Za darmo

I Pirati della Malesia

Tekst
0
Recenzje
iOSAndroidWindows Phone
Gdzie wysłać link do aplikacji?
Nie zamykaj tego okna, dopóki nie wprowadzisz kodu na urządzeniu mobilnym
Ponów próbęLink został wysłany

Na prośbę właściciela praw autorskich ta książka nie jest dostępna do pobrania jako plik.

Można ją jednak przeczytać w naszych aplikacjach mobilnych (nawet bez połączenia z internetem) oraz online w witrynie LitRes.

Oznacz jako przeczytane
Czcionka:Mniejsze АаWiększe Aa

6. Tremal-Naik

Quantunque fosse assai stanco, il buon portoghese non fu capace di chiudere occhio in tutta la notte. Quel vecchio bianco che guidava un drappello di dayachi e somigliava tanto allo zio della moglie della Tigre, stato visto in vicinanza della città dal malese Sambigliong l’aveva sempre nella mente e riempivagli l’animo di forti inquietudini.

Invano cercava di tranquillizzarsi, ripetendosi che forse il malese si era ingannato, che il lord doveva essere ancora lontano, forse a Giava, forse in India, forse più lontano ancora, in Inghilterra. Parevagli sempre di udire la voce del vecchionell’attiguo corridoio; parevagli sempre di udire delle persone avvicinarsi alla sua stanza, un fragore d’armi risuonare nel palazzo.

Più volte, non sapendo dominare le sue inquietudini, scese dal letto e aprì prudentemente le finestre, più volte socchiuse la porta della stanza, temendo che fossero state appostate delle sentinelle per impedirgli la fuga. Si addormentò verso l’alba, ma fu un sonno agitato da brutti sogni che durò un paio d’ore al più. Si destò udendo un gong strepitare per la via.

Si alzò, si vestì, si cacciò nelle tasche un paio di corte pistole e si diresse verso la porta. In quell’istesso istante veniva bussato.

– Chi è? – chiese egli con viva ansietà.

– Il rajah vi aspetta nel suo gabinetto – disse una voce.

Yanez si sentì un brivido correre per le ossa. Aprì la porta e si trovò dinanzi un indiano.

– È solo il rajah? – chiese, coi denti stretti.

– Solo, milord – rispose l’indiano.

– Che vuole da me?

– Vi attende per bere il thè.

– Corro da lui – disse Yanez, dirigendosi verso lo studio del principe.

– Il rajah era seduto dinanzi al suo tavolino, sul quale c’era un servizio da thè in argento. Vedendo Yanez entrare, si alzò col sorriso sulle labbra, stendendogli la mano.

– Buon giorno, milord! – esclamò. – Siete rientrato tardi ieri sera.

– Perdonate, Altezza, se ho mancato al pranzo; ma la colpa non è mia – disse Yanez, rassicurato dal sorriso del rajah.

– Che vi è accaduto?

– Mi sono smarrito in mezzo ai boschi.

– Eppure avevate una guida.

– Una guida!

– Mi dissero che eravate con un indiano che si spaccia per provveditore delle miniere di Poma.

– Chi ve lo ha detto, Altezza? – chiese Yanez, facendo uno sforzo straordinario per conservare la calma.

– Le mie spie, milord.

– Altezza, ai vostri servigi avete della brava gente.

– Lo credo – disse il rajah sorridendo. – L’avete incontrato dunque, quell’uomo?

– Sì, Altezza.

– Fino dove vi ha accompagnato?

– Fino ad un piccolo villaggio di dayachi.

– Indovinate chi era quell’uomo.

– Chi era? – chiese Yanez, pronunciando con fatica quelle due parole.

– Un pirata – disse il rajah.

– Un pirata!… È impossibile, Altezza.

– Ve lo assicuro.

– E non mi ha ammazzato?

– I pirati di Mompracem, milord, qualche volta sono generosi, come il loro capo.

– È generosa la Tigre della Malesia?

– Così si dice. Mi si racconta che parecchie volte regalò grossi diamanti ai poveri diavoli che pochi momenti prima aveva moschettato e sciabolato.

– È un pirata molto strano, dunque!

– È coraggioso e generoso insieme.

– Ma siete certo, Altezza, che quell’indiano facesse parte della banda di Mompracem?

– Sicurissimo, perché le mie spie lo videro parlare con alcuni pirati della Tigre della Malesia. Ma non parlerà più con loro, ve lo giuro. A quest’ora deve essere in mano dei miei. -

In quell’istante, giù nella strada, si udirono delle grida acute e un forte colpo di gong.

Yanez pallido, agitatissimo, si precipitò verso la finestra per vedere ciò che accadeva, ma soprattutto per nascondere la propria commozione.

– Per Giove! – esclamò con voce strozzata diventando maggiormente pallido. – Kammamuri!

– Che cosa succede? – chiese il rajah.

– Conducono qui il mio indiano, Altezza – rispose con voce abbastanza calma.

– Non mi ero ingannato, io.

Si curvò sul davanzale e guardò.

Quattro guardie, armate fino ai denti, conducevano verso il palazzo l’indiano Kammamuri, al quale erano state legate strettamente le braccia con solide fibre di rotang. Il prigioniero non opponeva alcuna resistenza, né sembrava atterrito. Procedeva con passo calmo e guardava tranquillamente la folla di dayachi, cinesi e malesi che lo seguiva schiamazzando.

– Pover’uomo! – esclamò Yanez.

– Lo compiangete, milord? – chiese il rajah.

– Un po’, lo confesso.

– Eppure quell’indiano è un pirata.

– Lo so, ma con me fu assai gentile. Che ne farete, Altezza?

– Cercherò di farlo parlare innanzitutto. Se riesco a sapere dove si cela la Tigre della Malesia… Radunerò le mie guardie e l’assalirò.

– L’assalirete?

– Radunerò le mie guardie e l’assalirò.

– E se il prigioniero si ostina a non parlare?

– Lo farò appiccare – disse freddamente il rajah.

– Povero diavolo!

– Tutti i pirati hanno uguale trattamento, milord.

– Quando lo interrogherete?

– Quest’oggi non ho tempo, perché devo ricevere un ambasciatore olandese, ma domani sarò libero e lo farò parlare.

Un lampo balenò negli occhi del portoghese.

– Altezza – disse, dopo un po’ d’esitazione. – Potrò assistere all’interrogatorio?

– Se lo desiderate.

– Grazie, Altezza.

Il rajah scosse un campanello d’argento che stava sul tavolo. Un cinese vestito di seta gialla, con una coda lunga un buon metro, entrò portando una teiera di porcellana di Ming, piena di thè fumante.

– Il thè non vi spiacerà, spero – disse il rajah.

– Non sarei inglese – rispose Yanez, sorridendo.

Vuotarono parecchie tazze della deliziosa bevanda, indi si alzarono.

– Ove vi recate oggi, milord? – chiese il rajah.

– A visitare i dintorni della città – rispose Yanez. – Ho scorto un fortino e, con il vostro permesso, lo visiterò.

– Troverete dei compatrioti, milord.

– Dei compatrioti! – esclamò Yanez, fingendo di ignorare ogni cosa.

– Raccolti da me alcune settimane fa, mentre stavano per annegare.

– Dei naufraghi dunque?

– Precisamente.

– E che cosa fanno in quel forte?

– Attendono l’arrivo di una nave per imbarcarsi e nel medesimo tempo sorvegliano un thug indiano che rinchiusi là dentro.

– Che? Un thug! Un thug indiano! – esclamò Yanez. – Oh! vorrei vedere uno di quei terribili strangolatori.

– Lo desiderate?

– Ardentemente.

Il rajah prese un foglio di carta, scrisse alcune righe, lo piegò e lo consegnò al portoghese che lo prese con vivacità.

– Consegnatelo al luogotenente Churchill – disse il rajah. Egli vi mostrerà il thug e, se desiderate, vi farà visitare l’intero fortino che però non ha nulla di bello.

– Grazie, Altezza.

– Pranzerete con me questa sera?

– Ve lo prometto.

– Arrivederci, milord.

Yanez, che non vedeva l’ora di uscire da quello studio, si diresse verso la propria stanza.

– Ragioniamo, Yanez mio – mormorò quando si trovò solo. – Si tratta di fare un gran colpo senza essere scoperto.

Si affacciò poi alla finestra, immergendosi in profondi pensieri.

Rimase lì, immobile, con gli occhi fissi sul fortino, dieci o dodici minuti, corrugando di quando in quando la fronte.

– Ci siamo! – esclamò d’un tratto. – Mio caro Brooke, il buon Yanez ti prepara un giochetto che, se ho tutto ben calcolato, sarà bellissimo. Per Giove! Sandokan sarà contento del fratello bianco.

S’avvicinò al tavolo, prese una penna e, sopra un pezzettino di carta, scrisse:

Mi manda il tuo fedele servo Kammamuri per salvarti. Tremal-Naik, se vuoi essere libero e rivedere la tua Ada, ingoia verso la mezzanotte le pillole che qui trovi, né prima né dopo, se puoi. Yanez, amico di Kammamuri.

Vi mise dentro due piccole pillole verdastre e fece una pallottolina che nascose in un taschino della sua giacca.

– Domani gli inglesi lo crederanno morto e domani sera lo seppelliranno – mormorò, stropicciandosi allegramente le mani, e ad avvertire il mio caro fratello manderemo Kammamuri. Ah! mio caro James Brooke, non sai ancora di che cosa sono capaci i tigrotti di Mompracem.

Si cacciò in testa un cappellaccio di paglia a forma di fungo, si passò nella cintura il fedele kriss e lasciò la stanza scendendo lentamente le scale.

Passando per un corridoio, vide dinanzi ad una porta un indiano armato di carabina con baionetta in canna.

– Che cosa fai lì? – chiese il portoghese.

– Sono di guardia – rispose la sentinella.

– A chi fai la guardia?

– Al pirata arrestato stamane.

– Bada che non ti sfugga, amico. È un uomo pericoloso.

– Terrò gli occhi sempre aperti, milord.

– Bravo ragazzo.

Lo salutò con la mano, scese la scala ed uscì in strada con un sorriso ironico sulle labbra. Il suo sguardo subito si fissò sulla collina che gli stava di fronte, in cima alla quale, fra il verde cupo delle piante, spiccava la massa biancastra del fortino.

– Animo, Yanez – mormorò. – C’è molto da fare.

Attraversò con passo tranquillo la città, invasa da una fitta folla di superbi dayachi, di orrendi malesi e di caudati cinesi che schiamazzavano su tutti i toni, vendendo frutta, armi, vesti e giocattoli di Canton, e prese un sentiero, ombreggiato da altissimi durion e da areche, che menava al fortino.

A mezza costa s’imbatté in due marinai inglesi che scendevano alla città, forse per ricevere qualche ordine del rajah, o forse per informarsi se qualche nave aveva gettato l’ancora alla foce del fiume.

– Olà, amici – disse Yanez salutandoli. – È lassù il comandante Churchill?

– L’abbiam lasciato che fumava alla porta del fortino – rispose uno dei due.

 

– Grazie, amici.

Si rimise in cammino e dopo un lungo giro sboccò in un largo piazzale in mezzo al quale si levava il fortino. Sulla porta, appoggiato ad un fucile, stava un marinaio, occupato a masticare un pezzo di tabacco, e a pochi passi, sdraiato in mezzo alle erbe, fumava un luogotenente di marina, di statura alta, con lunghi baffi rossi. Yanez si arrestò.

– Toh! un bianco! – esclamò il luogotenente scorgendolo.

– E che cerca di voi – disse il portoghese.

– Di me?

– Sì!

– E che cosa desiderate?

– Ho una lettera per il luogotenente Churchill…

– Sono io, signore, il luogotenente Churchill – disse l’ufficiale, alzandosi e muovendogli incontro.

Yanez estrasse la lettera dal rajah e la porse all’inglese il quale l’aprì e la lesse attentamente.

– Sono ai vostri ordini, milord – disse, quand’ebbe letto.

– Mi farete vedere il thug?

– Se lo vorrete.

– Accompagnatemi da lui, adunque. Ho sempre desiderato vedere uno di quei terribili strangolatori.

Il luogotenente si mise in tasca la pipa ed entrò nel fortino, seguito da Yanez. Attraversarono un piccolo cortile, in mezzo al quale arrugginivano quattro vecchi cannoni di ferro, ed entrarono nel fabbricato costruito con robustissimo legno di teck, capace di resistere ad una palla di sei e anche otto libbre.

– Ci siamo, milord – disse Churchill, fermandosi dinanzi ad una solida porta sprangata. – Il thug è qui dentro.

– È tranquillo o feroce?

– È mansueto come una tigre addomesticata – rispose l’inglese sorridendo.

– Non occorre quindi entrare armati.

– Non ha mai fatto male ad alcuno di noi, però non entrerei senza le mie pistole.

Levò le due spranghe ed aprì con precauzione la porta, sporgendo la testa.

– Il thug sonnecchia – disse. – Entriamo, milord.

Yanez provò un brivido, non già perché avesse paura dello strangolatore, ma per tema che questi lo tradisse. Infatti l’indiano poteva respingere il bigliettino e le pillole e svelare così ogni cosa al luogotenente Churchill.

– Coraggio e sangue freddo – mormorò, – non è il momento di ritirarsi.

Varcò la soglia ed entrò. Si trovò in una cella piuttosto piccola, con le pareti di legno di teck, rischiarata da un finestrino a solidissime inferriate.

In un angolo, steso su di un letto di foglie secche e avvolto in un corto mantello di tela, stava il thug Tremal-Naik, il padrone dell’indiano Kammamuri, il fidanzato dell’infelice Ada.

Era un superbo indiano, alto cinque piedi e sei pollici, color del bronzo. Largo e robusto aveva il petto, muscolose le braccia e le gambe, fieri i lineamenti del volto e regolarissimi. Yanez, che aveva visto cinesi, malesi, giavanesi, africani, indiani, bughisi, macassaresi e tagali, non si ricordava di aver incontrato un uomo di colore così bello e così vigoroso. Non c’era che Sandokan che potesse superarlo.

Quell’uomo dormiva, ma il suo sonno non era tranquillo. Il petto gli si sollevava affannosamente, la sua ampia e bella fronte si corrugava, le labbra di un rosso vivo, ardente, fremevano e le sue mani, piccole come quelle di una donna, si aprivano e si chiudevano, come se volessero afferrare qualche cosa e stritolarla.

– Bell’uomo! – esclamò Yanez.

– Zitto, parla – mormorò il luogotenente.

Un rauco accento straziante era uscito dalle labbra dell’indiano.

– Mia! – aveva esclamato.

La sua faccia, d’un tratto, divenne burrascosa. Una vena che gli solcava la fronte s’ingrossò improvvisamente.

– Suyodhana – mormorò, con accento d’odio, l’indiano.

– Tremal-Naik! – disse il luogotenente.

A quel nome l’indiano si scosse, si alzò di scatto e fissò sul luogotenente uno sguardo che scintillava come quello di un serpente.

– Che cosa vuoi? – chiese.

– Un signore vuol vederti.

L’indiano guardò Yanez che stava qualche passo indietro a Churchill.

Un sorriso sdegnoso sfiorò le sue labbra mettendo a nudo i denti bianchi come l’avorio.

– Sono una belva forse? – chiese. – Che…

Si arrestò e trasalì. Yanez che, come si disse, stava dietro al luogotenente, gli aveva fatto un rapido cenno. Senza dubbio aveva compreso che gli stava dinanzi un amico.

– Come ti trovi qui dentro? – chiese il portoghese.

– Come può trovarsi un uomo che nacque e visse libero nella jungla – disse Tremal-Naik con voce triste.

– È vero che tu sei un thug?

– No.

– Eppure hai strangolato delle persone.

– E vero, ma non sono un thug.

– Tu menti.

Tremal-Naik si alzò digrignando i denti e con gli occhi fiammeggianti; ma un nuovo gesto del portoghese lo calmò.

– Se tu mi lasciassi alzare il mantellino, ti mostrerei il tatuaggio che distingue i thug.

– Alzalo, – disse Tremal-Naik.

– Non accostatevi, milord! – esclamò il luogotenente.

– Non ho arma alcuna – disse l’indiano. – Se io alzo un braccio, scaricami in petto le tue pistole.

Yanez s’avvicinò al letto di foglie e si curvò sull’indiano.

– Kammamuri – mormorò con voce appena distinta. Un rapido lampo brillò negli occhi dell’indiano. Con un gesto alzò il mantellino e raccolse il biglietto contenente le pillole che il portoghese aveva lasciato cadere.

– L’avete visto il tatuaggio? – chiese il luogotenente che aveva, per precauzione, armato una pistola.

– Non lo ha – rispose Yanez, raddrizzandosi.

– Non è un thug dunque?

– Chi può dirlo? I thugs hanno tatuaggi in più parti del corpo.

– Non ne ho – disse Tremal-Naik.

– Da quanto tempo si trova qui, luogotenente? – chiese Yanez.

– Da due mesi, milord.

– Dove lo si condurrà?

– In qualche penitenziario dell’Australia.

– Povero diavolo! Usciamo, luogotenente.

Il marinaio aprì la porta. Yanez ne approfittò per volgersi indietro e fare a Tremal-Naik un ultimo gesto che significava «obbedite».

– Volete visitare il fortino? – chiese il luogotenente quand’ebbe chiusa e sprangata la porta.

– Mi pare che non abbia nulla di attraente – rispose Yanez. – Arrivederci dal rajah, signore.

– Arrivederci, milord.

7. La liberazione di Kammamuri

Mentre Yanez, lavorando con astuzia, preparava la salvezza di Tremal— Naik, il povero Kammamuri, in preda a mille terrori e a mille angosce, tentava vanamente di uscire dalla sua prigione. Non aveva paura di venire appiccato o fucilato come un volgare pirata; temeva di venire sottoposto a qualche spaventevole supplizio e di essere costretto a confessare ogni cosa, compromettendo contemporaneamente la vita del suo padrone, dell’infelice Ada, della Tigre della Malesia, di Yanez e di tutti gl’intrepidi di Mompracem.

Appena rinchiuso, aveva tentato di saltare dalle finestre, ma le aveva trovate difese da solidissime sbarre di ferro, che era impossibile rompere senza una potente lima o una mazza; poi aveva cercato di sfondare il pavimento, sperando di cadere in una stanza disabitata, ma, dopo essersi rotte le unghie, era stato costretto a rinunciarvi. Da ultimo aveva tentato di strangolare l’indiano che gli aveva portato il cibo, ma, sul punto di riuscire, altri indiani erano accorsi a liberare il compagno.

Persuaso dell’inutilità dei suoi sforzi, si era accoccolato in un angolo della stanza, risoluto a morire di fame piuttosto che assaggiare i cibi che potevano contenere qualche misterioso narcotico; deciso a lasciarsi strappare le carni a brano a brano piuttosto che pronunciare una sola parola.

Erano trascorse dieci ore senza che egli si muovesse. Il sole era tramontato, dopo un brevissimo crepuscolo, e le tenebre avevano invaso la stanza: a un tratto, un sibilo lamentoso, seguito da un colpo leggero, ferì suoi orecchi. Si alzò senza far rumore, girando attorno uno sguardo indagatore, e ascoltò attentamente. Non udì più nulla all’infuori delle grida rauche dei dayachi e dei malesi che passavano per la piazza.

Si avvicinò silenziosamente alla finestra e guardò attraverso le sbarre di ferro. Là, presso una gigantesca arenga saccarifera che stendeva la sua ombra su buona parte della piazza, stava un uomo con un gran cappello in testa ed una specie di bastone in mano. Lo riconobbe a prima vista.

– Padron Yanez – mormorò.

Sporse un braccio e fece alcuni gesti. Il portoghese alzò le mani e rispose con altri gesti.

– Ho compreso – disse Kammamuri. – Buon padrone!

Lasciò la finestra e camminò fino alla parete che gli stava di fronte.

La osservò attentamente, poi si chinò e raccolse una specie di freccia all’estremità della quale era appesa una pallottola di carta.

– Qui dentro vi è la salvezza – mormorò. – A quanto pare, padron Yanez sa adoperare bene la cerbottana.

Spiegò la carta e vi trovò due pillole nere, piccolissime, che mandavano un odore particolare.

– Veleno o narcotico? – si chiese. – Ah! la carta è scritta.

Si avvicinò alla finestra e lesse attentamente le seguenti righe:

Tutto procede di bene in meglio. Tremal-Naik, se non sopraggiungono incidenti imprevisti, domani sera sarà libero. Le pillole che ti unisco, sciolte nell’acqua, addormentano istantaneamente. Cerca il mezzo di addormentare il guardiano e di fuggire. Domani a mezzogiorno ti attendo nei pressi del fortino. Yanez.

– Buon Yanez – mormorò il maharatto commosso. – Pensa a tutto.

S’appoggiò alle sbarre della finestra e si mise a meditare. Un leggero colpo dato alla porta lo tolse dai suoi pensieri.

– Eccolo! – esclamò.

Si avvicinò rapidamente, ma senza far rumore, ad un tavolo sul quale erano, oltre a una zuppiera di riso e a parecchie frutta, due grandi tazze di tuwah, e vi gettò dentro le pillole che istantaneamente si sciolsero.

– Chi è la? – chiese poi.

– Guardia del rajah – rispose una voce.

La porta si aprì e un indiano armato di una larga scimitarra e di una lunga pistola col calcio incrostato di madreperla entrò con precauzione. In una mano aveva una lanterna di talco, simile a quelle che usano i cinesi, e nell’altra un paniere pieno di provvigioni. – Non hai fame? – chiese la guardia, vedendo le tazze piene, le frutta intatte e la zuppiera ancora colma.

Il maharatto, invece di rispondere, gli lanciò uno sguardo torvo.

– Coraggio, amico – continuò la guardia. – Il rajah è buono e non ti appiccherà.

– Ma mi avvelenerà – disse Kammamuri con finto terrore.

– E come?

– Col cibo e con la bevanda che vedi.

– È per questo che non hai assaggiato nulla?

– Certamente.

– Hai torto, amico mio.

– Perché?

– Perché né il tuwah, né il riso, né le frutta contengono veleno alcuno.

– Berresti tu una tazza di quel liquore?

– Se tu lo vuoi!

Kammamuri afferrò la tazza entro la quale aveva sciolto le pillole del portoghese e la porse alla guardia.

– Bevi – disse.

L’indiano, che non aveva alcun sospetto, avvicinò la tazza alle labbra e bevve buona parte del contenuto.

– Ma… – disse esitando. – Cos’hanno messo in questo tuwah?

– Non lo so – disse il maharatto che lo guardava attentamente.

– Un fremito strano agita le mie… membra.

– Ah!…

– Toh! la testa mi gira, mi mancano le forze, non ci vedo più, mi pare…

Non finì. Traballò come fosse stato ferito in mezzo al petto, alzò le mani, sbarrò gli occhi e cadde pesantemente a terra rimanendo immobile.

Kammamuri d’un salto gli fu sopra e gli strappò la pistola e la scimitarra.

Così armato s’avvicinò alla porta e tese gli orecchi.

Temeva che il fracasso prodotto dall’indiano nel cadere attirasse altre guardie. Fortunatamente nessun passo si fece udire nel corridoio.

– Sono salvo! – esclamò respirando. – Fra dieci minuti sarò fuori della città.

Levò i corti calzoni, la giacca e la fascia che indossava l’indiano, e in un batter d’occhio si vestì. Sulla testa si annodò un fazzoletto in modo da nascondere buona parte della fronte e un po’ gli occhi, poi cinse la scimitarra e passò nella cintura la pistola.

– Avanti – mormorò. – Passerò per una guardia del rajah.

Aprì senza far rumore la porta, percorse il corridoio che era deserto e oscurissimo, scese la scala e, passando rapidamente dinanzi alla sentinella, uscì sulla piazza.

– Sei tu, Labuk? – chiese una voce.

– Sì – rispose Kammamuri, senza volgersi indietro per paura di venire riconosciuto da colui che lo interrogava.

– Che Siva ti protegga.

– Grazie, amico.

Il maharatto procedeva con passo rapido, guardando attentamente intorno a sé e aguzzando l’orecchio: si teneva presso i muri delle case, celandosi quando in fondo alle vie e alle viuzze gli sembrava di scorgere qualcuno che assomigliava a una guardia del rajah.

 

Dopo dieci buoni minuti giungeva ai piedi della collina sulla cui cima illuminato dalla luna, biancheggiava il fortino. Si arrestò tendendo gli orecchi.

Verso il fiume si sentivano i battellieri dayachi e malesi canticchiare monotoni ritornelli; nel quartiere cinese si udivano gli acuti suoni dell’yo, specie di flauto a sei buchi e il dolce tremolio del kine, una chitarra con le corde di seta.

Verso la piazza, ove rizzavasi gigante il palazzo del rajah, non giungeva nessun rumore.

– Sono salvo! – mormorò dopo alcuni istanti d’angosciosa attenzione. – Non hanno ancora scoperta la mia fuga.

Si cacciò in mezzo ai boschi di mangostani altissimi, di mangifere di bellissimo aspetto e di cettings che si arrampicavano disordinatamente su per la collina.

Ora saltando da un albero all’altro con l’agilità di una scimmia per far perdere le tracce, ora entrando negli stagni di nere acque melmose ed ora sfondando cespugli, in meno di un’ora giunse, senz’essere stato scorto da alcuno, ad un tiro di fucile dal fortino.

Si arrampicò su di un albero altissimo dal quale poteva scorgere chi saliva e chi scendeva la collina e attese pazientemente l’arrivo del portoghese.

La notte passò senza incidenti. Alle quattro del mattino il sole apparve improvvisamente all’orizzonte, illuminando il fiume che si smarriva fra ubertose campagne e fitti boschi, la cittadina e le piantagioni circostanti.

Dall’alto del suo osservatorio il maharatto vide, qualche ora dopo, due bianchi uscire dal fortino e lanciarsi a tutte gambe giù per il sentiero.

– Cosa succede? – mormorò Kammamuri. – Per mettersi a correre in quel modo bisogna che sia accaduto qualche cosa di serio nel fortino. Per Siva! Che quelli della città abbiano segnalato a questi uomini la mia fuga?

Si rannicchiò in mezzo al fogliame, per non essere scorto da quelli che passavano pel sentiero, e attese, in preda ad una viva ansietà.

Un’ora dopo i due inglesi risalivano verso il fortino, seguiti da un ufficiale delle guardie e da un europeo vestito di tela bianca, il quale aveva una scatoletta nera appesa alla cintura.

– Che sia un medico? – si chiese Kammamuri diventando pallido. – Che qualcuno sia ammalato? Là dentro c’è il mio padrone!… Signore Yanez, venite, fate presto! -

Si lasciò scivolare fino a terra e strisciò verso il sentiero, risoluto ad interrogare qualcuno. Fortunatamente batterono le dodici, poi l’una, le due, le tre, senza che alcun marinaio o alcuna guardia passassero di là.

Verso le cinque, però, un uomo con un largo cappellaccio di paglia e un paio di pistole alla cintura apparve ad una svolta del sentiero. Kammamuri lo riconobbe subito.

– Padron Yanez! – esclamò.

Il portoghese, che saliva con passo lento guardando attentamente a destra e a sinistra come se cercasse qualcuno, a quella chiamata si arrestò. Scorgendo Kammamuri, affrettò il passo e, quando l’ebbe raggiunto, lo spinse nel fitto di un macchione dicendogli:

– Se qualche guardia ti scorgeva, eri spacciato e questa volta per sempre; bisogna essere prudenti, mio caro.

– È successo qualche cosa di grave al fortino, padron Yanez – disse il maharatto. – Un sospetto mi è balenato alla mente e ho lasciato il mio nascondiglio.

– Un sospetto!… E quale?

– Che il mio padrone sia rinchiuso là dentro e che sia moribondo. Ho visto un bianco recarsi lassù e mi è sembrato un medico.

– È proprio il tuo padrone che ha messo in moto i soldati del fortino.

– Il mio padrone!…

– Sì, mio caro.

– E sta male?

– È morto.

– Morto! – esclamò il maharatto traballando

– Non spaventarti, piccino mio. Lo credono morto, ma invece è vivo.

– Ah! padron Yanez, quale paura mi avete fatto provare! Gli avete dato da bere qualche potente narcotico?

– Gli ho dato delle pillole che sospendono la vita per trentasei ore.

– E lo crederanno morto?

– Fulminato.

– E come faremo a salvarlo?

– Questa sera, se non m’inganno, lo seppelliranno.

– Capisco – disse il maharatto. – Seppellito che sia, noi lo disseppelliremo e lo porteremo al sicuro. Ma dove lo porteranno?

– Lo sapremo.

– E come?

– Quando usciranno dal forte noi li seguiremo.

– E quando faremo il colpo?

– Questa notte.

– Noi due?

– Tu e Sandokan.

– Dovrò avvertirlo dunque.

– Certamente.

– E voi non verrete con noi?

– Non posso.

– Perché?

– Il rajah questa sera dà un ballo in onore dell’ambasciatore olandese e, come capirai, non posso mancare senza destare dei sospetti.

– Aho! – esclamò il maharatto, alzando vivamente la testa verso il fortino.

– Che hai?

– Degli uomini escono dal forte.

– Per Giove!

Scostò con le mani i rami del fitto cespuglio e guardò la cima della collina.

Due marinai erano usciti portando sopra una barella un corpo umano chiuso in una specie di amaca. Dietro a loro uscirono altri due marinai armati di zappe e di vanghe, e una guardia del rajah.

– Prepariamoci a partire – disse Yanez.

– Che strada prendono? – chiese Kammamuri, con viva ansietà.

– Scendono il colle dal lato opposto.

– Vanno a seppellirlo nel cimitero!

– Non lo so. Giriamo il bosco, ma bada di non far rumore.

Uscirono dalla macchia e si cacciarono sotto la boscaglia che copriva quasi tutta la collina. Scavalcando tronchi atterrati, sfondando intricati cespugli e tagliando lunghe radici, girarono attorno al forte e si trovarono sul versante opposto. Yanez si arrestò.

– Dove sono? – si chiese.

– Eccoli laggiù – disse il maharatto.

Il drappello infatti era in vista. Scendeva uno stretto sentiero che menava ad una piccola prateria circondata da superbi alberi. Nel mezzo, cinto da una bassa palizzata, c’era uno spazio irto di cippi e di tavolette di legno.

– Quello dev’essere il cimitero – disse Yanez.

– Si dirigono verso quel luogo? – chiese Kammamuri.

– Sì.

– Respiro, padron Yanez. Temevo che gettassero il mio povero padrone nel fiume.

– Anche a me era venuto questo pensiero.

I marinai erano entrati nel cimitero e si erano arrestati nel mezzo, deponendo a terra Tremal-Naik. Yanez li vide girare per qualche istante fra i Cippi, come se cercassero qualche cosa, poi uno di essi alzò la zappa e cominciò a scavare.

– E là che lo sotterreranno – disse il portoghese al maharatto. – La terra smossa di fresco vi indicherà il luogo dove è sepolto

– C’è pericolo che il mio padrone muoia asfissiato? – chiese Kammamuri.

– No, amico mio. Ora corri subito da Sandokan, ordinagli di radunare i suoi, di venire qui e dissotterrare il tuo padrone.

– E poi?

– Poi tornerete nel bosco e domani verrò a raggiungervi. Domani sera potremo lasciare questi luoghi per sempre. Va’, amico, va’.

Il maharatto non se lo fece dire due volte. Impugnò la pistola e scomparve sotto gli alberi con la rapidità di un daino.