verso il sud, ansioso di giungere all’entrata del Golfo di Maracaybo.

Quella traversata del Mar Caraybo si compí senza incidenti, essendosi il mare mantenuto costantemente tranquillo, e la notte del quattordicesimo giorno da che la squadra aveva lasciata la Tortue, il Corsaro avvistava la punta di Paraguana, indicata da un piccolo faro destinato ad avvertire i naviganti della bocca del piccolo Golfo.

– Finalmente!… – esclamò il filibustiere, mentre una cupa fiamma gli animava lo sguardo. – Domani forse l’assassino dei miei fratelli non sarà piú fra il numero dei viventi.

Chiamò Morgan, che era allora salito in coperta pel suo quarto di guardia, dicendogli:

– Che nessun lume venga acceso a bordo questa notte, tale essendo 1’ordine dato dall’Olonese. Gli spagnuoli non devono accorgersi della presenza della squadra o domani non troveremo nella città una sola piastra.

– Dovremo fermarci qui all’entrata del Golfo?…

– No, tutta la squadra si avanzerà verso la bocca del lago e domani, all’alba, piomberemo improvvisamente su Maracaybo.

– Prenderanno terra i nostri uomini?

– Sí, assieme ai bucanieri dell’Olonese. Mentre la flotta bombarderà i forti dal lato del mare, noi li assaliremo dalla parte di terra, onde impedire al governatore di fuggire a Gibraltar. Che all’alba tutte le scialuppe da sbarco siano pronte e armate di spingarde.

– Va bene, signore.

– D’altronde, – aggiunse il Corsaro, – sarò sul ponte anch’io; scendo nel quadro a indossare la corazza di combattimento.

Lasciò il ponte e scese nel salotto per passare nella sua cabina. Stava per aprire la porta della sua stanzetta, quando un profumo delicatissimo, a lui ben noto, giunse improvvisamente fino a lui.

– È strano!… – esclamò, arrestandosi stupito. – Se non fossi certo di avere lasciata la fiamminga alla Tortue, giurerei che è venuta qui.

Si guardò intorno, ma l’oscurità era completa, essendo stati spenti tutti i lumi; pure gli parve di vedere, in un angolo del salotto, appoggiata ad una delle ampie finestre che guardavano sul mare, una forma biancastra.

Il Corsaro era coraggioso; però al pari di tutti gli uomini di quei tempi era pure un po’ superstizioso e nello scorgere quell’ombra, immobile in quell’angolo, si sentí bagnare la fronte da alcune stille di sudore freddo.

– Che sia 1’ombra del Corsaro Rosso?… – mormorò, retrocedendo verso la parte opposta. – Che venga a ricordarmi il giuramento pronunziato quella notte, su queste acque?… Forse che la sua anima ha abbandonati gli abissi del Golfo, dove riposava?…

Subito però ebbe quasi vergogna di aver avuto, lui cosí fiero e coraggioso, un istante di superstiziosa paura e, snudata la misericordia che portava alla cintola, si fece innanzi, dicendo:

– Chi siete voi?… Parlate o vi uccido.

– Io, cavaliere, – rispose una voce dolce che fece trasalire il cuore del Corsaro.

– Voi!… – esclamò egli fra lo stupore e la gioia. – Voi, signora?…

Voi qui, sulla mia Folgore, mentre vi credevo alla Tortue? Sono io forse?…

– No, cavaliere, – rispose la giovane fiamminga.

Il Corsaro si era precipitato innanzi, lasciando cadere la misericordia ed aveva tese le braccia verso la duchessa, mentre le sue labbra le sfioravano rapidamente i pizzi dell’alto collare.

– Voi qui!… – ripeté con una voce che aveva un tremito. – Ma da dove siete uscita voi?… Come vi trovate sul mio vascello?

– Non lo so… – rispose la duchessa, con accento imbarazzato.

– Via, parlate, signora.

– Ebbene… ho voluto seguirvi.

– Allora voi mi amate?… Ditemelo; è vero, signora?…

– Sí, – mormorò ella con un filo di voce.

– Grazie… ora posso sfidare la morte senza paura.

Aveva estratto l’acciarino e l’esca ed aveva acceso un doppiere collocandolo però in un angolo del salotto, in modo che la luce non si proiettasse sulle acque del mare.

La giovane fiamminga non aveva abbandonata la finestra. Tutta rinchiusa in un ampio accappatoio bianco adorno di pizzi, colle braccia strette al seno, come se volesse comprimere i palpiti precipitati del cuore ed il vezzoso capo inclinato su di una spalla, guardava, con quei grandi occhi scintillanti, il Corsaro che gli stava ritto dinanzi, non piú pallido né piú tetro e meditabondo, poiché un sorriso di felicità infinita si delineava sulle labbra del fiero uomo di mare.

Si guardarono in silenzio per alcuni istanti, come se fossero ancora stupiti di quella confessione di reciproca affezione, lungamente sospirata da entrambi forse, ma non cosí presto attesa: poi il Corsaro, prendendo la giovanetta per una mano e facendola sedere su d’una sedia, presso il doppiere, le disse:

– Ora mi direte, signora, per opera di quale miracolo voi vi trovate qui, mentre io vi ho lasciata alla Tortue, nella mia casa. Io stento ancora a credere a tanta felicità.