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I Pirati della Malesia

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3. La Tigre della Malesia

L’uomo che aveva gettato in così buon momento quel grido poteva avere trentadue o trentaquattro anni.

Era alto di statura, con la pelle bianca, i lineamenti fini, aristocratici, due occhi azzurri, dolci, e i baffi neri che ombreggiavano le labbra sorridenti.

Vestiva con estrema eleganza: giacca di velluto marrone con bottoni d’oro stretta ai fianchi da una larga fascia di seta azzurra, calzoni di broccatello, lunghi stivali di pelle rossa, a punta rialzata, e un ampio cappello di paglia di vera manilla in testa. Ad armacollo portava una magnifica carabina indiana e al fianco pendeva una scimitarra la cui impugnatura d’oro era sormontata da un diamante grosso quanto una nocciola, d’uno splendore ammirabile.

Con un cenno allontanò i pirati, si avvicinò all’indiano che non aveva pensato a rialzarsi, tanta era la sua sorpresa nel sentirsi ancora vivo, e lo guardò per alcuni istanti con profonda attenzione.

– Che ne dici? – gli chiese con tono allegro.

– Io!… – esclamò Kammamuri, che si domandava chi poteva mai essere l’uomo dalla pelle bianca che comandava quei terribili pirati.

– Sei sorpreso di sentirti ancora la testa sulle spalle?

– Tanto sorpreso che mi domando se è vero che sono ancora vivo.

– Non dubitarne, giovanotto.

– Perché? – chiese ingenuamente l’indiano.

– Perché non sei un bianco, innanzitutto…

– Ah! – esclamò – Voi odiate i bianchi?

– Sì.

– Non siete un bianco, voi, dunque?

– Per Bacco, un portoghese puro sangue!

– Non capisco allora perché voi…

– Alto là, giovanotto; questo discorso non mi va a sangue.

– Sia pure, e poi?

– Poi, perché sei un prode e io amo i prodi.

– Sono maharatto – disse l’indiano con fierezza.

– Una razza che ha un buon nome. Dimmi un po’, ti spiacerebbe esser dei nostri?

– Io, pirata!

– E perché no? Per Giove! Saresti un bravo compagno.

– E se rifiutassi?

– Non risponderei più della tua testa.

– Se si tratta di salvare la pelle, mi farò pirata. Chissà forse è meglio.

– Bravo giovanotto. Olà, Kotta, vammi a cercare una bottiglia di whisky. Gli americani non navigano mai senza una buona provvista.

Un malese di cinque piedi di altezza, con due braccia smisurate, scese nella cabina del povero Mac Clintock e pochi istanti dopo ritornava con un paio di bicchieri e una polverosa bottiglia alla quale aveva fatto saltare il collo.

– Whisky – lesse Yanez sull’etichetta. – Questi americani sono davvero eccellenti uomini. -

Empì due tazze e ne porse una all’indiano, chiedendogli:

– Come ti chiami?

– Kammamuri.

– Alla tua salute, Kammamuri.

– Alla vostra, signor…

– Yanez – disse l’uomo bianco.

E tracannarono d’un fiato i due bicchieri.

– Ora, giovanotto – disse Yanez, sempre di buon umore, – andremo a trovare il capitano Sandokan.

– Chi è questo Sandokan?

– Per Bacco! La Tigre della Malesia.

– E voi mi condurrete da quell’uomo?

– Certo, mio caro, e sarà lieto di ricevere un maharatto. Andiamo, Kammamuri.

L’indiano non si mosse. Pareva imbarazzato e guardava ora i pirati ed ora la poppa della nave.

– Che cos’hai? – chiese Yanez.

– Signor… – disse il maharatto, esitando.

– Parla.

– Non la toccherete?

– Chi?

– Ho una donna con me.

– Una donna! Bianca o indiana?

– Bianca.

– E dov’è?

– L’ho nascosta nella stiva.

– Conducila sul ponte.

– Non la toccherete?

– Hai la mia parola.

– Grazie, signore – disse il maharatto con voce commossa.

Corse a poppa e sparve nel boccaporto. Pochi istanti dopo risaliva sul ponte.

– Dov’è questa donna? – chiese Yanez.

– Sta per venire, ma non una parola, signore. Ella è pazza.

– Pazza!… Ma chi è?

– Eccola! – esclamò Kammamuri.

Il portoghese si volse verso poppa.

Una donna di meravigliosa bellezza, avvolta in un gran mantello di seta bianca, era improvvisamente uscita dal boccaporto arrestandosi presso il tronco dell’albero di mezzana.

Poteva avere quindici anni. La sua persona era elegante, graziosa, flessuosa; la sua pelle rosea, di una morbidezza impareggiabile; gli occhi grandi, neri e d’una dolcezza infinita; il naso piccolo e dritto; le labbra sottili, rosse come il corallo, schiuse ad un ineffabile sorriso, che lasciava scorgere due file di piccolissimi e bianchissimi denti. Una capigliatura opulenta, nerissima, divisa sulla fronte da un fermaglio in cui era incastonato un grosso diamante, le ricadeva sulle spalle in pittoresco disordine, scendendo fino alla cintura.

Ella guardò quegli uomini armati, i cadaveri che ingombravano il ponte e tutti quei rottami, senza che una contrazione di paura, di orrore o di oscurità, si disegnasse sul suo viso gentile.

– Chi è quella donna? – chiese Yanez con strano accento, afferrando una mano di Kammamuri e stringendola forte.

– La mia padrona – rispose il maharatto. – La vergine della pagoda d’Oriente.

Yanez fece alcuni passi verso la pazza che continuava a conservare

l’immobilità di una statua e la guardò fissa.

– Quale rassomiglianza!… – esclamò impallidendo.

Ritornò rapidamente verso Kammamuri e, prendendogli la mano:

– Quella donna è inglese? – chiese con voce alterata.

– È nata in India da genitori inglesi.

– Perché è diventata pazza?

– È una storia lunga.

– La narrerai dinanzi alla Tigre della Malesia. Imbarchiamoci, maharatto, e voi, tigrotti, spogliate per bene questa carcassa e poi incendiatela. La Young-India ha cessato di esistere.

Kammamuri s’avvicinò alla pazza, la prese per mano e la fece scendere nel praho del portoghese. Ella non aveva opposto resistenza, né pronunziato sillaba alcuna.

– Partiamo – disse Yanez, prendendo la ribolla del timone.

Il mare a poco a poco si era calmato. Solamente attorno ai frangenti spumeggiava e muggiva, sollevandosi in larghe ondate.

Il praho, guidato da quegli abili ed intrepidi marinai, superò le scogliere, balzando e rimbalzando sui cavalloni come una palla elastica e s’allontanò con fantastica rapidità lasciandosi dietro una scia candidissima, in mezzo alla quale giocherellavano mostruosi pesci-cani.

In capo a dieci minuti raggiunse la punta estrema dell’isola, la girò senza rallentare la sua velocità, e navigò verso un’ampia baia che aprivasi dinanzi a un grazioso villaggio. Composto di venti e più solidissime capanne, difeso da una triplice linea di trincee armate di grossi cannoni e da numerosissime spingarde, da alte palizzate e da profondi fossati irti di aguzze punte di ferro.

Un centinaio di malesi semi-nudi, ma tutti armati fino ai denti, uscirono dalle trincee e si slanciarono verso la spiaggia, mandando urla selvagge, agitando pazzamente kriss avvelenati, scimitarre, scuri, picche, carabine e pistole.

– Dove siamo? – chiese Kammamuri con inquietudine.

– Nel nostro villaggio – rispose il portoghese.

– È qui che abita la Tigre della Malesia?

– Abita lassù, dove ondeggia quella bandiera rossa.

Il maharatto alzò il capo, e sulla cima di una gigantesca rupe che cadeva a picco sul mare, scorse una gran capanna difesa da parecchie palizzate, su cui si agitava maestosamente una grande bandiera rossa adorna d’una testa di tigre.

– Andremo lassù? – domandò con commozione.

– Sì, amico – rispose Yanez.

– Come mi riceverà?

– Come si deve accogliere un coraggioso.

– La vergine della pagoda d’Oriente verrà con noi?

– Per ora no.

– Perché? – Perché quella donna somiglia a…

S’interruppe. Una rapida commozione aveva alterato improvvisamente i suoi lineamenti e i suoi occhi si inumidirono. Kammamuri se ne accorse.

– Voi mi sembrate commosso, signor Yanez – disse.

– T’inganni – rispose il portoghese, tirando a sé la ribolla per evitare la punta estrema di una scogliera che riparava la baia. – Sbarchiamo, Kammamuri.

Il praho si era arenato con la prua verso la costa.

Il portoghese, Kammamuri, la pazza e i pirati sbarcarono.

– Conducete questa donna nella migliore abitazione del villaggio – disse Yanez, additando ai pirati la pazza.

– Le faranno del male? – domandò Kammamuri.

– Nessuno ardirà toccarla – disse Yanez. – Le donne qui si rispettano forse più che in India ed in Europa. Vieni, maharatto.

Si diressero verso la gigantesca rupe e salirono una stretta scala scavata nel vivo masso, lungo la quale erano scaglionate sentinelle armate di carabine e di scimitarre.

– Perché tante precauzioni? – chiese Kammamuri.

– Perché la Tigre della Malesia ha centomila nemici.

– Non è amato dunque il capitano?

– Noi lo idolatriamo, ma gli altri… Se tu sapessi, Kammamuri, come gl’inglesi lo odiano. Eccoci giunti: non temere nulla.

Infatti giungevano allora dinanzi alla gran capanna, difesa pur questa da trincee, da gabbionate, da fossati, da cannoni, da mortai e da spingarde del secolo precedente.

Il portoghese spinse prudentemente una grossa porta di legno di teck, capace di resistere al cannone, e introdusse Kammamuri in una stanza tappezzata di seta rossa, ingombra di carabine d’Europa, di scuri, di kriss malesi, di yatagan turchi, di pugnali, di bottiglie, di pizzi, di stoffe, di maioliche della Cina e del Giappone, di mucchi d’oro, di verghe d’argento, di vasi riboccanti di perle e di diamanti.

Nel mezzo, semisdraiato su di un ricco tappeto di Persia, Kammamuri scorse un uomo dal volto abbronzato, vestito sfarzosamente all’orientale, con vesti di seta trapunta in oro e lunghi stivali di pelle pure rossa a punta rialzata.

Quell’individuo non dimostrava più di trentaquattro o trentacinque anni. Era alto di statura, stupendamente sviluppato, con una testa superba, una capigliatura folta, ricciuta, nera come l’ala di un corvo, che gli cadeva in pittoresco disordine sulle robuste spalle.

 

Alta era la sua fronte, scintillante lo sguardo, sottili le labbra, atteggiate ad un sorriso indefinibile, magnifica la barba che dava ai suoi lineamenti un aspetto fiero che incuteva ad un tempo rispetto e paura.

Nell’insieme, s’indovinava che quell’uomo possedeva la ferocia di una tigre, l’agilità di una scimmia e la forza di un gigante.

Appena vide entrare i due personaggi, con uno scatto si alzò a sedere, fissando su di loro uno di quegli sguardi che penetrano nel più profondo dei cuori.

– Che cosa mi rechi? – chiese con voce metallica, vibrante.

– La vittoria, innanzi tutto – rispose il portoghese. – Ti conduco però un prigioniero. -

La fronte di quell’uomo s’oscurò. – È forse quell’indiano l’individuo che tu hai risparmiato? – domandò egli, dopo qualche istante di silenzio.

– Sì, Sandokan. Ti dispiace, forse?

– Tu sai che rispetto i tuoi capricci, amico mio.

– Lo so, Tigre della Malesia.

– E che cosa vuole quell’uomo?

– Diventare un tigrotto. L’ho veduto battersi, è un eroe.

Lo sguardo della Tigre divenne lampeggiante. Le rughe che solcavano la sua fronte scomparvero come le nubi sotto un vigoroso colpo di vento.

– Avvicinati – disse all’indiano.

Kammamuri, ancora sorpreso di trovarsi dinanzi al leggendario pirata che per tanti anni aveva fatto tremare i popoli della Malesia, si fece innanzi.

– Il tuo nome? – chiese la Tigre.

– Kammamuri.

– Sei?

– Maharatto.

– Un figlio di eroi dunque?

– Dite il vero, Tigre della Malesia – disse l’indiano con orgoglio.

– Perché hai lasciato il tuo paese?

– Per recarmi a Sarawak.

– Da quel cane di James Brooke? – chiese la Tigre con accento d’odio.

– Non so chi sia questo James Brooke.

– Meglio così. Chi hai a Sarawak per recarti laggiù?

– Il mio padrone.

– Cosa fa? È soldato del rajah, forse?

– No, è prigioniero del rajah.

– Prigioniero? E perché?

L’indiano non rispose.

– Parla – disse brevemente il pirata. – Voglio sapere tutto.

– Avrete la pazienza di ascoltarmi? La storia è lunga quanto terribile.

– Le storie terribili e sanguinose piacciono alla Tigre; siedi e narra.

4. Un terribile dramma

Kammamuri non se lo fece ripetere due volte. Si sedette in mezzo ad un mucchio di velluti sgualciti, bruttati qua e là di macchie, e, dopo essere rimasto alcuni istanti silenzioso, come per raccogliere le idee, disse: – Tigre della Malesia, avete udito parlare delle Sunderbunds del sacro Gange?

– Non conosco quelle terre – rispose il pirata, – ma so cos’è il delta di un fiume. Tu vuoi parlare dei banchi che ostruiscono la foce della grande fiumana.

– Sì, dei grandi ed innumerevoli banchi coperti di canne giganti e popolati di feroci animali che si estendono per molte miglia dalla foce dell’Hugly a quella del Gange. Il mio padrone era nato là in mezzo, in un’isola che si chiama la jungla nera. Era bello, era forte, era prode, il più prode che io abbia incontrato nella mia vita avventurosa. Nulla lo faceva tremare: né il veleno del cobra-capello, né la forza prodigiosa del pitone, né gli artigli della grande tigre del Bengala, né il laccio dei suoi nemici.

– Il suo nome? – chiese il pirata. – voglio conoscere questo eroe.

– Si chiamava Tremal-Naik, il cacciatore di tigri e serpenti della jungla nera.

La Tigre della Malesia a quel nome si alzò, guardando fisso il maharatto.

– Cacciatore di tigri, hai detto? – domandò.

– Sì.

– Perché tale soprannome?

– Perché cacciava le tigri della jungla.

– Un uomo che affronta le tigri non può essere che un coraggioso. Senza conoscerlo, sento già di amare quel fiero indiano. Tira avanti: divento impaziente.

– Una sera Tremal-Naik ritornava dalla jungla. Era una sera magnifica, una vera sera del Bengala; dolce e profumata era l’aria, ancor fiammeggiante l’orizzonte e debolmente stellato il firmamento.

Aveva già percorso un lungo tratto senza incontrare anima viva, quando gli si rizzò dinanzi, a meno di venti passi, fra un cespuglio di mussenda, una giovinetta di meravigliosa bellezza.

– Chi era?

– Era una creatura dalla carnagione rosea, coi capelli neri e gli occhi immensi.

Lo fissò per un istante con sguardo malinconico, poi sparve. Tremal-Naik fu così vivamente toccato da quell’apparizione che arse d’amore per la fanciulla sconosciuta.

Pochi giorni dopo un delitto veniva commesso sulle rive di un’isola che si chiama Raimangal. Uno dei nostri, che si era recato colà a cacciare la tigre, veniva trovato cadavere con un laccio al collo.

– Oh!… – esclamò il pirata, al colmo della sorpresa. – Chi poteva aver strangolato un cacciatore di tigri?

– Siate paziente e lo saprete. Tremal-Naik, come vi dissi, era un uomo coraggioso. Mi prese con sé e sbarcammo a mezzanotte a Raimangal, risoluti a vendicare lo sventurato nostro compagno.

Dapprima udimmo rumori misteriosi che uscivano di sotto terra, poi dal tronco di un gigantesco banian sbucarono parecchi uomini nudi, bizzarramente tatuati. Quegli uomini erano gli assassini del povero cacciatore di tigri.

– Ebbene? – chiese il pirata, i cui occhi brillavano di gioia.

– Tremal-Naik non esitava mai. Un colpo di carabina bastò per gettare a terra il capo di quegli indiani, poi fuggimmo.

– Bravo Tremal-Naik! – esclamò la Tigre con entusiasmo. – Continua. Mi diverto più a udire questa storia che ad abbordare un vascello carico di minerale giallo.

– Il mio padrone, per far perdere le tracce a quegli uomini che ci inseguivano, si separò da me e si rifugiò in una grande pagoda dove ritrovò… indovinate chi?

– La giovanetta forse?

– Sì, la giovanetta che era prigioniera di quegli uomini.

– Ma chi erano?

– Gli adoratori di una divinità feroce che altro non brama che vittime umane. Si chiama Kalì.

– La terribile dea dei thugs indiani?

– La dea degli strangolatori.

– Quegli uomini sono più feroci delle tigri. Oh! io li conosco – disse il pirata. – Ne ebbi qualcuno nella mia banda.

– Un thug nella tua banda? – esclamò il maharatto, rabbrividendo. – Sono perduto.

– Non aver paura, Kammamuri; un tempo ne ebbi qualcuno, ma ora non ne ho più. Continua il tuo racconto.

– La fanciulla, che amava ormai il mio padrone, conoscendo quali pericoli lo circondavano, lo scongiurò di partire all’istante; ma egli non era uomo da aver paura. Rimase là in attesa dei feroci thugs, risoluto a misurarsi con loro e, potendo, a rapire la prigioniera. Ma ohimè! Aveva troppo confidato nelle sue forze. Poco dopo dodici uomini armati di laccio entravano e si scagliavano contro di lui e, malgrado la sua ostinata difesa, veniva atterrato, legato e poi pugnalato dal capo degli strangolatori, il feroce Suyodhana.

– E non morì? – chiese Sandokan, che si interessava al racconto.

– No – continuò Kammamuri, – non morì poiché più tardi io lo ritrovai in mezzo alla jungla, insanguinato, col pugnale ancora infisso nei petto, ma vivo.

– E perché lo avevano gettato nella jungla? – chiese Yanez.

– Perché le tigri lo divorassero. Lo portai nella nostra capanna e dopo molte cure guarì, ma il suo cuore era rimasto ferito dagli occhi neri della giovinetta… Un giorno, dopo essere scampato a parecchi agguati tesigli dai thugs, risolvette di partire per Raimangal, deciso a tutto pur di rivedere l’amata creatura. C’imbarcammo di notte, durante un uragano, scendemmo il Mangal e approdammo all’isola.

Nessun uomo vegliava all’entrata dei banian e ci sprofondammo sotto terra addentrandoci in oscurissimi corridoi. Avevamo saputo che i thugs, non essendo riusciti ad estirpare dal cuore della giovinetta dagli occhi neri l’amore per Tremal-Naik, avevano deciso di bruciarla viva, per calmare l’ira della mostruosa dea, e noi correvamo a salvarla.

– Ma perché era proibito a quella donna di amare? – chiese Yanez.

– Perché era la guardiana della pagoda consacrata alla dea Kalì e, come tale, doveva mantenersi pura.

– Che razza di bricconi!

– Continuo: dopo aver percorso lunghi corridoi, uccidendo le sentinelle, ci trovammo in una immensa sala sostenuta da cento colonne e illuminata da una infinità di lampade che spandevano all’intorno una luce spettrale. Duecento indiani, coi lacci in mano, erano seduti all’intorno. In mezzo si ergeva la statua di Kalì: dinanzi a lei, il bacino dove nuota un pesciolino rosso, che si dice contenga l’anima della dea; e più oltre si levava un gran rogo.

Alla mezzanotte ecco apparire il capo Suyodhana coi suoi sacerdoti che trascinavano l’infelice ragazza, ubriacata di oppio e di misteriosi profumi. Ella non opponeva più alcuna resistenza.

Già non distava che pochi passi dal rogo; già un uomo aveva acceso una fiaccola e i thugs avevano intonato la preghiera dei defunti, quando io e Tremal-Naik ci slanciammo come leoni in mezzo all’orda, scaricando le nostre armi a destra e a sinistra. Sfondare quella muraglia umana, strappare la giovinetta dalle mani dei sacerdoti e fuggire attraverso le oscure gallerie, fu l’affare di un sol momento. Dove fuggivamo? Nessuno di noi lo sapeva, non ci si pensava in quel supremo istante. Non cercavamo che di guadagnare strada sui thugs, i quali, rimessisi dallo spavento, si erano subito lanciati sulle nostre tracce! Corremmo per una buona ora addentrandoci sempre più nelle viscere della terra finché, trovato un pozzo, ci calammo entro una caverna che non aveva uscite. Quando cercammo di risalire era troppo tardi: i thugs ci avevano rinchiusi dentro!

– Maledizione! – esclamò Sandokan. – Di’ su, maharatto mio; la tua storia è interessantissima. Dimmi, siete fuggiti?

– No.

– Mille tuoni!

– Ci assediarono strettamente, ci assetarono accendendo attorno alla caverna immensi fuochi che ci arrostivano vivi, poi lasciarono irrompere su di noi un getto d’acqua alla quale era stato mescolato non so quale narcotico. Appena ci fummo dissetati, stramazzammo al suolo come colpiti da sincope e cademmo senza resistenza nelle mani dei nostri nemici.

Eravamo ormai rassegnati a morire, poiché nessuno di noi ignorava che la pietà è sconosciuta ai thugs, nondimeno fummo risparmiati. La morte sarebbe stata troppo dolce per noi e nella mente infernale di Suyodhana, il capo degli strangolatori, si era già formato un terribile disegno, che aveva per scopo di svellere dal cuore della giovinetta l’amore per Tremal-Naik e di sbarazzarsi del mio padrone, che avrebbe potuto diventare per loro un formidabile nemico. Dovete sapere che a quel tempo un uomo prode, risoluto, cui era stata rapita la figlia dai thugs, faceva loro una guerra accanita. Quell’uomo era un inglese e si faceva chiamare capitano Macpherson.

Centinaia e centinaia di thugs erano caduti per sua mano, e giorno e notte egli inseguiva gli altri senza tregua, potentemente aiutato dal governo inglese. Né i lacci degli strangolatori, né i pugnali dei più fanatici settari erano giunti a colpirlo, né le più infernali trame avevano avuto successo contro di lui.

Suyodhana, che lo temeva assai, gli lanciò contro Tremal-Naik promettendogli per compenso la mano della vergine della pagoda d’Oriente, così infatti aveva nome la fanciulla dai capelli neri amata dal mio padrone. La testa del capitano doveva essere il regalo di nozze!

– E Tremal-Naik accettò? – chiese la Tigre, con viva ansietà.

– Egli amava troppo la Vergine e accettò l’orribile patto di sangue impostogli dal padre delle sacre acque del Gange, lo spietato Suyodhana. Non vi narrerò tutto ciò che egli tentò, tutti i pericoli in cui incorse per poter avvicinare quel disgraziato capitano.

Una fortuita combinazione gli procurò il mezzo di diventare uno dei suoi servi, ma un giorno venne scoperto e dovette penare assai per ricuperare la libertà e salvare la vita.

Non rinunziò tuttavia ad effettuare l’impresa impostagli dai thugs ed un giorno riuscì ad imbarcarsi su di una nave che il capitano Macpherson guidava verso le Sunderbunds per assalire nel loro covo i seguaci della sanguinaria dea.

L’istessa notte, scortato da alcuni complici, entrava nella cabina del capitano per decapitarlo. La sua coscienza gli gridava di non commettere un delitto, perché la vita di quell’uomo doveva essere sacra per lui, ed il suo sangue si ribellava; pure era deciso, poiché solamente uccidendo quel formidabile avversario avrebbe potuto avere la fidanzata: o almeno così credeva, non conoscendo ancora l’infernale perversità del fanatico Suyodhana.

 

– E lo uccise? – chiesero Sandokan e Yanez, con ansietà.

– No – disse Kammamuri. – In quel supremo istante il nome della donna amata sfuggì dalle labbra del mio padrone e fu udito dal capitano che stava per risvegliarsi. Quel nome fu un colpo di fulmine per entrambi: risparmiò un assassinio ed un raccapricciante delitto, poiché quel capitano era il padre della donna amata dal mio padrone.

– Per Giove!… – esclamò Yanez. – Quale storia tremenda ci narri!…

– La verità, signor Yanez.

– Ma il tuo padrone non conosceva il nome della sua fidanzata?…

– Sì, ma il padre ne aveva assunto un altro per non far comprendere ai thugs che egli lottava per riavere la figlia, perché temeva che, conoscendolo, gliela uccidessero.

– Continua – disse Sandokan.

– Ciò che accadde potete immaginarvelo. Il mio padrone confessò tutto: aveva finalmente compreso l’infernale astuzia di Suyodhana. Si offerse al capitano di guidarlo nelle caverne dei settari. Sbarcarono a Raimangal, il mio padrone entrò nel tempio sotterraneo fingendo di portare con sé la testa del capitano e, quando poté rivedere la fanciulla amata, gl’inglesi piombarono sui thugs. Suyodhana, però, uscì vivo dall’assalto improvviso dei nemici, e quando il mio padrone, il capitano, la fidanzata ed i soldati lasciarono i sotterranei per ritornare alla nave, lo udirono gridare con voce minacciosa:

«Ci rivedremo nella jungla!…».

E quell’uomo sinistro manteneva la parola. A Raimangal si erano radunate parecchie centinaia di strangolatori essendo già stati informati della spedizione del capitano Macpherson. Guidati da Suyodhana piombarono, venti volte più numerosi, sugli inglesi. L’equipaggio della nave invano accorse in aiuto del suo capitano. Tutti caddero fra le erbe giganti della jungla, schiacciati dal numero, e il capitano per primo. Perfino la nave fu presa, incendiata e fatta saltare in aria.

Solo Tremal-Naik e la sua fidanzata erano stati risparmiati. Aveva rimorso, Suyodhana, a spegnere anche il mio padrone che tanto aveva fatto per quegl’infami, oppure sperava di fare di lui un thug? Io non lo seppi mai.

Ma, tre giorni dopo, il mio padrone, che era stato fatto impazzire mediante la somministrazione di un liquore misterioso, veniva arrestato dalle autorità inglesi presso il forte Williams. Era stato denunciato come thug ed i testimoni non erano mancati, poiché quella setta conta numerosi seguaci anche a Calcutta.

Fu risparmiato perché era pazzo, ma condannato alla deportazione perpetua nell’isola di Norfolk, una terra al sud d’una regione chiamata Australia, così mi dissero.

– Quale spaventevole dramma!– esclamò la Tigre, dopo alcuni istanti di silenzio. – Così intensamente Suyodhana odiava lo sventurato Tremal— Naik?

– Il capo dei settari voleva, facendo decapitare il capitano dal mio padrone, spegnere per sempre la passione che ardeva nel cuore della vergine della pagoda.

– Era un mostro quel feroce capo dei thugs.

– Ma il tuo padrone è ancora pazzo? – chiese Yanez.

– No, i medici riuscirono a guarirlo.

– E non si difese? Non svelò tutto?…

– Lo tentò, ma non fu creduto.

– Ma perché si trova a Sarawak?…

– Perché il legno che lo trasportava a Norfolk naufragò presso Sarawak. Disgraziatamente nelle mani del rajah non ci starà molto.

– E perché?

– Perché la nave è già partita dall’India e fra sei o sette giorni, se i miei calcoli non m’ingannano, giungerà a Sarawak. Quella nave è diretta a Norfolk.

– Come si chiama quella nave?

– L’Helgoland.

– L’hai vista tu?

– Prima di lasciare l’India.

– E dove ti recavi colla Young-India?

– A Sarawak a salvare il mio padrone – disse Kammamuri con fermezza.

– Solo?

– Solo.

– Sei un giovanotto audace, maharatto mio – disse la Tigre della Malesia. – E della vergine della pagoda d’Oriente cosa fece il terribile Suyodhana?

– La tenne prigioniera nei sotterranei di Raimangal, ma la disgraziata, dopo il sanguinoso assalto dei thugs nella jungla, era impazzita.

– Ma come fuggì dalle mani dei thugs? – chiese Yanez.

– È fuggita? – domandò Sandokan

– Sì, fratellino.

– E dove si trova?

– Lo saprai più tardi. Narrami, Kammamuri, in che modo fuggì – disse Yanez.

– Ve lo dirò in due parole – disse il maharatto. Io ero rimasto coi thugs anche dopo l’atroce vendetta di Suyodhana, e vegliavo attentamente sulla vergine della pagoda. Saputo, dopo parecchio tempo, che il mio padrone era stato condannato alla deportazione nell’isola di Norfolk e che la nave che lo trasportava era naufragata a Sarawak, meditai la fuga. Comperai un canotto, lo nascosi in mezzo alla jungla, e una sera d’orgia, mentre i thugs, ubriachi fradici, non erano più in grado di uscire dai loro sotterranei, mi recai alla pagoda sacra, pugnalai gl’indiani che la custodivano, afferrai fra le mie braccia la Vergine e fuggii.

All’indomani io ero a Calcutta e quattro giorni dopo a bordo della Young-India.

– E la Vergine? – chiese Sandokan.

– È a Calcutta – s’affrettò a dire Yanez.

– È bella?

– Bellissima – disse Kammamuri. – Ha i capelli neri e splendidi occhi scuri.

– E si chiama?

– La vergine della pagoda, vi ho detto.

– Non ha nessun altro nome?

– Sì.

– Dimmelo.

– Si chiama Ada Corishant.

A quel nome la Tigre della Malesia aveva fatto un balzo, gettando un urlo terribile.

– Corishant!… Corishant!… Il nome dell’adorata madre della mia povera Marianna!… Dio!… Dio!… – urlò con accento disperato.

Poi piombò sul tappeto con la faccia orribilmente sconvolta e le mani contratte sul cuore. Un rauco singhiozzo, che parve un ruggito, lacerò il suo petto.

Kammamuri, spaventato, sorpreso, si era alzato per accorrere in aiuto del pirata, che pareva fosse stato colpito a morte, ma due mani robuste lo arrestarono.

– Una parola – gli disse il portoghese, tenendolo stretto per le spalle. – Come si chiamava il padre di quella giovinetta?

– Harry Corishant – rispose il maharatto.

– Gran Dio!… Ed era?

– Capitano dei sipai.

– Esci di qui!

– Ma perché?… Che cosa è accaduto?…

– Silenzio, esci di qui!

E, riafferrandolo per le spalle, lo spinse bruscamente fuori della porta, che richiuse con un doppio giro di chiave.