Za darmo

I Pirati della Malesia

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PARTE SECONDA. Il Rajah di Sarawak

1. La taverna cinese

Olà! Bell’uomo!

– Milord!

– Al diavolo i milord.

– Sir!…

– All’inferno i sir.

– Mastro!…

– Che ti colga il crampo.

– Monsieur?… Señor!…

– Appiccati. Che pranzo è questo?

– Cinese, señor, cinese come la trattoria.

– E tu vuoi farmi mangiare alla cinese! Cosa sono queste bestioline che si muovono?

– Gamberi del Sarawak ubriacati.

– Vivi?

– Pescati mezz’ora fa, milord.

– E tu vuoi ch’io mangi i gamberi vivi? Corpo d’un cannone!

– Cucina cinese, monsieur.

– E questo arrosto?

– Cane giovane, señor.

– Che cosa? – Cane giovane.

– Corpo d’una spingarda! E tu vuoi che io mangi del cane? E questo stufato?

– È gatto, señor.

– Tuoni e fulmini! Un gatto!

– Un boccone da mandarino, sir.

– E questa frittura?

– Topi fritti nel burro.

– Cane d’un cinese! Tu vuoi farmi crepare!

– Cucina cinese, señor.

– Cucina infernale, vuoi dire. Corpo d’un cannone! Gamberi ubriachi, frittura di topi, cane arrosto e gatto in stufato per pranzo! Se mio fratello fosse qui riderebbe tanto da scoppiare. Orsù, non bisogna essere schifiltosi. Se i cinesi mangiano questa roba, può mangiarla anche un bianco. Animo, portoghese mio!

Il brav’uomo che così parlava si accomodò sulla sedia di bambù, trasse dalla cintura un magnifico kriss coll’impugnatura d’oro ornata di magnifici diamanti, e fece a pezzi il cane arrosto che mandava un profumo appetitoso.

Fra un boccone e l’altro si mise a osservare il locale nel quale si trovava.

Era una stanzaccia bassa, colle pareti dipinte a draghi mostruosi, a fiori strani, a lune sorridenti, ad animali che vomitavano fuoco. Tutto all’intorno v’erano sedili e stuoie sulle quali russavano dei cinesi dal volto giallo, il cranio pelato, la coda lunghissima e i baffi pendenti; qua e là, senza ordine, c’erano tavole di tutte le dimensioni, occupate da brutti malesi dalla pelle olivastra e i denti neri e da bellissimi dayachi seminudi con le membra coperte di anelli di ottone, armati di pesanti parangs, coltellacci lunghi mezzo metro. Alcuni di quegli uomini masticavano il siri, composto di foglie di betel e di noci d’areca, lanciando sul pavimento sputi sanguigni; altri bevevano grandi vasi di arak o di tuwak e altri ancora fumavano lunghe pipe cariche di oppio.

– Hum – borbottò il nostro uomo sventrando il gatto. – Che brutte facce! Non so come quel briccone di James Brooke riesca a dominare questi birbanti. Deve essere un gran volpone e un…

Un fischio acuto, che veniva dall’esterno della taverna, gli troncò la parola.

– Oh! – esclamò.

Accostò due dita alle labbra e imitò quel fischio.

– Señor! – gridò il taverniere, occupato a scuoiare un cane grosso appena scannato.

– Che il tuo Confucio ti impicchi.

– Ha chiamato, monsieur?

– Silenzio. Scuoia il tuo cane e lasciami in pace.

Un indiano alto, di belle forme, quasi nudo, con un laccio di seta stretto attorno alle reni e un kriss sospeso al fianco destro, entrò, girando attorno i suoi grandi occhi neri. Il nostro uomo che stava spolpando una zampa di gatto, scorgendo il nuovo arrivato si alzò, mormorando:

– Kammamuri!

Stava per lasciare il suo posto, quando un rapido cenno dell’indiano, accompagnato da uno sguardo supplichevole, lo arrestò:

– C’è qualche pericolo in aria – tornò a mormorare. – In guardia, amico.

L’indiano, dopo aver un po’ esitato, si sedette di fronte a lui. Il taverniere accorse.

– Una tazza di tuwak! – chiese il nuovo avventore.

– E da mettere sotto i denti?

– La tua coda

Il cinese volse le spalle e fece portare una tazza e un vaso di tuwak.

– Spiati? – chiese con un fil di voce l’uomo che gli stava davanti, continuando a divorare.

L’indiano fece col capo un cenno affermativo.

– Che appetito, signore! – esclamò poi a voce alta

– Non mangio da ventiquattro ore, mio caro – rispose il nostro uomo che, come il lettore si sarà immaginato, era il bravo Yanez, l’amico indivisibile della Tigre della Malesia.

– Venite da lontano?

– Dall’Europa. Eh! taverniere di casa del diavolo, un po’ di tuwak!

– Vi offro del mio, se non vi spiace – disse Kammamuri.

– Accettato, giovanotto. Siedi vicino a me a da’ un colpo di dente a tutta questa roba che mi sta dinanzi.

Il maharatto non si fece pregare e si sedette accanto al portoghese mettendosi a mangiare.

– Possiamo parlare – disse Yanez. – Nessuno può ora sospettare che noi siamo amici. Vi siete salvati tutti?

– Tutti, padron Yanez – rispose Kammamuri. – Prima che spuntasse l’alba, un’ora dopo la vostra partenza, lasciammo i fitti boschetti della riva e ci rifugiammo in una vasta palude. Il rajah aveva mandato soldati a perlustrare la foce del fiume, ma non sono riusciti a scoprire le nostre tracce.

– Sai, Kammamuri, che siamo stati bravi a sfuggire al rajah?

– Un mezzo minuto di ritardo e saremmo saltati in aria tutti quanti. Buon per noi che la notte era tanto oscura che quei birbanti non ci videro nuotare verso la riva.

– La povera Ada ha sofferto nulla?

– Nulla affatto, padron Yanez. Aiutato da Sambigliong, potei trasportarla a terra con tutta facilità.

– Dove si trova ora Sandokan?

– A otto miglia da qui, nel mezzo di un fitto bosco.

– Al sicuro dunque.

– Non lo so. Ho visto delle guardie del rajah aggirarsi nella foresta.

– Diavolo!

– E voi, non correte alcun pericolo?

– Io! Chi sarà quel pazzo che mi prenderà per un pirata? Io, un bianco, un europeo?

– State però in guardia, signor Yanez. Il rajah deve essere un uomo assai furbo.

– Lo so, ma noi siamo più furbi di lui.

– Sapete nulla di Tremal-Naik?

– Nulla, Kammamuri. Ho interrogato parecchie persone, ma senza esito.

– Povero padrone – mormorò Kammamuri.

– Lo salveremo, te lo prometto – disse Yanez. – Questa sera mi metterò all’opera.

– Che cosa volete fare?

– Cercare di avvicinare il rajah e diventare suo amico.

– E come?

– L’idea l’ho e mi pare buona. Provocherò un tafferuglio, farò del baccano, fingerò di voler accoppare qualcuno e mi farò arrestare dalle guardie del rajah.

– E poi?

– Quando mi avranno arrestato inventerò qualche amena storiella e mi spaccerò per un nobile lord, per un baronetto…

– E io che cosa dovrò fare?

– Nulla, mio caro maharatto. Andrai difilato da Sandokan e gli dirai che tutto cammina di bene in meglio. Domani però verrai a ronzare attorno all’abitazione del rajah. Forse avrò bisogno di te.

Il maharatto si alzò.

– Un momento – disse Yanez, traendo di tasca una borsa ben gonfia e porgendogliela.

– Che cosa devo fare?

– Per effettuare il mio progetto bisogna che non abbia un soldo in saccoccia. Dammi anzi il tuo kriss, che non ha alcun valore, e prendi il mio che ha troppo oro e troppi diamanti.

– Ehi! taverniere del demonio, sei bottiglie di vino di Spagna.

– Volete ubriacarvi? – chiese Kammamuri.

– Lascia fare a me e vedrai. Addio mio caro.

L’indiano gettò sulla tavola uno scellino e uscì, mentre il portoghese stappava le bottiglie che certo costavano assai care. Tracannò due o tre bicchieri e il rimanente lo diede a bere ai malesi che gli erano vicini, ai quali non parve vero di aver trovato un europeo così generoso.

– Ehi, taverniere! – gridò ancora il portoghese, – portami dell’altro vino e qualche piatto di lusso.

Il cinese, tutto contento di fare così grassi affari e pregando in cuor suo il buon Buddha di mandargli ogni giorno una dozzina di simili avventori, portò nuove bottiglie e una terrina di delicatissimi nidi di salangana, conditi con aceto e sale, un cibo che solo i ricconi possono gustare.

Il portoghese, quantunque avesse mangiato per due, tornò a lavorare di denti, a bere e a regalare vino a tutti i vicini.

Quando finì, il sole era tramontato da una buona mezz’ora e nella taverna erano state accese gigantesche lanterne di talco, che spandevano sui bevitori la loro scialba luce, cara ai caudati figli del Celeste Impero.

Accese la sigaretta, esaminò la batteria delle sue pistole e si alzò mormorando:

– Andiamocene, caro Yanez. Il taverniere farà un baccano indiavolato, io ne farò più di lui, accorreranno le guardie del rajah ed io verrò arrestato. Sandokan, ne sono certo, non avrebbe ideato un piano migliore.

Gettò in aria due o tre boccate di fumo e si diresse tranquillamente verso la porta. Stava per varcarla, quando si sentì prendere per la giacca.

– Monsieur! – disse una voce.

Yanez si volse accigliato e si trovò dinanzi il taverniere.

– Che cosa vuoi, mascalzone? – chiese, fingendosi offeso.

– Il conto, señor.

– Quale conto?

– Voi non mi avete pagato, gentleman. Mi dovete tre sterline, sette scellini e quattro penny.

– Vattene al diavolo. Non ho un soldo in tutte le dieci tasche.

Il cinese, da giallo che era, divenne cinereo.

– Ma voi mi pagherete – gridò aggrappandosi ai panni del portoghese.

– Lascia il mio vestito, canaglia! – urlò Yanez.

– Mi dovete tre sterline, sette scellini e…

– E quattro penny, lo so: ma io non ti pagherò, briccone… Va’ a scuoiare il tuo cane e lasciami in pace.

– Siete un ladro, gentleman? Io vi farò arrestare!

– Prova!

– Aiuto! Arrestate questo ladro! – urlò il cinese furibondo.

Quattro sguatteri si precipitarono in aiuto del loro padrone armati di casseruole, di pentole e di schiumarole. Era quello che desiderava il portoghese, che ad ogni costo voleva far baccano.

Con mano di ferro abbrancò il taverniere per la gola, l’alzò da terra e lo scagliò fuori della porta a rompersi il naso sui ciottoli della via. Indi caricò i quattro sguatteri, dispensando con rapidità meravigliosa tali calci che i disgraziati, in meno che non si dica, si trovarono stesi per terra accanto al padrone.

 

Urla indemoniate scoppiarono tosto.

– Aiuto, compatriotti! – urlava il taverniere.

– Al ladro! All’assassino! Accoppalo! Ammazzalo! – urlavano gli sguatteri.

2. Una notte in prigione

Quelle grida emesse da cinesi in un quartiere cinese, dovevano ottenere lo stesso effetto che ha un gong battuto in una via di Canton o di Pekino.

Infatti, in meno di due minuti, un duecento coduti figli del Celeste Impero, armati di bambù, di coltelli, di sassi e di ombrelli, si trovavano riuniti dinanzi alla porta della taverna mandando grida spaventevoli.

– Dàlli al ladro! – gridavano gli uni, roteando minacciosamente bastoni e ombrelli.

– Impicca il bianco! – urlavano gli altri mostrando i coltelli.

– Gettalo nel fiume!

– salassate quel cane!

– Accopalo! Ammazzalo! Annegalo! Abbrucialo! Apppiccalo!

I bevitori, spaventati da quel baccano e temendo di venire lapidati, sgombrarono in fretta la taverna, chi uscendo dalla porta e mescolandosi alla banda, chi saltando dalle finestre, che fortunatamente non erano troppo alte. Lì non rimase che il portoghese, il quale rideva a crepapelle, come se assistesse ad una brillantissima farsa.

– Bravi! bene! bis! bis! – gridava egli, armando però le pistole e tirando dalla cintura il kriss.

Un cinese che parlava più di tutti, in prima fila, gli tirò una sassata: ma il ciottolo andò a spezzare un gran fiasco di sam-sciù, il cui liquore si sparse per terra.

– Ehi! mariuolo! – gridò il portoghese – tu rovini il taverniere.

Raccolse il ciottolo e lo rimandò all’aggressore che n’ebbe rotto un dente.

Urla ancora più acute rimbombarono nel quartiere, facendo accorrere altri cinesi, alcuni dei quali armati di vecchi archibugi. Tre o quattro, incoraggiati dai compagni del taverniere, tentarono di entrare, ma alla vista delle pistole che il portoghese puntava verso di loro si affrettarono a mostrare le suole di feltro dei loro zoccoli.

– Lapidiamolo! – gridò una voce.

– E la mia taverna? – gemette il taverniere.

Una grandine di ciottoli entrò nella taverna fracassando le lanterne, i fiaschi, i piatti, le terrine ed i vasi.

Il portoghese, visto che il tumulto aumentava pericolosamente, scaricò in aria le sue due pistole.

Ai due spari tennero dietro sette archibugiate sparate nella via, ma senz’altro effetto che quello d’ingrossare il baccano.

D’improvviso si udirono varie voci gridare:

– Largo!… Largo!…

– Le guardie del rajah!

Il portoghese respirò. Quel frastuono, i bastoni agitati in aria, i coltelli, le grandinate di ciottoli, i moschettoni e il continuo affluire della folla cominciavano ad inquietarlo.

– Facciamo baccano, ora che non c’è più alcun pericolo – disse.

Si slanciò verso una tavola e la rovesciò mandando in frantumi tutti i fiaschi, i vasi, i tondi che vi erano sopra.

– Arrestatelo! Arrestatelo! – urlò il taverniere. – Quel bianco mi fracassa tutto.

– Largo! Largo alle guardie! – gridarono alcuni.

La folla si divise e sulla porta della taverna apparvero due uomini di colore, alti, robusti, con giacca e calzoni di tela bianca e una draghinassa in pugno.

– Indietro! – gridò il portoghese, puntando su di loro le pistole.

– Un europeo! – esclamarono le due guardie, meravigliate.

– Dite un inglese – precisò Yanez.

Le due guardie ringuainarono le draghinasse.

– Non vogliamo farvi alcun male – disse uno dei due. – Siamo al servizio del rajah Brooke vostro compatriota.

– E che cosa volete da me?

– Liberarvi da questa turba.

– E condurmi in qualche carcere?

– A questo penserà il rajah.

– Mi condurrete da lui?

– Senza dubbio.

– Se è così, vengo. Dal rajah Brooke non ho nulla da temere.

Le due guardie lo presero in mezzo e tornarono a sguainare le draghinasse, onde proteggerlo dalla rabbia dei cinesi che era giunta al colmo.

– Largo! – gridarono.

– I cinesi, in numero grandissimo, a quella intimazione non ubbidirono: volevano ad ogni costo linciare l’europeo, giacchè le due guardie non l’avevano infilzato come avevano sperato.

Le due guardie però non si perdettero d’animo. Distribuendo piattonate a destra e a sinistra e vigorosi calci, riuscirono a fare un po’ di largo e trassero il prigioniero in una stretta stradicciola, giurando di ammazzare quanti li avrebbero seguiti.

Quella minaccia ebbe un buon successo

I cinesi, dopo aver urlato su tutti i toni e lanciato imprecazioni contro Yanez, contro le guardie e contro lo stesso rajah che accusavano di proteggere i ladri, si dispersero, lasciando soli il taverniere e i suoi quattro sguatteri malconci.

Sarawak non e una città molto vasta: le due guardie, in meno di cinque minuti, giunsero alla palazzina del rajah, costruita in legno, come tutte le abitazioni dei bianchi che coronano le collinette dei dintorni.

Sulla cima ondeggiava una bandiera che al portoghese parve rossa come quella inglese: dinanzi alla porta stava impalato un indiano armato di fucile e baionetta.

– Mi condurrete subito dal rajah?

– È troppo tardi – risposero le guardie. – Il rajah dorme.

– E dove passerò la notte?

– Vi daremo una stanza.

– Purché non sia una cantina.

– Un compatriota del rajah non si mette in una cantina.

Il portoghese fu fatto entrare: salirono una scala, poi Yanez fu introdotto in una stanzetta con le finestre difese da grosse stuoie di foglie di nipa, il cui arredamento era costituito da un’amaca di filamenti di cocco, da qualche mobile di provenienza europea e da una lampada che era stata già accesa.

– Per Giove! – esclamò, stropicciandosi allegramente le mani. – Dormirò come un babirussa.

– Desidera nulla? – chiese una delle guardie.

– Che mi si lasci dormire – rispose Yanez.

Una guardia uscì, ma l’altra si sedette presso la porta mettendosi in bocca una noce di areca avvolta in una foglia di betel.

– Approfitterò per farlo cantare; ci sono molte cose che ignoro e che quest’uomo senza dubbio sa – pensò Yanez.

Arrotolò una sigaretta, l’accese, aspirò alcune boccate di fumo e avvicinandosi alla guardia:

– Giovanotto, sei indiano? – chiese.

– Bengalese, sir – rispose la guardia.

– È da molto tempo che sei qui.?

– Due anni.

– Hai udito parlare di un pirata che si chiama la Tigre della Malesia?

– Sì.

Yanez represse a stento un gesto di gioia.

– È vero che la Tigre è qui? – domandò.

– Non lo so, ma si dice che i pirati hanno assaltato un vascello a venti o trenta miglia dalla costa e che poi sono sbarcati.

– Dove?

– Non si sa precisamente in qual luogo, ma lo sapremo.

– In qual modo?

– Il rajah ha delle brave spie.

– Dimmi, è vero che alcuni mesi or sono è naufragato un vascello inglese presso il capo Tanjong-Datu?

– Sì – rispose l’indiano. – Era un vascello da guerra proveniente da Calcutta.

– Chi corse in suo aiuto?

– Il nostro rajah col suo schooner, il Realista.

– Fu salvato l’equipaggio?

– Tutto, compreso un indiano condannato alla deportazione perpetua, non ricordo più in quale isola.

– Un indiano condannato alla deportazione perpetua! – esclamò Yanez, fingendo la massima sorpresa. – E chi era costui?

– Si chiamava Tremal-Naik.

– E qual delitto aveva commesso? – chiese Yanez, trepidante.

– Mi si disse che aveva ucciso degli inglesi.

– Che brigante! Ed è ancora qui questo indiano?

– È rinchiuso nel fortino.

– In quale?

– Quello che è sul colle. Non ve n’è che uno a Sarawak.

– Ha guarnigioni il fortino?

– Vi sono i marinai del legno naufragato.

– Molti?

– Una sessantina al massimo.

Yanez fece una smorfia. – Sessanta uomini! – mormorò. – E forse vi saranno anche dei cannoni.

Si mise poi a camminare per la stanza, meditabondo. Passeggiò così per alcuni minuti, poi si sdraiò sull’amaca, pregò la sentinella di abbassare la fiamma della lampada e chiuse gli occhi.

Quantunque prigioniero e con molti pensieri pel capo, il portoghese dormì tranquillo come se fosse stato a bordo della Perla di Labuan o nella capanna della Tigre della Malesia.

Quando si svegliò, un raggio di sole penetrava attraverso le foglie di nipa che servivano da persiane.

Guardò verso la porta, ma la sentinella non c’era più. Vedendolo dormire e fors’anche udendo russare, se n’era andata, certa che un prigioniero di quel genere non sarebbe saltato dalle finestre.

– Benissimo – disse il portoghese. – Approfittiamone.

Balzò giù dall’amaca, fece un po’ di toilette, alzò la stuoia e si affacciò alla finestra, respirando a pieni polmoni l’aria fresca del mattino.

Sarawak presentava un bel colpo d’occhio con le sue palazzine di legno circondate da verdeggianti boschetti, col suo grande fiume ombreggiato da superbi alberi e solcato da piccoli prahos, da svelte piroghe, da leggeri e lunghi canotti, con le bizzarre casette dal tetto arcuato e dipinte a smaglianti colori, del quartiere cinese, con le capanne di foglie di nipa, piantate su pali di rispettabile altezza, del quartiere dayaco e le viuzze affollate di cinesi, di dayachi, di bughisi e di macassaresi.

Il portoghese percorse, con un rapido sguardo, la città e arrestò gli sguardi sulle colline. Come si disse, v’erano eleganti palazzine di legno abitate dagli europei. Più oltre, però, si vedeva una graziosa chiesetta e, a non grande distanza, un forte solidamente costruito e con molte feritoie.

Il portoghese lo guardò con attenzione profonda.

– È la che vi è Tremal-Naik – mormorò. – Come liberarlo?

In quello stesso istante una voce dietro di lui diceva:

– Il rajah vi attende.

Yanez si volse e si trovò dinanzi il bengalese.

– Ah! siete voi, amico? – disse sorridendo. – Come sta rajah Brooke?

– Vi attende, sir.

– Andiamo a stringergli la mano.

Uscirono, salirono un’altra scala ed entrarono in un salotto, le cui pareti scomparivano sotto un vero strato d’armi di tutte le grandezze e di tutte le forme.

– Entrate in quel gabinetto – disse il bengalese.

– Che cosa racconterò? – mormorò il portoghese. – Coraggio, Yanez. hai una vecchia volpe dinanzi.

Spinse la porta ed entrò risolutamente nello studio in mezzo al quale davanti ad una tavola ingombra di carte geografiche, stavasene seduto il rajah di Sarawak.

3. Il rajah James Brooke

James Brooke, al cui valore l’intera Malesia e la marina dei due mondi devono molto, merita alcune righe di storia.

Discendeva, quest’uomo audace che a prezzo di lotte sanguinose, di sforzi terribili, s’ebbe il soprannome di sterminatore di pirati, dalla famiglia del baronetto Vyner, che sotto Carlo II fu Lord-mayor di Londra. Giovanissimo ancora, si era arruolato nell’esercito delle Indie come alfiere ma ferito gravemente in una pugna contro i Bornesi, aveva poco dopo date le proprie dimissioni, ritirandosi a Calcutta.

La vita tranquilla non era fatta per il giovane Brooke, uomo freddo e positivo, ma dotato di una energia straordinaria e amante delle più arrischiate avventure.

Guarito della ferita tornò in Malesia, percorrendola per ogni verso. A questo viaggio egli deve la sua celebrità, divenuta più tardi mondiale.

Profondamente impressionato dall’incessante corseggiare e dalle stragi orrende che compivano i pirati malesi, nonché dalla tratta degli uomini di colore, si era proposto, malgrado i grandi pericoli a cui andava incontro, di rendere sicura la navigazione e libera la Malesia.

James Brooke, nei suoi propositi, era un uomo tenacissimo. Vinti gli ostacoli oppostogli dal suo governo all’esecuzione dell’ardito progetto, armava un piccolo schooner, il Realista, e nel 1838 salpava per Sarawak, cittadina del Borneo che allora non contava più di 1500 abitanti. Vi sbarcava in un brutto momento.

La popolazione di Sarawak, forse aizzata dai pirati malesi, si era ribellata al suo sultano Muda-Hassin e la guerra ferveva con rabbia estrema Brooke offrì tosto il suo braccio al sultano, si mise alla testa delle truppe e, dopo numerosi combattimenti, in meno di venti mesi domò la rivoluzione.

Terminata la campagna, usciva in mare contro i pirati e i mercanti di carne umana. Agguerrito l’equipaggio con una crociera di due anni, dava inizio alle battaglie, alle distruzioni, agli stermini, agli incendi. Non si può calcolare il numero dei pirati da lui uccisi, delle imbarcazioni e dei prahos colati a picco, dei covi arsi. Fu crudele, spietato, fors’anche troppo.

 

Vinta la pirateria, tornava a Sarawak. Il sultano Muda-Hassin, riconoscente per i grandi servigi resigli, lo nominava rajah della cittadina e del distretto.

Nel 1857, nel quale anno accadono gli avvenimenti che stiamo narrando, James Brooke era al culmine della sua grandezza, a segno che con un sol gesto faceva tremare persino il sultano di Varauni, il più vasto regno della grande isola del Borneo.

Al rumore che fece Yanez entrando, il rajah si alzò con vivacità. Per quanto avesse varcato la cinquantina da qualche anno e nonostante gli strapazzi di una vita agitatissima, era un uomo ancor vegeto, robusto, la cui indomabile energia traspariva dallo sguardo vivo e brillante.

Certe rughe però che solcavano la sua fronte e i capelli già bianchi annunciavano che una rapida vecchiaia avanzavasi.

– Altezza! – disse Yanez inchinandosi.

– Siate il benvenuto, compatriota – disse il rajah, restituendo il saluto.

L’accoglienza era incoraggiante. Yanez, che nell’entrare in quello studio aveva sentito il cuore battere con maggior frequenza, si tranquillò.

– Che cosa vi è accaduto ieri sera? – chiese il rajah dopo avergli additato una sedia. – Le mie guardie mi narrarono che voi avete sparato persino delle pistolettate. Non bisogna irritare i Cinesi, mio caro, che qui sono numerosi e non amano troppo i bianchi.

– Avevo fatto una marcia lunghissima, Altezza, e morivo di fame. Trovatomi dinanzi ad una taverna cinese, sono entrato a mangiare e a bere, quantunque non avessi un solo scellino in saccoccia.

– Come! – esclamò il rajah. – Un mio compatriota senza uno scellino? Sentiamo da dove venite e qual motivo vi guida qui. Io li conosco tutti i bianchi che abitano nel mio Stato, ma non vi ho mai veduto.

– È la prima volta che metto piede in Sarawak – disse Yanez.

– E da dove venite?

– Da Liverpool.

– Ma con quale legno siete venuto?

– Col mio yacht, Altezza.

– Ah! voi avete uno yacht? Ma chi siete voi dunque?

– Lord Gilles Welker di Closeburn – rispose Yanez, senza esitare.

Il rajah gli tese la mano, che il portoghese si affrettò a stringere molto calorosamente.

– Sono felice di accogliere nel mio Stato un lord della nobile Scozia – disse il rajah.

– Grazie, Altezza – rispose Yanez inchinandosi.

– Dove avete lasciato il vostro yacht?

– Alla foce del Palo.

– E come siete giunto qui?

– Percorrendo almeno duecento miglia per terra, fra boschi e paludi, vivendo di frutta come un vero selvaggio.

Il rajah lo guardò con sorpresa.

– Vi siete smarrito forse? – chiese.

– No, Altezza.

– Una scommessa?

– Nemmeno.

– E dunque?

– Una disgrazia.

– Ha naufragato il vostro yacht?

– No, è stato colato a picco a colpi di cannone, dopo essere stato però spogliato di tutto ciò che conteneva.

– Ma da chi?

– Dai pirati, Altezza.

Il rajah, lo sterminatore dei pirati, si alzò di scatto con gli occhi scintillanti, il viso animato da una terribile collera.

– I pirati! – esclamò. – Non sono sterminati ancora quei maledetti?

– Pare di no, Altezza.

– Avete visto il capo dei pirati?

– Sì – disse Yanez.

– Che uomo era?

– Bello assai, coi capelli nerissimi, gli occhi scintillanti, la tinta abbronzata.

– Era lui! – esclamò il rajah con viva commozione.

– Chi lui?

– La Tigre della Malesia.

– Chi è la Tigre della Malesia? Ho già udito questo nome – disse Yanez.

– È un uomo potente, milord, un uomo che possiede il coraggio del leone e la ferocia della tigre, che guida una banda di pirati che di nulla ha paura. Quell’uomo tre giorni or sono gettava l’ancora alla foce del mio fiume.

– Che audacia! – esclamò Yanez che frenò a stento un fremito. – E l’avete assalito?

– Sì, lo assalii e lo sconfissi. Ma la vittoria mi costò cara.

– Ah!

– Vedendosi circondato, dopo una lotta ostinatissima che costò la vita a sessanta soldati di Sarawak, diede fuoco alle polveri e fece saltare il suo legno insieme con uno dei miei.

– È morto, dunque?

– Ne dubito, milord. Ho fatto cercare il suo cadavere, ma non fu possibile trovarlo.

– Che sia ancor vivo?

– Io sospetto che si sia rifugiato nei boschi con buon numero dei suoi.

– Che tenti di assalire la città?

– È un uomo capace di tentare il colpo, ma che non mi coglierà indifeso. Ho fatto venire delle truppe dayache che mi sono fedelissime e ho mandato parecchi indiani della mia guardia a ispezionare le foreste.

– Fate bene, Altezza.

– Lo credo, milord – disse il rajah, ridendo. – Ma continuate il vostro racconto. In qual modo la Tigre vi assalì?

– Avevo lasciato due giorni prima Varauni mettendo la prua verso il capo Sirik. Avevo l’intenzione di visitare le principali città del Borneo, prima di tornarmene a Batavia e quindi in India.

– Facevate un viaggio di piacere?

– Sì, Altezza. Ero in mare da undici mesi.

– Proseguite, milord.

– Verso il tramonto del terzo giorno, lo yacht gettava l’ancora presso la foce del fiume Palo. Mi feci condurre a terra e m’inoltrai solo nelle foreste, con la speranza di abbattere qualche babirussa o una dozzina di tucani. Camminavo da due ore, quando udii una cannonata, poi una seconda, una terza, indi un tuonare continuo, furioso di artiglierie.

Spaventato, tornai correndo verso la costa. Era troppo tardi. I pirati avevano abbordato il mio yacht, ucciso o fatto prigioniero l’equipaggio, e avevano iniziato il saccheggio.

Rimasi nascosto, finché il mio legno andò a picco e i pirati si furono allontanati, poi mi precipitai verso la spiaggia. Non vidi che cadaveri che la risacca rotolava tra gli scogli, rottami, e l’estremità dell’alberetto di maestra che usciva di mezzo piede dalle onde.

Tutta la notte, disperato, mi aggirai presso la foce del fiume, chiamando, ma invano, i miei disgraziati marinai. Al mattino mi misi risolutamente in marcia seguendo la costa, attraversando foreste, paludi e fiumi, cibandomi di frutta e di volatili che la mia carabina mi procurava. A Sendang cedetti la mia arma e il mio orologio, le uniche ricchezze che possedevo, e mi riposai quarantotto ore. Acquistate nuove vesti da un colono olandese, un paio di pistole e un kriss, mi rimisi in viaggio e arrivai qui, affamato, spossato e per di più senza uno scellino.

– Ed ora, cosa contate di fare?

– A Madras ho un fratello ed in Iscozia ho ancora dei possedimenti e dei castelli. Scriverò per farmi mandare alcune migliaia di sterline, e col primo legno che giungerà qui tornerò in Inghilterra.

– Lord Welker – disse il rajah, – io metto la mia casa e la mia borsa a vostra disposizione, e farò di tutto perché non dobbiate annoiarvi durante il tempo che rimarrete nel mio Stato.

Un lampo di gioia balenò sul volto di Yanez.

– Ma, Altezza… – balbettò, fingendosi imbarazzato.

– Ciò che faccio per voi, milord, lo farei per qualunque mio compatriotta.

– Come potrò ringraziarvi?

– Se un giorno verrò in Iscozia, mi contraccambierete.

– Ve lo giuro, Altezza. I miei castelli saranno sempre aperti per voi e per i vostri amici.

– Grazie, milord – disse il rajah ridendo.

Suonò un campanello. Un indiano comparve.

– Questo signore è mio amico – gli disse il rajah additandogli il portoghese. – Metto a disposizione la mia casa, la mia borsa, i miei cavalli e le mie armi.

– Sta bene, rajah – rispose l’indiano.

– Dove vi recate ora, milord? – chiese il principe.

– Visiterò la città e, se me lo permettete, Altezza, farò un giro pei boschi. Sono molto amante della caccia.

– Verrete a pranzare con me?

– Farò il possibile, Altezza.

– Pandij, conducilo nella sua stanza.

Porse la mano a Yanez il quale gliela strin se vigorosamente dicendo:

– Grazie, Altezza, di quanto fate per me.

– Arrivederci, milord.

Il portoghese uscì dal gabinetto, preceduto dall’indiano, ed entrò nella stanza destinatagli.

– Vattene – disse all’indiano. – Se avrò bisogno dei tuoi servigi suonerò.

Rimasto solo, il portoghese diede uno sguardo alla sua stanza. Era vasta, illuminata da due finestre che guardavano verso le colline, tappezzata di bellissima thungoa (carta fiorita di Tung) e ammobiliata con ricercatezza. C’erano un buon letto, un tavolino, parecchie sedie di leggerissimo bambù, sputacchiere cinesi, una bella lampada dorata proveniente senza dubbio dall’Europa e parecchie armi europee, indiane, malesi e bornesi.

– Benissimo – mormorò il portoghese, stropicciandosi le mani. Il mio amico Brooke mi tratta come se fossi un vero lord. Ti farò vedere mio caro, che razza di lord Welker io sia. Ma prudenza, Yanez, prudenza! Hai da fare con una vecchia volpe.

In quell’istante un fischio acuto risuonò al di fuori. Il portoghese trasalì.

– Kammamuri – disse. – Questa è una imprudenza.