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I Pirati della Malesia

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5. La caccia all’Helgoland

Il pirata di Mompracem si era prontamente rimesso da quella terribile commozione. La sua faccia, quantunque ancora alterata, aveva ripreso la sua fiera espressione che incuteva rispetto e terrore ai più coraggiosi, e sulle sue labbra, quantunque un po’ scolorite, errava un malinconico sorriso.



Grosse gocce di sudore imperlavano però la sua ampia fronte, lievemente corrugata, e una fiamma sinistra brillava in quegli sguardi che penetravano nel più profondo dei cuori.



– È passata la tempesta? – chiese Yanez, sedendosi accanto a lui.



– Sì – disse la Tigre, con voce sorda.



– Ogni volta che tu odi un nome che ti ricorda Marianna ti agiti e stai male.



– Ho troppo amato quella donna… Yanez. Quel ricordo così bruscamente evocato mi ha fatto più male di una palla di carabina che fosse entrata nel mio petto… Marianna, mia povera Marianna!



Un secondo singhiozzo lacerò il petto della Tigre.



– Coraggio, fratello mio – disse Yanez, che era assai commosso. – Non dimenticare che tu sei la Tigre della Malesia.



– Certi ricordi sono tremendi anche per una tigre.



– Vuoi che parliamo di Ada Corishant?



– Parliamone, Yanez.



– Credi a quanto ha narrato il maharatto?



– Credo, Yanez.



– Che cosa farai?



– Yanez – rispose Sandokan con voce triste, – ti ricordi ciò che disse una sera, sotto la fresca ombra di un maestoso durion, mia moglie?



– Sì, me lo ricordo. «Sandokan, mio prode amico, ti disse, ho una cugina che idolatro nella lontana India. È figlia d’un fratello di mia madre».



– Avanti, Yanez.



– Proseguo. «Ella è scomparsa, non si sa dove sia. Si dice che i thugs indiani l’abbiano rapita; Sandokan, mio prode amico, salvala, restituiscila all’addolorato suo genitore».



– Basta, basta, Yanez! – esclamò il pirata con voce straziante.– Oh, quei ricordi mi lacerano il cuore. E non poter riveder più quella povera donna!… Marianna, mia adorata Marianna!…



Il pirata si era preso il capo fra le mani e rauchi singhiozzi sollevavano il suo atletico petto.



– Sandokan – disse Yanez, – sii forte.



Il pirata rialzò il capo.



– Sono forte, – rispose.



– Vuoi che riprendiamo il discorso?



– Sì.



– Purché tu sia calmo.



– Lo sarò.



– Che cosa farai per Ada Corishant?



– Che cosa farò? E me lo chiedi? Andrò subito a salvarla, poi andrò a Sarawak a liberare il suo fidanzato.



– Ada Corishant è salva, Sandokan – disse Yanez.



– Salva!… salva!… – esclamò il pirata balzando in piedi.



– Dov’è?



– Qui.



– Qui!… E perché non me l’hai detto prima?



– Perché quella giovinetta somiglia alla tua defunta moglie, quantunque non abbia né i capelli d’oro, né gli occhi azzurri come il mare. Io temevo che tu nel vederla provassi un fiero colpo.



– Io voglio vederla, Yanez, iovoglio vederla!



– La vedrai subito.



Aprì la porta. Kammamuri, in preda ad una indicibile ansietà, era seduto su un gabbione sfondato aspettando di venire chiamato.



– Signor Yanez!– esclamò con voce tremante, lanciandosi verso il portoghese.



– Calma, Kammamuri.



– Salverete il mio padrone?



– Lo speriamo – disse Yanez.



– Grazie, signore, grazie!



– Mi ringrazierai quando l’avremo salvato. Ora scendi al villaggio e conduci qui la tua padrona.



Il maharatto discese la stretta scala a precipizio mandando urla di gioia.



– Bravo giovanotto – mormorò il portoghese.



Rientrò e si avvicinò a Sandokan, che era tornato a sedersi e teneva il viso nascosto fra le mani.



– A cosa pensi, fratello mio? – gli chiese con voce affettuosa.



– Al passato, Yanez – rispose il pirata.



– Non pensare mai al passato, Sandokan. Tu lo sai, ti fa soffrire. Dimmi, quando partiremo?



– Subito.



– Per Sarawak?



– Per Sarawak.



– Avremo un osso duro da rodere. Il rajah di Sarawak è potente e odia terribilmente i pirati.



– Lo so, ma i nostri uomini si chiamano i tigrotti di Mompracem ed io la Tigre della Malesia.



– Andremo direttamente a Sarawak o incroceremo presso le coste?



– Incroceremo nella vasta baia. Bisogna, prima di sbarcare, affondare l’Helgoland.



– Comprendo il tuo piano.



– Lo approvi?



– Sì, Sandokan, e…



Si arrestò di botto. La porta erasi improvvisamente aperta e sulla soglia era apparsa Ada Corishant, la vergine della pagoda d’Oriente.



– Guardala, Sandokan! – esclamò il portoghese.



Il pirata si volse. Nel vedere quella donna ritta sulla soglia della porta emise un urlo e indietreggiò, vacillando, fino al muro.



– Quale somiglianza!… – esclamò. – Quale somiglianza!



La pazza non si era mossa, conservava una immobilità assoluta, ma guardava fisso il pirata.



D’improvviso fece due passi innanzi e pronunciò una parola:



– Dei thugs?



– No – disse Kammamuri che l’aveva seguita. – No, padrona, non sono thugs.



Ella scosse il capo, si avvicinò a Sandokan che pareva non fosse capace di staccarsi dal muro, e gli mise una mano sul petto. Pareva che cercasse qualcosa.



– Dei thugs? – ripeté ella.



– No, padrona, no – disse il maharatto.



Ada aprì il gran mantello di seta bianca mettendo allo scoperto una corazza d’oro tempestata di grossi diamanti, in mezzo alla quale campeggiava, in alto rilievo, un serpente con la testa di donna.



Guardò a lungo quel misterioso simbolo degli strangolatori indiani, poi guardò il petto di Sandokan.



– Perché non vedo il serpente? – chiese con voce lievemente alterata.



– Perché questi uomini non sono thugs – disse Kammamuri.



Un lampo balenò negli occhi della pazza, ma subito si spense. Aveva compreso ciò che aveva detto Kammamuri? Forse.



– Kammamuri – disse Yanez sottovoce. – Se tu pronunciassi il nome del suo fidanzato?



– No, no! – esclamò il maharatto con terrore. – Essa cadrebbe in



deliquio.



– È sempre così tranquilla?



– Sempre, ma fate che non oda lo squillo di un ramsinga o di un tarè, e che non veda un laccio o una statua della dea Kalì.



– Perché?



– Perché allora fugge e per parecchi giorni delira.



In quell’istante la pazza si volse, dirigendosi a lenti passi verso la porta. Kammamuri, Yanez e Sandokan, il quale si era rimesso dalla sua viva commozione, la seguirono.



– Che cosa vuol fare? – chiese Yanez.



– Non lo so – rispose il maharatto.



La pazza, appena uscita, si era arrestata, guardando con curiosità le trincee e le palizzate che difendevano la capanna, poi s’incamminò verso l’orlo della gigantesca rupe, guardando il mare che muggiva lungo le scogliere dell’isola.



D’un tratto si chinò, come se volesse ascoltare meglio lo strepito delle onde, poi scoppiò in una risata argentina, esclamando:



– Il Mangal!



– Che cosa dice? – chiesero ad una voce Sandokan e Yanez.



– Credo che scambi il mare per il fiume Mangal che bagna l’isola dei thugs.



– Povera giovane! – esclamò Sandokan sospirando.



– Speri di farla ritornare in sé? – chiese Yanez.



– Sì, lo spero – rispose Sandokan.



– In qual modo?



– Te lo dirò quando avremo liberato Tremal-Naik.



– Verrà con noi quella disgraziata?



– Sì, Yanez. Durante la nostra assenza gli Inglesi potrebbero gettarsi su Mompracem e portarcela via.



– Quando si partirà? – chiese Kammamuri.



– Subito – disse Sandokan. – Abbiamo molta strada da percorrere e l’Helgoland forse non è molto lontano.



Kammamuri prese per mano Ada e scese la scaletta, seguito dalla Tigre della Malesia e da Yanez.



– Che impressione ti ha fatto quella sventurata? – chiese il portoghese a Sandokan.



– Un’impressione dolorosa, Yanez – disse il pirata. – Ah, potessi un giorno farla felice!



– Somiglia alla defunta Marianna?



– Sì, sì, Yanez! – esclamò Sandokan con voce commossa. – Ha gli stessi lineamenti della mia povera Marianna!… Basta, Yanez, non parliamo più di quella morta. Ciò mi fa soffrire, immensamente soffrire!



Erano allora giunti alle prime capanne del villaggio. Proprio in quel momento i prahos, carichi del bottino tolto alla Young-India, entravano nella baia.



Gli equipaggi, scorgendo il loro capo, lo salutarono con evviva entusiastici, agitando freneticamente le armi.



– Viva l’invincibile Tigre della Malesia! – urlavano.



– Viva il nostro valoroso capitano! – rispondevano i pirati del villaggio.



Sandokan, con un solo gesto della mano, chiamò attorno a sé tutti i pirati, i quali non erano meno di duecento, la maggior parte malesi e dayachi del Borneo, uomini coraggiosi come leoni, feroci come tigri, pronti a farsi uccidere per il loro capo che adoravano come una divinità.



– Ognuno mi ascolti – diss’egli. – La Tigre della Malesia sta per intraprendere una spedizione che forse costerà la vita a gran numero di noi.



Tigrotti di Mompracem, sulle coste del Borneo regna un uomo, figlio d’una stirpe che tanto male ci inflisse e che noi odiamo, un inglese, tiene in sua mano un mio amico, il fidanzato di questa povera pazza che è cugina della defunta regina di Mompracem.



Un urlo immenso s’alzò attorno a Sandokan.



– Lo si salvi!… lo si salvi!…



– Tigrotti di Mompracem, io voglio salvare il fidanzato di questa infelice.



– Lo salveremo, Tigre della Malesia, lo salveremo!… Chi lo tiene prigioniero?



– Il rajah James Brooke, lo sterminatore dei pirati.



Questa volta non fu un urlo quello che irruppe dai petti dei pirati, fu un ruggito d’ira da far fremere:



– Morte a James Brooke!…



– Morte allo sterminatore dei pirati!



– A Sarawak!… tutti a Sarawak!…



– Vendetta, Tigre della Malesia!



– Silenzio! – tuonò la Tigre della Malesia. – Karà-Olò, fatti innanzi.



Un uomo gigantesco, dalla pelle giallastra, le membra cariche di anelli di rame e il petto adorno di perle di vetro, di denti di tigre, di conchiglie e di ciuffi di capelli, gli si avvicinò, impugnando un pesante sciabolone che si allargava verso l’estremità.

 



– Quanti uomini conta la tua banda? – gli chiese Sandokan.



– Ottanta – rispose il pirata.



– Hai paura di James Brooke?



– Non ho mai avuto paura di nessuno. Quando la Tigre della Malesia mi ordinerà di gettarmi su Sarawak, io l’assalirò e dietro a me verranno tutti i miei uomini.



– T’imbarcherai con l’intera banda sulla Perla di Labuan. Non occorre che ti dica che il praho deve essere zeppo di palle e di polvere.



– Sta bene, capitano.



– Ed io, che cosa dovrò fare, capitano? – chiese un vecchio malese, sfigurato da più di venti cicatrici.



– Tu, Nayala, rimarrai a Mompracem con le altre bande; lascia che vadano i giovani a Sarawak!



– Rimarrò qui, giacché me l’ordinate, e difenderò l’isola finché avrò una goccia di sangue nelle vene.



Sandokan e Yanez si intrattennero ancora a parlare coi capitani delle bande, indi salirono nella grande capanna.



I loro preparativi furono brevi. Nascoste sotto le vesti alcune borse contenenti grossi diamanti, per un valore di forse due milioni, e scelte le carabine, le pistole, le scimitarre ed i kriss dalla punta acuta e avvelenata, ridiscesero verso la costa.



La Perla di Labuan, coperta di vele, ondeggiava nella piccola rada, impaziente di uscire in mare. Sul ponte stavano schierati gli ottanta dayachi di Karà-Olò, pronti a manovrare.



– Tigrotti – disse Sandokan, volgendosi verso i pirati affollati sulla spiaggia, – difendete la mia isola. – La difenderemo – risposero in coro i tigrotti di Mompracem, agitando le armi.



Sandokan, Yanez, Kammamuri e la vergine della pagoda d’Oriente salirono in una imbarcazione e raggiunsero la nave, la quale, sciolte le gomene, navigò verso l’alto mare salutata da urla di:



– Evviva la Perla di Labuan!…Evviva la Tigre della Malesia!… Evviva i tigrotti di Mompracem!



6. Da Mompracem a Sarawak

La Perla di Labuan, con la quale il capo dei pirati di Mompracem stava per intraprendere l’audace spedizione, era uno dei più grandi, dei più bei prahos che solcassero gli ampi mari della Malesia.



Stazzava centocinquanta o centosessanta tonnellate, il triplo dei prahos ordinari.



Strettissima aveva la carena, svelte le forme, alta e solida la prua, fortissimi gli alberi e amplissime le vele, i cui pennoni non misuravano meno di sessanta metri.



A vento largo, doveva filare come una rondine marinara e lasciarsi di gran lunga indietro i più rapidi steamers e i più veloci velieri d’Asia e d’Australia.



Non aveva nulla che potesse farla credere un legno corsaro. Né cannoni in vista, né equipaggio numeroso, né sabordi. Pareva un elegante praho mercantile con un carico prezioso nella stiva, in rotta per la Cina o per le Indie. Il più astuto lupo di mare si sarebbe ingannato.



Chi però fosse sceso nella stiva avrebbe potuto vedere di che merci il praho era carico. Non erano né tappeti, né ori, né spezie, né thè: erano bombe, fucili, pugnali, sciaboloni d’arrembaggio e barili di polvere in quantità sufficiente per far saltare due fregate di alto bordo.



Chi poi fosse entrato sotto il gran casotto (attap), avrebbe potuto vedere sei cannoni di lunga portata, posti sulle loro carrette, pronti a vomitare uragani di mitraglia e di palle, nonché due mortai da grosse bombe, grappini d’arrembaggio, asce, scuri e pesanti parangs, le armi favorite dei dayachi del Borneo. Girate le innumerevoli rocce e scogliere madreporiche, che rendevano inaccessibile l’entrata della piccola baia alle grosse navi, la svelta Perla di Labuan mise la prua verso la costa del Borneo, e precisamente verso il capo Sirik, che chiude ad occidente la vasta insenatura di Sarawak.



Il tempo era splendido e il mare tranquillo: in cielo pochi cirri color di fuoco: in mare nulla. Non una vela, non una traccia di fumo che segnalasse uno steamer all’orizzonte, non onde. La immensa distesa d’acqua color piombo era perfettamente tranquilla, quantunque soffiasse un leggero venticello fresco.



In meno di venti minuti, il veloce legno raggiunse l’estrema punta sud dell’isola, dietro la quale finiva di sfasciarsi lo scheletro dell’Young-India e prese il largo, inclinato civettuolamente a babordo, lasciando dietro la poppa una linea perfetta. Yanez e Kammamuri, condotta la vergine della pagoda nella più vasta e bella cabina di poppa, erano risaliti in coperta, dove Sandokan passeggiava con le braccia incrociate sul petto e il capo chino, immerso in profondi pensieri.



– Che ti pare del nostro legno? – chiese Yanez al maharatto, il quale, appoggiato al coronamento di poppa, guardava attentamente le coste dirupate di Mompracem che rapidamente svanivano in lontananza.



– Non mi ricordo di aver navigato su di un legno rapido come questo, signor Yanez – rispose il maharatto. – I pirati, a quanto pare, sanno scegliere i loro navigli.



– Hai ragione, mio caro. Non c’è piroscafo che tenga testa a questa valorosa Perla di Labuan. In pochi giorni, se questo vento non diminuisce, noi saremo in vista delle coste di Sarawak.



– Senza combattimenti?



– Ciò non si può sapere. In questo mare si conosce la Perla di Labuan e molti sono gli incrociatori che battono le coste del Borneo. Potrebbe darsi il caso che a qualcuno di loro saltasse il ticchio di misurarsi con la Tigre della Malesia.



– E se ciò accadesse?



– Perbacco, accetteremmo la sfida. La Tigre della Malesia, amico mio, non rifiuta mai un combattimento.



– Non vorrei che ci assalisse qualche grosso vascello.



– Non ci farebbe paura. Abbiamo nella stiva tante sciabole e tanti fucili da armare la popolazione di una città, tante bombe da affondare una flotta intera e tanta polvere da far saltare mille case.



– Ma solo ottanta uomini!



– Ma sai tu quali uomini sono i nostri?



– So che sono coraggiosi, ma…



– Sono dayachi, mio caro.



– Che cosa vuol dire?



– Gente che non ha paura di gettarsi contro una muraglia di ferro difesa da cento cannoni, quando sanno che al di là vi sono teste da tagliare.



– Danno la caccia alle teste, questi dayachi?



– Sì, giovanotto mio. I dayachi, che vivono per lo più nelle grandi foreste del Borneo, si chiamano head-hunters, ossia cacciatori di teste.



– Sono terribili compagni, allora.



– Formidabili.



– E anche pericolosi. Se una notte saltasse loro la brutta idea di decapitarci?



– Non aver paura, giovanotto. Rispettano e temono più noi che le loro divinità. Basta una parola, una sola occhiata della Tigre per farli diventare mansueti.



– E quando arriveremo a Sarawak?



– Fra cinque giorni, se non sopraggiungono accidenti.



– Burrasche, forse?



– Peuh – fece il portoghese alzando le spalle. – La Perla di Labuan, guidata da un lupo di mare come Sandokan, si ride dei più formidabili cicloni. Sono gli incrociatori, ti ripeto, che di quando in quando vengono a seccarci.



– Ve ne sono molti, dunque?



– Pullulano come le piante velenose. Portoghesi, Inglesi, Olandesi e Spagnoli hanno giurato una guerra a morte contro la pirateria.



– Sicché un bel giorno i pirati scompariranno.



– Oh, mai più! -esclamò Yanez, con profonda convinzione.



– La pirateria durerà finché vi sarà un solo malese.



– E perché?



– Perché la razza malese non si sente inclinata per la civiltà europea. Non conosce che il furto, l’incendio, il saccheggio, l’assassinio, terribili mezzi che le somministrano da vivere in abbondanza. La pirateria malese conta parecchi secoli di vita e continuerà per molti secoli ancora. È una eredità sanguinosa che si trasmette di padre in figlio.



– Ma non scema questa razza?? I continui combattimenti devono fare dei grandi vuoti.



– Poca cosa, Kammamuri, poca cosa! La stirpe malese è feconda come le piante velenose, come gli insetti nocivi. Morto uno, un altro ne nasce e il figlio non è meno valoroso né meno sanguinario del padre.



– La Tigre della Malesia è malese?



– No, è bornese e di una casta elevata.



– Ditemi, signor Yanez, come mai un uomo terribile che assalta vascelli, che trucida interi equipaggi, che saccheggia e incendia villaggi, che, infine, sparge ovunque il terrore, si è generosamente offerto di salvare il mio padrone che non ha mai conosciuto?



– Perché il tuo padrone fu il fidanzato di Ada Corishant.



– Conosceva, forse, Ada Corishant? – chiese Kammamuri, con sorpresa.



– Non l’ha mai veduta.



– Non capisco allora…



– Lo capirai subito, Kammamuri. Nel 1852, cioè cinque anni or sono, la Tigre della Malesia aveva raggiunto il culmine della sua potenza. Aveva molti e ferocissimi tigrotti, molti prahos, parecchi cannoni. Con una sola parola faceva tremare tutti i popoli della Malesia.



– Eravate anche allora insieme con la Tigre?



– Sì e da parecchi anni. Un giorno Sandokan fu informato che a Labuan viveva una fanciulla incantevole, bellissima, e si sentì vinto dal desiderio di contemplarla. Si recò a Labuan, ma fu scoperto da un incrociatore, vinto e ferito. Con infinite pene e affatto solo poté riparare sotto i boschi e di là giungere ad una casa abitata da… indovina da chi?



– Non lo saprei.



– Dalla fanciulla che voleva vedere.



– Oh! quale strana combinazione!



– La Tigre della Malesia non aveva amato fino allora che le lotte, le stragi, le tempeste. Ma, vista la fanciulla, se ne innamorò alla follia.



– Chi? La Tigre? E impossibile! – esclamò Kammamuri.



– Ti narro dei fatti veri – disse Yanez. – Amò la fanciulla, la fanciulla amò ardentemente il pirata e si accordarono per fuggire assieme.



– Perché fuggire?



– La fanciulla aveva uno zio capitano di marina, uomo ruvido, violento, nemico acerrimo della Tigre della Malesia. Passo sopra alle pugne tremende accadute fra inglesi e pirati, sulle disgrazie che toccarono alla Tigre, sul bombardamento di Mompracem, alle fughe. Ti dirò solo che Sandokan finalmente poté far sua la fanciulla e rifugiarsi a Batavia. Io e una trentina di tigrotti lo seguimmo.



– E gli altri?



– Erano tutti morti.



– E perché la Tigre tornò a Mompracem?



Yanez non rispose e il maharatto, sorpreso di non ricevere risposta, alzò gli occhi e lo vide asciugarsi rapidamente una lacrima.



– Ma voi piangete! – esclamò.



– Non è vero – disse Yanez.



– Perché negarlo?



– Hai ragione, Kammamuri. Anche la Tigre della Malesia, che non aveva mai pianto, vidi scoppiare in lacrime. Il cuore mi si stringe e un nodo mi serra la gola tutte le volte che io penso a Marianna Guillonk.



– Marianna Guillonk!… – esclamò il maharatto. – Chi è questa Guillonk?



– Era la giovinetta fuggita con la Tigre della Malesia.



– Parente di Ada Corishant?



– Cugina, Kammamuri.



– Ecco perché la Tigre ha promesso di salvare Tremal-Naik e la sua fidanzata. Ditemi, signor Yanez, è viva Marianna Guillonk?



– No, Kammamuri – disse Yanez con tristezza. – Sono due anni che dorme in una tomba.



– Morta?



– Morta!



– E suo zio?



– Vive ed è sempre in cerca di Sandokan. Lord James Guillonk ha giurato di farlo appiccare assieme a me.



– E dove si trova ora?



– Non lo sappiamo.



– Temete d’incontrarlo?



– Ti dirò che ho un presentimento. Ma… ai presentimenti già io non credo più. – Accese una sigaretta e si mise a passeggiare sul ponte. Il maharatto notò che quell’uomo, di solito così ilare, era diventato triste.



– Forse sono i ricordi che l’hanno reso malinconico – mormorò, e scese nella cabina della pazza.



Il vento continuava a mantenersi buono, anzi tendeva a crescere, accelerando la corsa della Perla di Labuan, la quale non tardò a raggiungere i sette nodi all’ora, velocità che le avrebbe permesso di guadagnare ii capo Sirik molto presto.



A mezzodì furono segnalate a babordo le Romades, gruppo d’isole situate a quaranta miglia dalla costa del Borneo, abitate per la maggior parte da pirati che se la intendevano a meraviglia con quelli di Mompracem. Alcuni prahos, anzi, raggiunsero la Perla di Labuan, augurando all’equipaggio e al suo capitano buona preda.



Qualche vela lontana, un brigantino e alcune giunche cinesi di forme pesanti e barocche, furono segnalati durante il giorno, ma la Tigre della Malesia, che temeva di arrivare dopo l’Helgoland e non voleva esporre i suoi uomini in un combattimento inutile, non si curò di quei navigli.



All’indomani, ai primi albori, fu segnalata Whale, isola considerevole, lontana centodieci miglia da Mompracem, cinta da scogliere innumerevoli che rendono oltremodo pericoloso l’approdo. Una cannoniera con bandiera olandese, che esplorava la costa cercando senza dubbio qualche legno corsaro, appena ebbe scorta la Perla di Labuan prese il largo a tutto vapore; il suo ponte, in un baleno, si coprì di marinai armati di carabine di lunga portata e gli artiglieri smascherarono a tribordo un grosso cannone.

 



– Aoh! – esclamò Yanez, avvicinandosi a Sandokan che guardava con occhio tranquillo la cannoniera. – Fratellino mio, quella bestia là ha fiutato qualcosa, perché pare che si prepari a darci la caccia.



– Non crederlo – rispose la Tigre. – Si accontenterà di seguirci.



– Non mi va troppo a sangue essere seguito da una cannoniera.



– Hai paura?



– No, fratello mio. Ma se quella cannoniera ci seguisse fino a Sarawak?



– Perché vuoi che ci segua a Sarawak? Se ha un sospetto ci darà battaglia e noi la coleremo a picco.



– Diffida, fratello. Mi si disse che James Brooke ha una buona flottiglia, che cambia assai spesso bandiera ed apparenza per dar la caccia ai pirati.



– Le conosco le astuzie di quel lupo di mare. So che talvolta, per attirare i pirati, disalbera la sua nave, il Realista, per mitragliarli appena giunti a tiro.



– È vero, Sandokan, che quel diavolo d’uomo ha sterminato quanti pirati battevano le coste di Sarawak?



– È vero, Yanez. Col suo piccolo schooner, il Realista, purgò le coste di mezzo Borneo, distruggendo tutti i prahos, incendiando i villaggi, cannoneggiando le fortezze. Quell’uomo ha del sangue nelle vene, non tanto però quanto ne hanno i pirati di Mompracem. Tremi il giorno in cui i miei tigrotti approderanno sulle sue terre.



– Vuoi misurarti con lui?



– Lo spero. La Tigre darà allo sterminatore dei pirati un colpo terribile, forse il colpo di grazia.



– Aho! – esclamò il portoghese.



– Cos’hai?



– Guarda la cannoniera, Sandokan. C’invita a mostrare la nostra bandiera.



– Non sarà certo la mia, quella che mostrerò.



– Quale allora? – chiese Yanez.



– Ehi, Kai-Malù, mostra a quei curiosi una bandiera inglese, olandese o portoghese.



Pochi istanti dopo, una bandiera portoghese sventolava a poppa del praho.



La cannoniera, soddisfatta, prese quasi subito il largo, non già verso l’isola Whale, che si scorgeva ancora all’orizzonte, ma verso il sud.



Quella rotta fece aggrottare le ciglia alla Tigre della Malesia e al suo compagno.



– Uhm! – fece il portoghese. – C’è sotto qualche cosa.



– Lo so, fratello.



– Quella cannoniera si dirige verso Sarawak, ne sono certo, certissimo. Appena fuori di vista modificherà la sua rotta.



– Gli uomini che la montano sono furbi. Hanno fiutato in noi dei pirati.



– Che cosa farai?



– Nulla per ora. Quella cannoniera, oggi, cammina più di noi.



– Che vada ad aspettarci a Sarawak?



– È probabile.



– Ci tenderà forse un agguato alla foce del fiume, con la flotta di Brooke.



– Daremo battaglia.



– Non abbiamo che otto cannoni, Sandokan.



– Noi, ma l’Helgoland ne avrà più di noi. Lo vedrai, portoghese, ci divertiremo.



Per due giorni la Perla di Labuan navigò alla distanza di una trentina di miglia dalla costa del Borneo, segnalata dalla cima del monte Patau, gigantesco cono coperto di superbe foreste che si eleva a 1880 piedi sul livello del mare.



La mattina del terzo, dopo una breve calma, girava il capo Sirik, promontorio roccioso coronato da alcune isole e isolotti che chiude la vasta baia di Sarawak verso nord. Sandokan, che temeva di trovarsi da un istante all’altro dinanzi alla flottiglia di James Brooke, fece caricare i cannoni, nascondere due terzi dell’equipaggio; quindi innalzò la bandiera olandese. Dopo di che, mise la prua al capo Tanjong-Datu, che ad occidente chiude la baia, in vicinanza del quale doveva passare l’Helgoland proveniente dall’India. Verso il mezzodì dello stesso giorno, tra la generale sor